Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-10-2010) 09-02-2011, n. 4608

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 1 luglio 2005, dichiarava C.P. e M.L. colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 574 c.p., loro ascritto, e riconosciute a entrambe le attenuanti generiche, condannava la C. alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione e la M. a quella di anni uno di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, con provvisionale di Euro 20.000.

Le imputate erano state ritenute responsabili di avere, in concorso tra loro, sottratto il minore B.F., figlio della C. e nipote ex figlia della M., al padre B. L., marito separato della C., al quale il minore era stato affidato ed essendo l’unico genitore esercente la potestà sul figlio minore; condotta realizzata trattenendo il minore in località sconosciuta (in Roma e in altro luogo, dal 21 gennaio 2002, data della sentenza del Tribunale di Roma quanto alla C. e dal 29 giugno 1999 quanto alla M.).

2. A seguito di impugnazione delle imputate, la Corte di appello di Roma, con sentenza del 29 gennaio 2008, in parziale riforma della sentenza impugnata, riconosciuto alla C. il vincolo della continuazione tra i fatti oggetto del procedimento e quelli oggetto del procedimento conclusosi con sentenza in data 3 aprile 2004 della Corte di appello di Roma, determinava, a titolo di aumento per la continuazione, avendo a base la pena inflitta con la predetta sentenza, la pena di mesi otto di reclusione, così determinando la pena complessiva in anni due e mesi tre di reclusione, e revocava per l’effetto il beneficio della sospensione condizionale della pena riconosciuto con la sentenza impugnata; riduceva inoltre la pena inflitta alla M. a mesi otto di reclusione; confermando nel resto la sentenza di primo grado.

3. Osservava la Corte di appello che doveva ritenersi infondata la pretesa della C. di vedersi riconosciuta l’esimente dello stato di necessità in relazione alle dedotte e non dimostrate attenzioni di tipo sessuale del padre verso il figlio, posto che in ogni caso tale timore non avrebbe potuto giustificare una condotta di sottrazione del figlio alla reperibilità sia del padre sia degli organi giurisdizionali.

Quanto alla M., il suo concorso nella sottrazione del nipote si ricavava logicamente dalla circostanza che essa si era resa irreperibile contestualmente alla figlia e dal costante protrarsi di tale condizione sin dal lontano anno 1999. 4. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione le imputate.

5. Il difensore della C., avv. Fava Antonio, denuncia:

5.1. Erronea applicazione della legge penale in punto di procedibilità, non potendo l’imputata, in mancanza di tempestiva querela (proposta solo in data 30 aprile 2002), essere ritenuta ulteriormente punibile dopo che, per la iniziale sottrazione del minore, era stata condannata dal Tribunale di Roma con sentenza in data 4 dicembre 2001, depositata il 3 gennaio 2002, con estratto contumaciale notificato il 21 gennaio 2002, data dalla quale, al più tardi, decorreva il termine di tre mesi di cui all’art. 124 c.p..

5.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento dello stato di necessità, anche sotto il profilo putativo, dato il timore dell’imputata che il marito ponesse in essere comportamenti illeciti nei confronti del figlio, circostanza che si basava su quanto affermato dal figlio, le cui dichiarazioni circa le attenzione sessuali del padre nei suoi confronti erano state documentate in una videocassetta.

6. Il medesimo avvocato, quale difensore della M., denuncia:

6.1. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 546 c.p.p., essendosi la Corte di appello sottratta ai dovere di rispondere alle argomentate deduzioni della difesa, con le quali si criticava la sentenza di primo grado per la mancanza di una dimostrazione del contributo causale, morale o materiale, che l’imputata avrebbe fornito all’azione di sottrazione del minore, tanto più che nulla indicava che l’imputata avesse convissuto con la figlia e il minore a partire dall’inizio della sottrazione di questo, e anzi sarebbe stato possibile accertare che la M. aveva risieduto in (OMISSIS).

6.2. Analoga violazione in punto di mancata verifica circa la rilevanza della prova prodotta dalla difesa, a sostegno della tesi della sussistenza di uno stato di necessità, consistita nel video in cui erano riportate le dichiarazioni del bambino, in cui si manifestava la sua ripulsa a convivere con il padre per le attenzioni sessuali che gli rivolgeva. Circostanza che, se accertata, avrebbe avuto un valore scagionante di particolare rilievo rispetto alla M., ingiustamente equiparata, invece, alla posizione della figlia, che era la sola destinataria del provvedimento del giudice civile circa l’affidamento del minore al padre.

6.3. Erronea applicazione dell’art. 165 c.p., in relazione alla statuizione di subordinazione della sospensione condizionale al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, punto sul quale erano state sollevate specifiche critiche per nulla considerate dalla Corte di appello.

6.4. Eccessività della pena inflitta in relazione ai parametri di cui all’art. 133 c.p..
Motivi della decisione

1. Il ricorso di C.P. è infondato.

1.1. E’ infondata la eccezione di intempestività della querela, in quanto, come rilevato dalla Corte di appello, questa non si fondava sulla medesima perdurante condotta per la quale la C., per il periodo di tempo precedente, aveva riportata condanna in data 4 dicembre 2001, ma su ulteriori fatti appresi, emergenti dalle più recenti indagini della Squadra mobile di Roma.

E’ poi il caso di sottolineare che non ha valore la remissione di querela, fatta pervenire a questa Corte in prossimità della odierna udienza, proposta da B.F., atteso che la procedibilità per il reato deriva dalla querela sporta dal padre B.L., all’epoca unico genitore esercente la potestà parentale sul minore, che l’aveva proposta essendo titolare del relativo diritto, a norma dell’art. 574 c.p..

1.2. La deduzione circa la configurabilità di uno stato di necessità putativo, in considerazione della rappresentazione fatta alla madre dal figlio circa le attenzioni sessuali del padre, è da ritenere infondata.

Va ricordato infatti che lo stato di necessità, per valere come causa di giustificazione, anche putativa, richiede il presupposto della inevitabilità del pericolo e della inevitabile adozione di una condotta di per sè penalmente rilevante che sia proporzionata al pericolo stesso.

La Corte di appello, e più ampiamente il giudice di primo grado, ha esattamente osservato che anche a volere ammettere che l’imputata nutrisse dei timori circa l’atteggiamento del padre nei confronti del figlio, stando a quanto, a suo dire, da questo riferitole, essa ben avrebbe potuto intraprendere iniziative rispettose della legge, anche di tipo urgente, per scongiurare i pericoli da lei paventati; non certo quella di sottrarre il figlio per lunghi anni al padre affidatario, facendo perdere ogni traccia di sè e del figlio sin dal lontano mese di giugno del 1999. 2. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell’imputata al pagamento delle spese del procedimento.

La C. va inoltre condanna a rifondere alla parte civile B.L. le spese sostenute in questo grado, che si determinano, in ragione dell’impegno difensivo, in complessivi Euro 3.000, oltre spese generali e accessori di legge.

3. Diversamente è da dire per il ricorso della M..

I giudici di merito ritengono provato il concorso di essa nella sottrazione del minore osservando succintamente che essa si era resa irreperibile contestualmente alla figlia sin dal 1999, offrendo un sostegno quanto meno morale alla sua condotta illecita.

Ma la difesa, nell’atto di appello, aveva dedotto che nessun elemento concreto, a parte quello della sopravvenuta irreperibilità della M., era stato evidenziato per sostenere l’assunto di un suo contributo, morale o materiale che fosse, nel reato contestato, non essendo sufficiente ipotizzare una mera adesione morale da parte di essa; e per di più che nessun dato processuale sosteneva l’affermazione che la M. avesse convissuto con la figlia e il nipote per tutto il tempo a partire dall’anno 1999, sostenendosi anzi che l’imputata aveva in realtà risieduto in (OMISSIS) e, da ultimo, a partire dal (OMISSIS), sicchè non poteva affatto dirsi provato che essa fosse scomparsa contestualmente alla figlia e che abitasse con lei.

A tali puntuali rilievi la Corte di merito non ha dato alcuna risposta, essendosi essa limitata a replicare in sostanza le sbrigative considerazioni del primo giudice.

4. Si impone pertanto l’annullamento della sentenza nei confronti della M., dovendo altra sezione della Corte di appello di Roma, in sede di giudizio di rinvio, colmare le lacune motivazionali sopra evidenziate, in particolare dando pertinente risposta alle deduzioni svolte dall’imputata nell’atto di appello.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.L. con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo giudizio.

Rigetta il ricorso di C.P. che condanna al pagamento delle spese processuali e al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile B.L., complessivamente liquidate in Euro 3.000, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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