Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-03-2011, n. 6381 Licenziamento per causa di malattia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 18.10.2005 (depositata in data 23.5.2006) la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto l’appello proposto da G. A. avverso la sentenza con cui il Tribunale di Cosenza aveva respinto la domanda proposta dalla ricorrente, volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole dalla Banca Carime spa per superamento del periodo di comporto, nonchè la condanna della Banca al risarcimento dei danni per mobbing. La Corte territoriale, con la citata sentenza, ha ritenuto di confermare, condividendole, le argomentazioni già espresse dal Tribunale secondo cui non vi era prova che il datore di lavoro avesse tenuto un comportamento persecutorio o vessatorio nei confronti della lavoratrice, mentre doveva ritenersi provato che, nella specie, fossero stati superati sia il cd. periodo di comporto sia il periodo di aspettativa previsti dal contratto collettivo del 1999, applicabile alla fattispecie.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.A. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la Banca Carime spa.
Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso vengono denunciate violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., art. 49 ccnl del 11.7.1999 e 87 ccnl del 19.12.1994. La ricorrente sostiene di avere diritto al più lungo periodo di aspettativa per malattia di dodici mesi – rispetto a quello, applicato dalla Banca, di quattro mesi – in virtù della prima norma transitoria in calce all’art. 49 del ccnl del 1999, secondo cui fino alla data di scadenza del contratto (e cioè fino al 31.12.2001) l’applicazione della nuova disciplina in materia di assenza per malattia o infortunio non avrebbe potuto determinare per il lavoratore conseguenze meno favorevoli di quelle derivanti dall’applicazione della pregressa disciplina (cioè quella del ccnl del 1994, in base alla quale la durata dell’aspettativa sarebbe stata, appunto, di dodici mesi).

2.- Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2119 c.c., artt. 1463 e 1464 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, artt. 1175 e 1375 c.c., nonchè errata motivazione. Sostiene che sarebbe stato onere del datore di lavoro attivarsi per ricercare altra mansione equivalente, o anche inferiore, al fine di evitare il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro in una fattispecie nella quale era stato proprio il comportamento del datore di lavoro a determinare una turbativa psicologica ed esistenziale in danno del dipendente. 3.- Il ricorso è infondato. Quanto al primo motivo, deve osservarsi, infatti, che – a prescindere dalla fondatezza o meno della eccezione sollevata con il controricorso dalla società resistente in ordine alla novità della questione prospettata ora dalla ricorrente con riferimento alla prima delle due "norme transitorie" in calce all’art. 49 del ccnl del 1999 – la Corte di merito ha fornito una interpretazione del dato contrattuale che, sia per quanto riguarda la prima che la seconda delle due "norme transitorie", appare adeguata e corretta sul piano logico-giuridico, allorquando afferma che sia alla stregua della seconda norma transitoria – che riguarda specificamente la durata dell’aspettativa ("Nei confronti del personale già destinatario dei contratti collettivi ACRI in servizio al 1 novembre 1999 ed in aspettativa non retribuita per malattia alla data di redazione del testo coordinato del presente contratto, la durata dell’aspettativa stessa è di 12 mesi) – sia alla stregua della prima delle due "norme transitorie" (che prevede che l’applicazione della nuova normativa non potrà avere conseguenze meno favorevoli di quella previgente soltanto "fino alla data di scadenza del presente contratto") il periodo di comporto è stato comunque superato dalla G.. Quest’ultima non ha, da parte sua, prospettato nel ricorso ragioni valide a dimostrare l’erroneità di tale interpretazione, anche mediante la specifica indicazione dei canoni ermeneutici che risulterebbero in concreto violati e del punto in cui il giudice del merito si sarebbe da essi discostato, ma ha fornito soltanto una lettura della contrattazione collettiva diversa da quella del giudice d’appello, senza riuscire però ad invalidare sul piano logico l’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale (sull’applicabilità dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362- 1371 c.c. nell’interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, cfr. ex plurimis Cass. 5892/2005, nonchè Cass. 4714/2005); e tutto ciò a prescindere dalla pur di per sè assorbente considerazione che i contratti collettivi oggetto dell’esame del giudice d’appello non risultano essere stati ritualmente allegati al ricorso per cassazione (sull’onere di produzione del testo integrale dei contratti collettivi sui quali il ricorso si fonda, cfr. ex multis Cass. 4373/2010, Cass. 219/2010, Cass. 27876/2009, Cass. 2855/2009, Cass. 21080/2008, Cass. 6432/2008).

4.- Il secondo motivo è palesemente infondato in quanto, trattandosi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, non sussiste l’obbligo di cd. repechage (cfr. ex plurimis Cass. 1861/2010, Cass. 19676/2005, Cass. 17780/2005). Nè vengono addotti elementi tali da inficiare la motivazione dei giudici di appello in ordine alla insussistenza di comportamenti datoriali di carattere persecutorio o vessatorio nei confronti della dipendente, ovvero elementi tali da rendere evidente l’esistenza di un mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, o di un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.

5.- La sentenza impugnata, per essere adeguatamente motivata, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi in precedenza enunciati, non è, dunque, assoggettabile alle censure che le sono state mosse in sede di legittimità. 6.- Il ricorso deve essere respinto ponendo a carico della ricorrente le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 34,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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