Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 19-01-2011) 10-02-2011, n. 4844 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 22.10.2008, il Tribunale di Catania dichiarò P.V. responsabile del reato di associazione di tipo mafioso e lo condannò alla pena di anni 8 di reclusione, pene accessorie.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame e la Corte d’appello di Catania, con sentenza in data 19.1.2010, in riforma della decisione di primo grado, ritenuta la continuazione fra il reato oggetto del presente procedimento e quello di cui alla sentenza 28.6.2006 della Corte d’assise d’appello di Catania, irrevocabile dal 1 marzo 2007, determinò l’aumento di pena in continuazione di anni 2 di reclusione.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo:

1. vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità in quanto le dichiarazioni del collaborante R. G. non sarebbero riscontrate; sarebbe intrinsecamente contraddittoria l’interpretazione delle intercettazioni data dai giudici di merito, dal momento che da esse si fa discendere che P. avrebbe favorito l’ingresso nell’associazione mafiosa di C.S., per il cui omicidio è stato poi condannato; in particolare avrebbe scritto dal carcere alla "famiglia" mafiosa in cui C.S. era entrato "vedete che è il genero di un amico nostro, trattatelo bene"; la condanna di P. per l’omicidio di C. dovrebbe far escludere la sua appartenenza all’associazione; già la sentenza di primo grado, nel ricostruire i fatti relativi all’omicidio C., rilevava che Ca.

A., responsabile del clan al quale P. è accusato di appartenere, temeva ripercussioni negative sui rapporti con il clan dei "carcagnusi", sicchè quell’omicidio non sarebbe stato voluto dal clan al quale P. è accusato di appartenere, onde avrebbe dovuto essere esclusa la sua partecipazione al predetto sodalizio mafioso;

2. vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della continuazione con altro reato di associazione mafiosa per il quale è intervenuta applicazione di pena in data 22.12.2002, sulla quale la Corte territoriale non si pronuncia chiaramente;

3. vizio di motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche.

Con motivi nuovi il difensore dell’imputato deduceva violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della continuazione fra il resto per cui si procede ed altro reato di associazione mafiosa per il quale l’imputato era stato condannato con sentenza n. 1265/02 in relazione agli indici dell’identità del disegno criminoso richiesto per la continuazione elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e che si assumono ricorrere nel caso in esame.

Il primo motivo di è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con gli stretti rapporti fra P. ed esponenti di spicco della criminalità organizzata e "l’orgogliosa ammissione dell’appartenenza al gruppo malavitoso" e con la spiegazione dei rapporti fra i clan mafiosi.

In tale motivazione non si ravvisa alcuna manifesta illogicità che la renda sindacabile in questa sede.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente. (Cass. Sez. 5A sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745, Cass., Sez. 2A sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Del resto va ricordato che il vizio di motivazione implica o la carenza di motivazione o la sua manifesta illogicità.

Sotto questo secondo profilo la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.

Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte territoriale, sia pure rigettando l’eccezione di bis in idem, ha ritenuto che si trattasse di associazioni di tipo mafioso diverse, così escludendo ogni ipotesi di unicità del disegno criminoso, non apparendo ipotizzabile che chi appartiene ad un clan, prefiguri la successiva appartenenza ad altra e diversa associazione di tipo mafioso.

Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va ricordato che "ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime". (Cass. Sez. 2A sent. n. 4790 del 16.1.1996 dep. 10.5.1996 rv 204768).

Nel caso di specie tale elemento è stato comunque indicato nei precedenti penali e, secondo l’orientamento di questa Corte condiviso dal Collegio, "in tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la "ratio" della disposizione di cui all’art. 62 bis c.p. non impone al giudice di merito di scendere alla valutazione di ogni singola deduzione difensiva, dovendosi, invece, ritenere sufficiente che questi indichi, nell’ambito del potere discrezionale riconosciutogli dalla legge, gli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti. Ne consegue che le attenuanti generiche possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato, perchè in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità". (Cass. Sez. 4A sent. n. 08052 del 6.4.1990 dep. 1.6.1990 rv 184544).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

L’inammissibilità del ricorso principale comporta l’inammissibilità dei motivi nuovi ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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