Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-12-2010) 08-02-2011, n. 4516 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli investito ex art. 310 c.p.p. dell’appello proposto dall’imputato C.R., ha confermato l’ordinanza del Tribunale di Nola che in data 10 agosto 2010 aveva nuovamente applicato al ricorrente, ex art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), la custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., in relazione al quale il C. era stato condannato con sentenza in data 31 maggio 2010 alla pena di 10 anni di reclusione e quindi scarcerato, il giorno 7 maggio 2010, per decorrenza dei termini di fase con riguardo alla carcerazione patita per effetto della misura originariamente disposta nei suoi confronti in data 2 maggio 2007.

A ragione della decisione il Tribunale osservava che operava, atteso il titolo del reato, la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. Nel caso in esame detta presunzione non poteva in alcun modo ritenersi vinta, il pericolo di fuga apparendo direttamente ricollegabile alla entità della pena inflitta in primo grado, considerata in correlazione alla negativa personalità dell’imputato desumibile dai suoi precedenti penali (da ultimo, nel 2006, il C. era stato fermato in possesso di un chilo di cocaina, patteggiando la pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione), alla natura dei fatti per i quali era intervenuta condanna, all’inserimento del condannato in una associazione di stampo mafioso nel cui ambito la latitanza costituiva fatto consueto.

Quanto alle allegazioni difensive, il Tribunale affermava che non poteva ritenersi non più esistente la organizzazione criminale d’appartenenza, atteso quanto emergeva dalla misura cautelare del 2007 circa la ricostruzione della struttura operativa a seguito degli arresti del 2003. L’affermata posizione marginale del C. era smentita dalle dichiarazioni dei collaboratori e dalle intercettazioni, in particolare dalle dichiarazioni del P. che lo indicava come soggetto operante in stretta collaborazione con il capo clan Nino Alfonso e dalle richieste a lui rivolte nelle conversazioni intercettate. Mentre la circostanza allegata dalla difesa, dell’accordo per l’affitto di un appartamento per sè e la sua famiglia all’atto della scarcerazione, che peraltro non poteva ritenersi adeguatamente provata dalla scrittura prodotta dalla difesa, non appariva in ogni caso idonea a smentire di per sè il pericolo di fuga.

2. L’imputato ricorre con due distinti atti a mezzo dei difensori avvocati Camillo Irace e Sergio Cola e chiede l’annullamento della ordinanza impugnata.

3. Con il ricorso a firma dell’avvocato Irace si denunzia:

3.1. violazione di legge (degli artt. 274, 275 e 307 c.p.p.) in relazione all’assunto che la presunzione di cui all’art. 275, comma 3 operava nella ipotesi considerata, di ripristino della misura ai sensi dell’art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), in contrasto con l’opposto principio affermato da S.U. n. 34537 del 11/7/2001, Litteri;

3.2. violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla esistenza di elementi che consentivano di ritenere concreto il pericolo di fuga, sul rilievo in particolare: che la finalità della norma imponeva di effettuare il giudizio prognostico di probabilità della fuga anche in base ai tempi del processo (lunghi nel caso in esame nel quale la sentenza di primo grado non era stata ancora depositata); che la misura poteva essere disposta soltanto sulla base di esigenze cautelari nuove, sopravvenute alla scarcerazione (cita Sez. 1 n. 3035 del 10.1.2005); che il Tribunale erroneamente aveva considerato la sentenza fatto nuovo, giacchè essa non era sopravvenuta alla scarcerazione, ma era ad essa precedente; che si sarebbero dovuti prendere in considerazione anche parametri soggettivi e individualizzanti di un pericolo di fuga, non valutati dal Tribunale ed esclusi dal comportamento tenuto dal C. all’atto della scarcerazione (stabilendosi in un albergo e cercando con la moglie un appartamento in affitto nel comune di Minturno, in modo da poter partecipare al processo di secondo grado e soggiacere ai controlli disposti nei suoi confronti);

3.3. violazione di legge, perchè l’art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), può trovare applicazione soltanto quando la scarcerazione è antecedente la sentenza di condanna, non quando, come nel caso in esame, sia ad essa sopravvenuta (cita sez. 5, n. 311 del 20.1.2000, Bidognetti), e deve fondarsi sul pericolo di fuga desumibile dal comportamento tenuto in libertà, situazione neppure figurabile nel caso in esame, nel quale il C. aveva riacquistato la libertà soltanto da un giorno;

3.4. violazione di legge e vizi della motivazione, dal momento che il Tribunale non poteva trarre argomento del pericolo di fuga dalla mera appartenenza del C. al clan camorristico, dovendo al contrario considerare che il ridotto spessore criminale del ricorrente, mero partecipe, non imputato di reati fine, senza alcun ruolo nel traffico di stupefacenti e nella detenzione delle armi, la cui condanna patteggiata per droga non aveva alcun collegamento con l’ipotesi associativa (secondo quanto riconosciuto nella stessa sentenza di patteggiamento), le cui condotte oggetto di contestazione condanna nel procedimento in esame si riferivano esclusivamente al periodo gennaio 2001 -novembre 2003, ovverosia a circa sette anni addietro;

per omessa valutazione, insomma, non solo della distanza temporale dei fatti, ma soprattutto della assenza di manifestazioni della perdurante esistenza del clan di riferimento dopo il 2003; per l’astrattezza dell’affermazione secondo cui il C. apparteneva ad organizzazione di riferimento nella quale era consueta la latitanza, la sottrazione di alcuni personaggi al processo essendo lontana nel tempo, riferibile a momenti in cui ancora operava il capo clan Nino e legata a vicende affatto personali ed essendo invece tutti gli esponenti del clan nel frattempo deceduti o morti.

4. Con il ricorso a firma dell’avvocato Cola si rinnovano le censure sviluppate nel ricorso Iraci e si aggiunge, a sostegno ulteriore delle doglianze in punto di difetto di motivazione, la denunzia di mancanza assoluta di risposta alle deduzioni difensive articolate con memoria depositata ai sensi dell’art. 121 c.p.p. nell’udienza camerale del giorno 8 settembre 2010, relativa:

– alla marginalità del coinvolgimento del C., con il solo ruolo di "colletto bianco"nel gruppo camorristico, suffragato da copiose allegazioni delle risultanze dibattimentali, del tutto pretermesse dal Tribunale che s’era limitato a richiamare l’impianto dell’originario provvedimento cautelare, in realtà parzialmente smentito dalle prove acquisite in contraddittorio (si riportano a sostegno brani delle dichiarazioni del P., assertivamente sempre impreciso, sul ruolo non specifico del C.; sul fatto che gli altri due pentiti non avevano mai fatto il nome del C. e che neppure le intercettazioni fornivano alcun riscontro ad un ruolo specifico del C.; sulla diversa interpretazione della conversazione citata dal tribunale emersa a seguito del riascolto a dibattimento) e in qualche parte contraddetto anche dalle considerazioni del Giudice per le indagini preliminari in sede di convalida del fermo.
Motivi della decisione

1. Il motivo che attiene alla inapplicabilità della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 nel caso in esame, è fondato ma a parere della Corte irrilevante.

1.1. Sez. U, n. 34537 del 11/07/2001, Litteri, correttamente evocata in ricorso, chiarisce che ai fini del ripristino, determinato da sopravvenuta condanna, della custodia cautelare nei confronti di imputato scarcerato per decorrenza dei termini, la sussistenza del pericolo di fuga non può essere ritenuta nè sulla base della presunzione, ove configurabile, di sussistenza delle esigenze cautelari stabilita dall’art. 275 c.p.p., comma 3, nè per la sola gravità della pena inflitta con la sentenza, che è soltanto uno degli elementi sintomatici per la prognosi da formulare al riguardo, la quale va condotta non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga.

Diversa ipotesi è invece quella in cui la misura coercitiva venga disposta, per la prima volta, contestualmente o successivamente alla pronuncia della sentenza di condanna dell’imputato, nella quale opera la prescrizione presuntiva ex art. 275 c.p.p., comma 3, di esclusiva adeguatezza della misura coercitiva di maggior rigore, secondo quanto rilevano, tra molte, Sez. 1, n. 18955 del 07/04/2004, Branciforte, Rv. 228161 e Sez. 1, n. 30298 del 24/04/2003, Privitera, Rv. 226250;

cui si rifà pure Sez. 1, n. 13904 del 11/12/2008, Genovese, Rv.

243129, citata dunque non pertinentemente nel provvedimento impugnato.

1.2. L’errore di diritto in cui è incorso il Tribunale è da considerare però secondo il Collegio non decisivo, perchè il Tribunale ha motivato osservando che "in ogni caso" sussistevano, in positivo, ragioni che facevano ritenere esistente un concreto pericolo di fuga seguendo proprio lo schema induttivo indicato dalla sentenza Letteri e da Sez. 1, n. 49342 del 12/11/2009, De Nicola, Rv.

245640 e da Sez. 6, n. 30972 del 10/07/2007, Vaglica, Rv. 237331, secondo cui ai fini del ripristino della custodia cautelare, contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna ai sensi dell’art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), l’entità della pena inflitta costituisce un elemento di imprescindibile valenza se, in presenza di ulteriori circostanze oggettive quali l’inserimento dell’imputato in una pericolosa associazione criminale e la sua frequentazione con persone di particolare spessore delinquenziale, rende ragionevolmente probabile il pericolo di fuga del condannato.

2. La deduzione con cui si sostiene che la definizione del giudizio avrebbe richiesto tempi processuali ancora molto lunghi è di fatto e meramente ipotetica.

3. Le doglianze con cui si denunzia la violazione dell’art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), perchè la norma può trovare applicazione soltanto quando la scarcerazione è antecedente la sentenza di condanna, è infondata.

Il richiamo a Sez. 1 n. 3035 del 10.1.2005 non è pertinente perchè detta sentenza si riferisce a ipotesi di adozione delle misure di cui all’art. 307 c.p.p., comma 1 con provvedimento successivo alla scarcerazione, ma senza che fosse intervenuta sentenza di condanna (anche solo di primo grado).

E’ invece orientamento consolidato che l’anteriorità cui va riferita la previsione dell’art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), non attiene al momento in cui viene riconosciuta la intervenuta decorrenza dei termini di custodia cautelare, bensì al momento in cui detta decorrenza si è verificata, che deve essere antecedente la sentenza di condanna, e al quale viene ad essere ricollegata la scarcerazione;

non impedisce perciò l’operatività di detta norma la circostanza dovuta a inconvenienti di fatto, che la scarcerazione sia stata disposta in ritardo e ora per allora, come è avvenuto nel caso di specie (cfr. Sez. 5, n. 311 del 20/01/2000, Tuccio, Rv. 215993, il cui contenuto è equivocato dal ricorso, perchè la decisione chiarisce che la disposizione di cui si parla autorizza il ripristino della custodia cautelare, contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo o di secondo grado quando si accerti che la scarcerazione per decorrenza dei termini è avvenuta o sarebbe dovuta avvenire prima; Sez. 1, n. 4484 del 27/06/1997, Bidognetti, Rv. 208419).

4. Infondata è anche l’affermazione che il pericolo di fuga andrebbe necessariamente desunta dai comportamenti tenuti in stato di libertà successivamente alla scarcerazione per decorrenza termini. La norma non va alcun riferimento a tale limitazione e il contrario emerge chiaramente proprio dai criteri indicati come legittimamente utilizzabili da S.U. Letteri.

5. Le censure ulteriori censure, in vario modo riferite all’omessa valutazione di aspetti soggettivi od oggettivi che avrebbero dovuto in tesi escludere il pericolo di fuga, ovvero all’omessa risposta a deduzioni difensive che avrebbero dovuto convincere della marginalità del ruolo del C. e della sua distanza dal clan, che si sostiene da tempo definitivamente disciolto, sono infine da un lato da considerare infondate, perchè il Tribunale ha congruamente valutato gravità dei fatti, capacità criminale dell’associazione di stampo mafioso e dei suoi componenti, ruolo del ricorrente e sua proclività a delinquere (richiamando una recente applicazione di pena per un reato in materia di stupefacenti), l’irrilevanza dell’allegata esistenza di un accordo per un contratto di locazione;

dall’altro attengono ad apprezzamenti di merito non incongruamente giustificati e perciò insindacabili in questa sede. Le allegazioni che sostengono l’attuale inoperatività del clan di riferimento sono quindi anche generiche e prive di autosufficienza. Mentre del tutto plausibile è il riferimento a massime di esperienza circa la notoria capacità di favorire la latitanza di organizzazioni di stampo mafioso quali quella nel quale il ricorrente risultava inserito.

Potendosi solo aggiungere che le deduzioni difensive circa la marginalità della partecipazione del ricorrente neppure appaiono coerenti con l’entità della pena in concreto irrogata (dieci anni di reclusione).

6. Conclusivamente, il ricorso (articolato nei due atti ciascuno a firma di uno dei due difensori) deve essere nel suo complesso rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà del ricorrente, la cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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