T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, Sent., 07-02-2011, n. 1196 Università

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame i ricorrenti chiedono l’annullamento dei provvedimenti indicati in epigrafe, deducendo i seguenti motivi di gravame:

1) Sulla NON COINCIDENZA DELLE PROVE PREVISTE DAL D.M 17 MAGGIO 2007, CON LE PRESCRIZIONI DI CUI ALL’ART. 4, L. 264/99: Violazione art. 4, L. 264/99.

Il D.M. 18 giugno 2009, Modalità e contenuti delle prove di ammissione, per l’a.a. 2009/2010, ai corsi di laurea in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria, nel disciplinare le materie oggetto delle prove de quibus, è andato ben oltre le apposite previsioni contenute nell’art. 4, L. 269/94, secondo cui l’ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato "è disposta dagli atenei previo superamento di apposite prove di cultura generale,sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi."

Infatti, detto D.M., all’art. 1, accanto alle domande di "cultura generale", ha previsto che le prove avrebbero anche riguardato argomenti di "LOGICA".

Come è ben evidente la "logica" è cosa ben diversa dalla "cultura generale". Peraltro a giudicare da diversi quesiti, si tratta di domande più cervellotiche che di logica. Orbene, l’avere preteso il predetto DM 18 giugno 2009 di modificare il contenuto delle prove come stabilito dall’art. 4, L. 264/99, si pone in contrasto col principio della gerarchia delle fonti, secondo cui una fonte di rango secondario non può modificare una norma introdotta con una fonte di rango primario.

Ancora più grave è il fatto che l’impugnato D.M. 18 giugno 2009, pur avendo previsto, praeter legem, tali domande di logica, insieme a quelle di cultura generale, non ha neppure specificato il numero delle domande di logica e quelle di cultura generale, indicando soltanto il numero complessivo delle domande di logica e cultura generale, pari a trentatre.

2) SULL’OMESSA SPECIFICAZIONE IN SEDE LEGISLATIVA, e comunque in via generale, una volta per tutte, DEL NUMERO DEI QUESITI relativi a ciascun argomento. Sul mutamento ad anni alterni del numero di quesiti per ciascuno degli argomenti oggetto di prova. Eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, L. 264/99: Violazione art. 97 e 3 Cost..

L’art. 4, L. 264/99 cit. appare gravemente insufficiente, laddove si limita ad indicare genericamente il contenuto delle prove d’ammissione, senza indicare, una volta per tutte, il numero dei quesiti relativi a ciascun argomento oggetto di prova.

È accaduto così, ad esempio, che per l’accesso ai corsi di laurea de quibus, per l’ a.a. 2000/2001, il D.M. 25 maggio 2000, recante modalità e contenuti delle prove d’ammissione, prevedesse venti domande per ciascuno dei quattro argomenti oggetto di prova (biologia, chimica, fisica e matematica, logica e cultura generale).

Nell’a.a. 200112002, sono state previste invece ventisei domande per l’argomento di logica e cultura generale e diciotto per ciascuno dei restanti argomenti. (Cfr. D.M.11 maggio 2001).

Nell’a.a. 2007/2008, sono stati previsti invece trentatrè quesiti di logica e cultura generale, ventuno per l’argomento di biologia, tredici per ciascuno dei restanti argomenti (Cfr D.M. 17 maggio 2007).

Idem per il 2008/2009 (Cfr DM 18 giugno 2008).

Per l’a.a. 2009/2010 c’è stata, come già ricordato, l’impennata delle domande di cultura generale e logica, che sono salite da 33 a 40, ed il resto così suddivise: 18 di biologia, 11 di chimica, e 11 di fisica e matematica.

Come si può vedere, ad anni alterni, ciascun Ministro si fa i suoi quesiti, ripartendo li tra un argomento e l’atro, come meglio gli aggrada. Non si comprende poi l’aumento progressivo dei test di cultura generale e logica, per una facoltà scientifica come quella di medicina, dove si richiedono un" attitudine allo studio delle materie scientifiche.

Tale modo di procedere risulta del tutto illegittimo, ove si consideri che intanto è diritto degli studenti sapere con congruo anticipo il numero preciso dei quesiti previsti per ciascuna delle materie oggetto di prova, e non un paio di mesi prima dello svolgimento delle prove, come accade ogni anno, dove il D.M. previsto dall’art. 4, L. 264/99 cit., viene emanato nel mese di maggio.

Non è difficile comprendere inoltre come la diversa ripartizione quantitativa, nel corso degli anni, dei quesiti tra i vari argomenti oggetto delle prove de quibus, si risolve in una disparità di trattamento tra gli studenti che sostengono le prove in anni diversi, attesa la sperequazione che viene a crearsi tra un anno e l’altro, in ordine al livello di difficoltà delle prove.

Si tratta anche in questo caso di aspetti vizianti che traggono origine dalla eccessiva genericità della norma, l’art. 4, L. 264/99, che disciplina in modo del tutto generico e lacunoso le prove d’ammissione de quibus.

3) Sulla MANCATA REGOLAMENTAZIONE DELLE MODALITÀ DI COSTITUZIONE DELLA COMMISSIONE incaricata della predisposizione dei quesiti, dei casi di incompatibilità a fame parte, dei suoi criteri d’azione. Eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, L. 264/99: Violazione art. 97 Cost.

La citata legge n. 264/99, recante norme in materia di accessi ai corsi universitari, dedica un solo breve articolo alla disciplina delle prove per l’ammissione ai corsi di laurea de quibus.

La norma ora citata dedica due righe soltanto alle modalità e ai contenuti delle prove in questione, rinviando per il resto all’adozione di un decreto del Ministero dell "Università e della Ricerca, e senza neppure contemplare la commissione incaricata della predisposizione dei quesiti.

Orbene, il fatto che tale Commissione,pur risultando essere l’organo centrale di tali procedure d’ammissione, non viene neppure contemplata dalla citata legge n. 264/99, né tanto meno essa detta, ovvero rinvia a tal fine ad altra fonte normativa, i criteri per la sua composizione, le norme per i casi di incompatibilità a fame parte, i criteri del suo operato, come fa ogni disciplina generale in materia di commissioni, non può che porsi in palese contrasto col principio di imparzialità, consacrato dall’art. 97 Costo

Nulla di tutto questo è avvenuto nel caso di specie. Dove la legge non contiene una sola parola su tale Commissione, né tanto meno affida ad altra fonte normativa la regolamentazione di tale commissione. Lasciando in tal modo tutto alla libertà del Ministro dell’Università e della Ricerca, che non incontra alcun limite nella scelta! Scelta che peraltro a giudicare dai risultati, ovvero dal numero di errori in cui è incorsa la commissione, e riconosciuti dallo stesso Ministero resistente, non è stata delle più azzeccate.

Addirittura, nessuno degli atti del procedimento relativo alle prove d’ammissione de quibus, fa riferimento al D.M. di nomina dei membri della Commissione, né tanto meno ai suoi estremi. D.M. introvabile persino su Internet! E questa è una storia che si ripete anno per anno, perché i D.M. di nomina della predetta Commissione non risultano mai richiamati in nessuno degli atti relativi alle precedenti prove d’ammissione. Ma è questo un livello di trasparenza adeguato ad una prova come quella per l’ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato?

L’omessa preventiva regolamentazione della predetta Commissione, appare del tutto irragionevole ove si consideri che anche per accedere ad un posto di medio livello, come ad esempio, terminali sta, vi sono norme più garantiste, come dettate dal citato DPR n. 487/94, di quelle previste invece per l’accesso all’Università! Sotto tale profilo la norma in esame si pone anche in contrasto con l’art. 3 Cost.

4) Eccezione di ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264: VIOLAZIONE ARTT. 3, 33 E 34 Costo

La normativa attualmente vigente, volta a limitare l’accesso, tra gli altri, al corso di laurea, in medicina e chirurgia, subordinandolo al superamento di quiz a risposta multipla, su materie spesso del tutto estranee a quelle oggetto del corso di laurea, si pone in palese contrasto col diritto allo studio, riconosciuto e garantito dalla Costituzione.

Va in primo luogo osservato come tale diritto si colloca, in una Costituzione garantita e solidarista come la nostra, nel novero dei diritti sociali, ovvero di quei diritti che promuovono l’intervento dello Stato diretto a soddisfare le esigenze essenziali dei singoli.

In questa sede la scrivente difesa intende sollevare questione di legittimità costituzionale di suddetta disposizione, in relazione agli artt. 3, 33 e 34 Cost., sul rilievo per cui la stessa avrebbe introdotto un’ingiustificata deroga alla libertà di accesso all’istruzione.

A ben vedere, infatti, la Carta Fondamentale garantisce a tutti il diritto allo studio, con l’unica precisazione per cui deve trattarsi di soggetti "capaci e meritevoli" (art. 34, comma 3). In quest’ottica, la normativa sul numero chiuso troverebbe adeguata giustificazione soltanto laddove risultasse realmente idonea alla selezione dei capaci e meritevoli.

Ma così, evidentemente, non è, almeno nel nostro paese!

Il C.d. "numero chiuso" è infatti praticato anche in altri paesi europei, dove, tuttavia, a differenza che in Italia, risulta caratterizzato da un "iscrizione aperta a tutti ed incondizionata ad un primo anno di corso comune cui segue – per gli aspiranti medici – il superamento di un concorso pubblico, che verte sulle materie studiate nel primo anno di Università.

Tale sistema, in sostanza, lungi dall’ operare una cieca selezione dei candidati, riesce seriamente a garantire, per un verso, l’accesso allo studio su basi di uguaglianza e, per altro verso, che solo i capaci e meritevoli, ovvero coloro che, a parità di condizioni, a seguito di un vero e proprio esame su tutte le materie studiate al primo anno di corso, si siano rivelati come i migliori e più preparati. Diversamente, com’è noto, il sistema del numero chiuso in Italia è attuato al momento dell’accesso al corso di studi universitario, e si sostanzia nella risoluzione di tests a risposta multipla vertenti su materie, in buona parte, del tutto avulse da quelle del corso di studi.

Non può, allora, non apparire palese che un tale sistema non riesce a garantire in alcun modo la valutazione delle reali attitudini e capacità dei candidati.

La delicatezza del tema trattato appare aggravata dalla circostanza che la limitazione all’accesso all’università incide sul futuro di migliaia di giovani, contribuendo in maniera decisiva ad orientarne scelte di vita spesso definitive.

Infatti, da un lato, non viene assolutamente garantita la completezza della valutazione, come invece accadrebbe se si ricorresse a strumenti che consentano di giudicare gli studenti non solo in considerazione degli esiti di prove destinate a svolgersi in un brevissimo arco di tempo (come se per valutare che un individuo possa fare o meno il medico bastassero 2 ore! l), ma anche dei risultati conseguiti e delle attitudini dimostrate nel pregresso corso di studi.

Dall’altro, non risulta assicurata neppure la correttezza e la regolarità delle operazioni concorsuali e, a riprova di ciò, si pensi ai reati resi possibili, per non dire addirittura incoraggiati, per un verso, dalla struttura stessa delle prove e dalle spesso scandalose condizioni in cui si svolgono le selezioni e, per altro verso, dalla superficialità dei controlli e delle misure adottate in sede concorsuale.

Le considerazioni che precedono dimostrano la palese illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 33 e 34 Cost., dell’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, ove si consideri come l’attuale sistema di selezione, da esso previsto, per l’ammissione alle facoltà ad accesso programmato finisce, di fatto, proprio per tagliare fuori, certamente, una parte dei capaci e meritevoli, vuoi perché tale sistema così come è congegnato non consente di appurare effettivamente se i soggetti alla fine selezionati siano i più capaci, vuoi perché lo stesso si presta a gravi e puntuali frodi.

Del resto, quando si pretende di affidare le ambizioni ed il futuro di migliaia di giovani ad un test della durata di sole due ore, per di più infarcito di domande nozionistiche, e talvolta persino cervellotiche, giocoforza la posta in palio diventa troppo alta per tenere a bada la tentazione di percorrere via fraudolente per essere ammessi, ciò a scapito magari di tanti giovani più meritevoli e capaci.

E si badi bene, qui non si ignora come, in disparte da ogni questione sulla legittimità del numero chiuso, quale strumento di contingenta mento del numero dei medici, rientri nella discrezionalità del legislatore stabilire il contenuto delle prove di ammissione, ma come è noto tale discrezionalità non può mai trasmodare in norme irragionevoli ed irrazionali.

Ebbene, nel caso di specie si pretende di verificare l’attitudine agli studi di medicina, una facoltà che dura 6 anni con più di 30 esami, sulla base di una prova a quiz, da "rischia tutto", della durata di sole due ore, con ben 40 domande,di c.d. cultura generale, dove si spazi a dal!" Intifada ai poteri del Capo dello stato (Cfr. test n. 24), dall’albero di nespole in letteratura (Cfr. test 11.31) ai desaparecidos (Cfr. test n. 5). L’elenco delle c.d. domande di cultura generale potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui, permettendoci di invitare il collegio a dare uno sguardo alle domande oggetto dei test di ammissione per capacitarsi della loro singolarità.

5) Illegittimità PER CONTRASTO CON IL DIRITTO COMUNITARIO dell’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 e dell’art. 6- ter, commi l e 3, del D.Lgs. n. 502/92. Violazione delle direttive del Consiglio nn. 78/686/CEE, 78/687/CEE del 25 luglio 1978; 78/1026/CEE; 78/1027/CEE del 18 dicembre 1978; 85/384/CEE, del lO giugno 1985; 89/594/CEE, del 30 ottobre 1989 e 93116/CEE, del 5 aprile 1993; 36/2005/CEE, sostitutiva delle precedenti).Violazione degli artt. 43 e 49 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea. Violazione delle Direttive n. 75/362 e n. 75/363 C. E. E. del Consiglio del 16 giugno 1975, ora confluite nella direttiva n. 93/16/C.E.E. del Consiglio del 5 aprile 1993.

Questa difesa intende ora evidenziare come l’introduzione di restrizioni numeriche all’accesso alle facoltà, oltre a comportare ingiustificate limitazioni all’esercizio di una professione, abbia altresì comportato, quale conseguenza inevitabile, un" illegittima restrizione della concorrenza tra professionisti.

La gravità della situazione attuale può apprezzarsi ancor di più se si considera la direzione verso cui è orientata la normativa attualmente vigente in materia di accesso ai corsi universitari.

Il riferimento è, in particolare, all’art. 3 della L. 264/99 -che prevede e disciplina la competenza ministeriale per la determinazione e ripartizione annuale del numero di posti disponibili nelle università, dove, al comma 1, letto a), si legge che la determinazione annuale del numero di posti a livello nazionale per i corsi di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a) e b) (che, tra gli altri, richiamano i corsi di laurea in medicina e chirurgia, in medicina veterinaria, in odontoiatria e protesi dentaria, in architettura etc.), debba avvenire "sulla base della valutazione dell’offerta potenziale del sistema universitario, TENENDO ANCHE CONTO DEL FABBISOGNO DI PROFESSIONALITÀ DEL SISTEMA SOCIALE E PRODUTTIVO".

Sulla procedura di determinazione de qua e con specifico riguardo alla facoltà di odontoiatria, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nell’esercizio della sua attività consultiva e di segnalazione, ha di recente formulato alcune importanti osservazioni (si veda AS516 – Modalità di individuazione del numero chiuso per l’accesso ai corsi di laurea in odontoiatria- pubblicato sul Bollettino settimanale dell’ Antitrust n. 15 del 4 maggio 2009), a conclusione di un "indagine iniziata nel 2007 in seguito a una denuncia presentata dal Dr. G.L. per conto del comitato "Costruiamo il domani", un pool di giovani professionisti palermitani impegnati per la difesa dei diritti civili.

Il presupposto da cui l’Autorità è partita è stato il seguente: "là dove, come nel caso in esame, le modalità di determinazione del numero di posti universitari disponibili avvengono sulla base di considerazioni che non risultano volte esclusivamente a garantire una formazione universitaria adeguata – ma che si fondano su valutazioni attinenti al fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo per il Servizio Sanitario Nazionale – le modalità di determinazione di tali posti possono restringere ingiustificatamente l’accesso alla professione di odontoiatra, in quanto limitano l’accesso al relativo corso di laurea e, conseguentemente, l’accesso stesso al/a professione."

Su tali basi all’Autorità non è apparsa condivisibile la scelta legislativa secondo cui, per la determinazione del numero chiuso in odontoiatria, debba essere presa in considerazione la situazione occupazionale dei dentisti che operano nell’ ambito del Sistema Sanitario Nazionale. Infatti, secondo l’Agcm, "tale valutazione comporta una artificiosa predeterminazione del numero dei potenziali professionisti e determina, dal punto di vista economico, un ingiustificato irrigidimento dell’offerta di prestazioni odontoiatriche, con l’effetto di restringere artificiosamente il numero dei potenziali professionisti ed innalzare il prezzo delle relative prestazioni".

Peraltro, tale situazione risulta particolarmente grave se si pensa che la valutazione è commisurata alla situazione occupazionale di una parte minima di professionisti, ossia dell’ offerta proveniente dal Servizio Sanitario Nazionale. Infatti, la massima parte delle prestazioni odontoiatriche in Italia non viene fornita dagli odontoiatri del Sistema Sanitario Nazionale (o meglio, delle strutture pubbliche o della strutture convenzionate con il Sistema Sanitario Nazionale), ma privatamente, ossia dagli odontoiatri liberi professionisti.

In sostanza, nell’ ambito della procedura per la determinazione del numero annuale di posti disponibili, vengono effettuate valutazioni che non risultano finalizzate a garantire l’adeguatezza dell’ offerta formati va, come invece dovrebbe essere in base a quanto è stato indicato dalla disciplina comunitaria e ricordato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 383/98.

A questo riguardo, nelle numerose direttive (Direttive del Consiglio 78/686/CEE, 78/687/CEE del 25 luglio 1978; 78/1 026/CEE; 78/1 027/CEE del 18 dicembre 1978; 85/384/CEE, del IO giugno 1985; 89/594/CEE, del 30 ottobre 1989 e 931l6/CEE, del 5 aprile 1993; infine, Direttiva 36/2005/CEE, sostitutiva delle precedenti) concernenti il reciproco riconoscimento, negli Stati membri, dei titoli di studio universitari, l’esercizio del diritto di stabilimento dei professionisti negli Stati dell’Unione, nonchè la libera prestazione dei servizi, vengono prescritti agli Stati membri standard di formazione minimi a garanzia che i titoli medesimi attestino il possesso effettivo delle conoscenze necessarie all’esercizio delle attività professionali corrispondenti.

Tali direttive obbligano infatti gli Stati a predisporre, per alcuni corsi universitari aventi particolari caratteristiche, misure adeguate a garantire determinati requisiti (ed in particolare che gli studi. teorici si accompagnino necessariamente ad esperienze pratiche, acquisite attraverso attività cliniche ovvero operative, svolte nel corso di periodi di formazione e di tirocinio aventi luogo in strutture idonee e dotate delle strumentazioni necessarie, sotto gli opportuni controlli), tutti attinenti esclusivamente al parametro dell’adeguatezza della formazione universitaria.

Al riguardo la stessa Consulta ha precisato che "gli obiettivi delle direttive, cioé "la formazione prevista dalla normativa comunitaria" e "l’insieme delle esigenze minime di formazione", obbligatori per lo Stato in forza dell’art. J 89 del Trattato CEE, valgono per dettato legislativo – indipendentemente dalla loro forza cogente diretta – nei confronti dell’amministrazione, comportando che i poteri di cui essa sia dotata, nella materia oggetto di direttive, sono da esercitare secondo gli obblighi di risultato che la normativa comunitaria impone" (C. Cost. 383/98).

Alla luce di tali premesse, non può non apparire evidente, per non dire scontato, che il sistema italiano del numero chiuso risulti ispirato a logiche del tutto avulse rispetto a quella di assicurare l’adeguatezza formativa degli studenti e, in ogni caso, a logiche contrarie ali "indirizzo comunitario, oltre che restrittive della concorrenza! Per questo deve ritenersi illegittima per contrasto con la normativa comunitaria la normativa de qua, anche considerato che la rimozione di tali limitazioni, per un verso consentirebbe l’accesso ad un numero maggiore di studenti, rendendo più produttivo il confronto tra gli stessi e migliorando così la qualità dell’ insegnamento e dell’apprendimento e, per altro verso, garantirebbe una concorrenza effettiva tra professionisti sul mercato.

Sotto quest’ultimo profilo, infatti, si deve precisare ulteriormente che, se l’accesso viene parametrato al fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo, non può che risultare falsato tutto il gioco della concorrenza -fondato su di un certo rapporto tra domanda e offerta- a tutto discapito della libertà di scelta dei fruitori del servizio (per l’evidente restrizione dell’offerta) e, comunque, di tutti i cittadini, a causa dell’inevitabile innalzamento del prezzo delle prestazioni.

Va peraltro osservato come che nello stesso articolo sopra citato, a firma del Prof. G.P., apparso sul Corriere della Sera del 23 settembre 2009, risulta che "mancano specialisti anestesisti, radiologi, cardioiogi, pediatri. Stanno per mancare i chirurghi, gli internisti di una volta sono quasi scomparsi e non è affatto infrequente che bandi di concorso vadano deserti. Certo sarebbe drammatico respingere la vocazione lli tanti giovani italiani per cominciare fra qualclte anno ad importllre medici dalla Polonia o dalla Romania".

Si osservi inoltre che l’intervento nella procedura di determinazione del numero dei posti disponibili delle organizzazioni rappresentative delle categorie dei professionisti =peraltro espressamente consentito dall’art. 6- ter, commi 1 e 3, del D.Lgs. n. 502/92 recante: "Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"- non può che minare alla base la garanzia del rispetto delle regole in materia di concorrenza, posta la naturale sussistenza, in capo a professionisti appartenenti alla medesima categoria, di interessi contrari all’ ingresso di nuovi soggetti!

A ciò si aggiunga il richiamo a quanto statuito dalla Commissione europea nella propria Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali del 9 febbraio 2004, in cui sono state dettagliatamente analizzate le restrizioni alla concorrenza che caratterizzano la regolamentazione dei servizi professionali negli Stati membri dell’Unione e che derivano proprio dalla fissazione o raccomandazione dei prezzi, dalle restrizioni all’accesso alla professione e all’attività pubblicitaria, dai regimi di nserva previsti per tal une attività, dalle regolamentazioni inerenti l’organizzazione e la struttura aziendale dell’attività. In tale Relazione, infatti, la Commissione Europea ha evidenziato come il diritto comunitario riconosca la legittimità delle sole misure restrittive della concorrenza che superano il c.d. test di proporzionalità, ovvero allorquando risultino oggettivamente necessarie per raggiungere un obiettivo di interesse generale chiaramente articolato e legittimo e costituiscano il meccanismo meno restrittivo della concorrenza idoneo a raggiungere tale obiettivo.

Ebbene, certamente nel caso di specie si deve escludere che i criteri fissati dalla legge per la determinazione del numero di posti disponibili possano considerarsi oggettivamente necessari al raggiungimento di un obiettivo di interesse generale, ove si consideri che in verità gli interessi che realmente vengono realizzati con tale meccanismo sono proprio quelli particolari dei professionisti appartenenti alla medesima categoria.

Sulla base delle considerazioni appena svolte, questa difesa insiste sull’illegittimità delle norme di cui agli artt. 3 della l. 264/99 e 6- ter, commi l e 3, del D.Lgs. n. 502/92 per:

1. contrasto con le direttive comunitarie del Consiglio 78/686/CEE, 78/687/CEE del 25 luglio 1978; 78/1026/CEE; 78/1 027/CEE del 18 dicembre 1978; 85/384/CEE, del IO giugno 1985; 89/594/CEE, del 30 ottobre 1989 e 931l6/CEE, del 5 aprile 1993; direttiva 36/2005/CEE, sostitutiva delle precedenti, in materia di reciproco riconoscimento, negli Stati membri, dei titoli di studio universitari, di esercizio del diritto di stabilimento dei professionisti negli Stati dell’Unione e di libera prestazione dei servizi.

2. Contrasto con la normativa comunitaria in materia di concorrenza tra imprese, ed in particolare con gli artt. 81 e 82 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, come richiamati dall’art. l, comma 4° della legge 287/90, secondo cui le norme nazionali poste a presidio dell’economia di mercato vanno interpretate in base ai principi previsti dall’ordinamento comunitario.

D’altronde, si consideri che la stessa Autorità Garante (nella Segnalazione AS 306, pubblicata sul Bollettino dell’ Antitrust n. 26/2005) ha ormai fatto proprio l’orientamento comunitario secondo cui l’attività professionale, nella misura in cui ha una valenza economica, è attività di impresa, quale che sia la professione intellettuale coinvolta (Cfr. le sentenze su medici (Pavlov, 12 settembre 2000, C- 180184/98, punto 77), spedizionieri doganali (Commissione c. Italia, 18 giugno 1998, C35/96, punto 36), avvocati (Wouters, 19 febbraio 2002, C309/99, punti 44- 49, Arduino, 19 febbraio 2002, C35/99).).

3. Contrasto con gli artt. 43 e 49 del Trattato CE sulla libertà di stabilimento e prestazioni dei servizi, sui quali si fonda il mercato delle professioni regolamentate per i cittadini dell "Unione europea. In particolare, violazione delle direttive n. 75/362 e n. 75/363 C.E.E. del Consiglio del 16 giugno 1975, ora confluite nella direttiva n. 931l6/C.E.E. del Consiglio del 5 aprile 1993, che, nel disciplinare il diritto di stabilimento e la libera circolazione dei medici cittadini degli stati membri della Comunità, hanno dettato norme per il coordinamento delle disposizioni nazionali concernenti il conseguimento dei titoli che danno accesso all’esercizio dell’attività medica

6 -in via ulteriormente subordinata, si chiede di voler disporre IL RINVIO PREGIUDIZIALE, AI SENSI DELL’ART. 234, TRATTATO CE, ALLA CORTE DI GIUSTIZIA affinché risolva la questione relativa alla compatibilità dell’art. 3, lett. a), L. 264/99, e 6- ter, commi l e 3, del D.Lgs. n. 502/92, con gli artt. 43 e 49,81 e 82 del Trattato CE, nonché con le direttive europee 78/686/CEE, 78/687/CEE del 25 luglio 1978; 78/1026/CEE; 78/1 027/CEE del 18 dicembre 1978; 85/384/CEE, del 10 giugno 1985; 89/594/CEE, del 30 ottobre 1989 e 93/16/CEE, del 5 aprile 1993; direttiva 36/2005/CEE, direttive n. 75/362 e n. 75/363 C.E.E. del Consiglio del 16 giugno 1975.

Si costituisce in giudizio l’interventore e l’Amministrazione resistente che nel controdedurre alle censure di gravame, chiede la reiezione del ricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di gravame parte ricorrente censura il D.M 18 maggio 2007, per violazione dell’art. 4, L. 264/99 in quanto, il bando, nel disciplinare le materie oggetto delle prove selettive ai corsi di laurea in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria per l’a.a. 2009/2010, sarebbe andato oltre le previsioni contenute nell’art. 4, L. 269/94, secondo cui l’ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato "è disposta dagli atenei previo superamento di apposite prove di cultura generale,sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi.", prevedendo all’art. 1, accanto alle domande di "cultura generale", anche prove avrebbero riguardanti argomenti di "LOGICA.

La doglianza è priva di consistenza.

Ed invero osserva il Collegio che la prospettata censura si risolve in una doglianza di "merito", tesa a censurare la discrezionalità tecnica dell’Amministrazione insindacabile in questa sede se non per evidenti vizi di logicità non rinvenibili nella specie posto che le pretese e censurate previsioni di domande di "logica" sono facilmente riconducibili in elementi sintomatici del grado di preparazione culturale dei candidati ed in quanto tali riconducibili nelle previsioni contenute nell’art. 4, L. 269/94. Senza contare che nessuna specifica doglianza viene formulata su specifiche domande preselettive.

Con il secondo motivo di gravame parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, L. 264/99 per violazione art. 97 e 3 Cost. per OMESSA SPECIFICAZIONE IN SEDE LEGISLATIVA, e comunque in via generale, una volta per tutte, DEL NUMERO DEI QUESITI relativi a ciascun argomento.

L’eccezione di incostituzionalità è manifestamente infondata rientrando nella discrezionalità normativa del legislatore primario la scelta tra una valutazione predeterminata legislativamente del numero dei quesiti ed una valutazione rinviata all’autorità amministrativa: peraltro la scelta operata dal legislatore del rinvio all’autorità amministrativa della determinazione del numero dei quesiti non presenta nessuno segno sintomatico di un uso del potere discrezionale normativo primario illogico né contraddittorio, con la conseguenza che non è ravvisabile difformità con i principi contenuti nell’art.97 e 3 della Cost.

Né ai fini selettivi la ravvisata esigenza degli studenti di sapere con congruo anticipo il numero preciso dei quesiti previsti per ciascuna delle materie oggetto di prova, può identificarsi necessariamente in un periodo superiore ai due mesi prima dello svolgimento delle prove: in sostanza sia che il periodo indicato risulti superiore o inferiorein entrambi i casi non è idoneo a rendere illegittima la procedura di cui si controverte..

Parimenti infondato risulta il terzo motivo di gravame con il quale parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, L. 264/99 per violazione art. 97 per MANCATA REGOLAMENTAZIONE DELLE MODALITÀ DI COSTITUZIONE DELLA COMMISSIONE incaricata della predisposizione dei quesiti, dei casi di incompatibilità a fare parte, dei suoi criteri d’azione.

Rientra, infatti, nella discrezionalità normativa del legislatore primario la scelta tra una valutazione predeterminata legislativamente delle modalità di costituzione della Commissione incaricata della predisposizione dei quesiti, dei casi di incompatibilità a fare parte, dei suoi criteri d’azione, ed una valutazione rinviata all’autorità amministrativa: peraltro la scelta operata dal legislatore del rinvio all’autorità amministrativa della determinazione del numero dei quesiti non presenta nessuno segno sintomatico di un uso del potere discrezionale normativo primario illogico né contraddittorio, con la conseguenza che non è ravvisabile difformità con i principi contenuti nell’art.97 della Cost.

Peraltro le esigenze di tutela dei candidati è adeguatamente soddisfatta con la procedimentalizzazione concorsuale nell’ambito della quale è sempre verificabile l’esercizio del potere attribuito in tale materia dalla legge alla autorità amministrativa.

Con il quarto motivo di gravame parte ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della legge 2 agosto 264/99 con riferimento agli artt. 3, 33, 34 Cost. all’art. 34 Cost.

La incostituzionalità di tale legge si rinvenirebbe, secondo parte ricorrente, anche in ordine alle scelte adoperate dal legislatore medesimo e dal potere esecutivo riguardo alle modalità con le quali sarebbe stato disposto l’accesso programmato: la predisposizione di un bando di concorso per poter selezionare aprioristicamente chi possa o meno accedere ad un corso di laurea altamente specialistico come quello in Odontoiatria, sarebbe assolutamente lesivo dei principi costituzionali sopra richiamati, in quanto selezionerebbe chi può accedere a tale corso di laurea a prescindere dallo strumento del "profitto".Con la conseguenza che la previsione di qualsiasi criterio selettivo antecedente all’accesso all’istruzione dovrebbe ritenersi contraria ai principi costituzionali e manifestamente ingiusta anche in relazione. all’art. 4 della legge 264/99.

In sostanza la dedotta questione di legittimità costituzionale di suddetta disposizione, in relazione agli artt. 3, 33 e 34 Cost., viene in questa sede prospettatta sul rilievo per cui la stessa avrebbe introdotto un’ingiustificata deroga alla libertà di accesso all’istruzione, con la conseguenza che il sistema legislativamente previsto non riuscirebbe a garantire in alcun modo la valutazione delle reali attitudini e capacità dei candidati:, da un lato, non verrebbe assolutamente garantita la completezza della valutazione, (come invece accadrebbe se si ricorresse a strumenti che consentano di giudicare gli studenti non solo in considerazione degli esiti di prove destinate a svolgersi in un brevissimo arco di tempo, ma anche dei risultati conseguiti e delle attitudini dimostrate nel pregresso corso di studi), e dall’altro, non risulterebbe assicurata neppure la correttezza e la regolarità delle operazioni concorsuali con un test della durata di sole due ore sulla base di una prova a quiz, da "rischia tutto", della durata di sole due ore, con ben 40 domande di c.d. cultura generale.

Le doglianze sono prive di giuridica consistenza.

Nella specie infatti non si ravvisano né elementi di non manifesta incostituzionalità della discrezionalità normativa ex legge 2 agosto 264/99 né l’asserita violazione delle disposizioni di cui alla 1. n. 264/1999.

Sotto quest’ultimo profilo (asserite violazioni della legge n. 264/1999) giova premettere che la legge medesima ha introdotto un sistema peculiare per l’accesso ad alcuni corsi di studio universitari.

Ai sensi dell’art. 3, comma l, lett. a) è stabilito che con decreto del Ministero dell’Istruzione viene determinato annualmente il numero dei posti disponibili, a livello nazionale, sulla base dell’ offerta potenziale del sistema universitario, anche in relazione al fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo.

A tal fine l’intestato Ministero acquisisce da ogni Ateneo l’indicazione dell’offerta potenziale ovvero del numero di iscritti che l’Ateneo medesimo può accogliere compatibilmente con il proprio assetto organizzativo e logistico.

Con il medesimo D.M. 1’Amministrazione centrale ripartisce i posti relativi ai corsi in questione tra le Università le quali procedono all’emanazione dei relativi bandi di concorso recependo le indicazioni contenute in apposito D.M., di cui all’art. 4 1. n. 264/1999, quanto alle date delle prove e ai contenuti delle stesse.

Il concorso de qua si configura quale concorso nazionale posto che il numero dei posti disponibili, i tempi concorsuali, i contenuti delle prove e i criteri di valutazione sono stabiliti da apposito D.M. rispetto al quale i bandi delle singole Università hanno soltanto carattere applicativo.

Alla luce della chiara disposizione normativa sopra richiamata la determinazione del contingente di posti disponibili si basa su di un duplice criterio; da un lato, il potenziale formativo offerto dai singoli Atenei e, dall’altro, il fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo.

Dal tenore della norma non è dato evincere alcuna graduazione tra i due criteri, i quali devono contemperarsi al fine di determinare, quale risultante, il quantum dei posti disponibili. L’equivalenza dei criteri di determinazione dei posti nei corsi di laurea a numero programmato, inoltre, è coerente con le esigenze effettive e reali del sistema formativo e professionale e, come tale, non pone un problema di illegittimità costituzionale, rientrando nella sfera della discrezionalità normativa del legislatore la cui sindacabilità da parte del giudice delle leggi incontra il limite nella manifesta illogicità non rinvenibile nella specie anche alla luce dei principi contenuti nella pronuncia n. 383/1998 della Corte Costituzionale (ed alle direttive comunitarie ivi richiamate) la quale ha riconosciuto la piena legittimità costituzionale del numerus clausus quale criterio di accesso ai corsi universitari, lasciando alla discrezionalità politica del legislatore l’individuazione dei criteri di determinazione dei posti disponibili.

Le direttive comunitarie richiamate dalla Corte Costituzionale concernono il reciproco riconoscimento, negli Stati membri, dei titoli di studio universitari sulla base di criteri uniformi di formazione, l’esercizio del diritto di stabilimento dei professionisti negli Stati dell’Unione nonché la libera prestazione dei servizi e riguardano, al momento, i titoli accademici di medico, medicoveterinario, odontoiatra e architetto.

La medesima Corte ha, altresì, sottolineato che "Le ricordate direttive prescrivono, in vista dell’analogia dei titoli universitari rilasciati nei diversi Paesi e del loro reciproco riconoscimento, standard di formazione minimi a garanzia che i titoli medesimi attestino il possesso effettivo delle conoscenze necessarie ali "esercizio delle attività professionali corrispondenti. In tutti i casi cui le direttive si riferiscono, si prescrive che gli studi teorici si accompagnino necessariamente a esperienze pratiche, acquisite attraverso attività cliniche o, in genere, operative, svolte nel corso di periodi di formazione e di tirocinio aventi luogo in strutture idonee e dotate delle strumentazioni necessarie, sotto gli opportuni controlli. E ciò implica e presuppone che, tra la disponibilità di strutture e il numero di studenti, vi sia un rapporto di congruità in relazione alle specifiche modalità dell’apprendimento. "

Nelle sopra citate direttive comunitarie si rinviene, dunque, un preciso obbligo di risultato che gli Stati membri sono chiamati ad adempiere predisponendo, per alcuni corsi universitari aventi particolari caratteristiche, misure adeguate a garantire le previste qualità, teoriche e pratiche, dell’ apprendimento: ma non viene dettata alcuna disciplina riguardo alle predette misure. Queste sono, infatti, rimesse alle determinazioni nazionali e il legislatore italiano, come per lo più i suoi omologhi degli altri Paesi dell’Unione, ha previsto la possibilità di introdurre il numerus clausus per tali corsi.

Non vi è, pertanto, alcuno spazio per un sindacato di costituzionalità in ordine al criterio relativo al "fabbisogno professionale" sulla base dei principi formulati nella decisione del Giudice delle leggi, posto che quest’ultimo si è limitato a riconoscere la legittimità costituzionale del numerus clausus senza alcun riferimento ai criteri in base ai quali esso deve essere determinato.

Dalla lettura della sentenza della Corte Costituzionale, pertanto, si evince che il sistema del numero chiuso risulta pienamente legittimo, attesa la necessità di garantire adeguati spazi ed opportuni mezzi organizzativi ai fini di un" adeguata formazione degli studenti, caratterizzata sia da esperienze pratiche che da studi teorici.

A tal fine, nella sentenza costituzionale in questione, viene affermata l’esigenza di un rapporto di congruità tra la disponibilità di strutture e il numero di studenti, esigenza che, ad avviso della Corte Costituzionale, ben può essere soddisfatta con l’introduzione del numero chiuso. Infatti, le direttive comunitarie, nel prescrivere standard di formazione prescrivono a garanzia che i titoli universitari rilasciati nei diversi Paesi attestino il possesso effettivo delle conoscenze necessarie all’ esercizio delle attività professionali corrispondenti, demandando la scelta degli strumenti più opportuni alle determinazioni nazionali.

In relazione, poi, alla pretesa violazione di norme di rango costituzionale, quali gli artt. 33 e 34 della Costituzione, e di principi internazionali e comunitari, si rileva che persino l’affermazione di principio contenuta nell’ art. 2 del protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – secondo la quale "il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno" – non può essere tradotta automaticamente, come più volte confermato dalla Corte Costituzionale e dalla Giurisprudenza amministrativa, nell’affermazione che il diritto allo studio appartenga a tutti i cittadini indiscriminatamente.

A tale proposito, la Corte Costituzionale e la giurisprudenza amministrativa hanno "ripetutamente affermato la conformità del sistema legislativo vigente rispetto al diritto allo studio, il quale non appartiene indiscriminatamente a tutti i cittadini, ma solo ai più capaci e meritevoli, e deve essere, secondo le direttive comunitarie che costituiscono fonti normative vincolanti all’interno del nostro Stato, contemperato con l’esigenza di evitare il sovraffollamento. onde realizzare un preciso obbligo di risultato che gli Stati membri sono chiamati ad adempiere, predisponendo misure adeguate a garanzia delle previste qualità teoriche e pratiche dell’apprendimento. Non è, pertanto, ravvisabile un contrasto tra la L. 2 agosto 1999, n. 264, che pone una limitazione ali "accesso ali "Università, e gli artt. 2, 3, 33 e 34 Cost., in quanto la previsione del c.d. numero chiuso non rappresenta una limitazione arbitraria del diritto allo studio, ma una garanzia di qualità dell’insegnamento, secondo standard europei. " (T.A.R. Liguria – Genova, sez. II, 17 febbraio 2003, n. 184).

Si tratta di una limitazione che non può determinare alcun sospetto di illegittimità costituzionale del sistema, in considerazione delle ragioni che impediscono, anche alla stregua di norme e principi comunitari, iscrizioni indiscriminate e sovradimensionate rispetto alle potenzialità del sistema universitario (TAR Lazio, sez. III, 10.1.2006, n. 189, ma vd. anche: TAR Lazio, sez. III, 6 ottobre 2005, n. 7937; TAR Lazio, sez. III, 27 luglio 2005, n. 6020).

Senza contare che l’art. 34 Cost. non implica che l’accesso all’istruzione universitaria debba essere garantito senza condizioni ed indiscriminatamente a tutti i cittadini, ma presuppone, piuttosto, che l’eventuale introduzione di limitazioni sia fondata su procedure e criteri selettivi funzionali alla valorizzazione della capacità e del merito degli aspiranti, in attuazione del principio di uguaglianza nonché in osservanza dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa: né si ravvisano sotto tale profilo aspetti di costituzionalità correlati alla procedura selettiva a quiz di cultura generale che non presenta, proprio per la natura selettiva d’ingresso vizi di illogicità manifesta.

Del pari infondato si appalesa il quinto motivo di gravame con il quale di deduce l’illegittimità per contrasto con il diritto comunitario dell’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 e dell’art. 6- ter, commi l e 3, del D.Lgs. n. 502/92, per violazione delle direttive del Consiglio nn. 78/686/CEE, 78/687/CEE del 25 luglio 1978; 78/1026/CEE; 78/1027/CEE del 18 dicembre 1978; 85/384/CEE, del 10 giugno 1985; 89/594/CEE, del 30 ottobre 1989 e 93116/CEE, del 5 aprile 1993; 36/2005/CEE, sostitutiva delle precedenti, per violazione degli artt. 43 e 49 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea e per violazione delle Direttive n. 75/362 e n. 75/363 C. E. E. del Consiglio del 16 giugno 1975, ora confluite nella direttiva n. 93/16/C.E.E. del Consiglio del 5 aprile 1993.

Con l’indicata doglianza la difesa di parte ricorrente evidenzia come l’introduzione di restrizioni numeriche all’accesso alle facoltà, oltre a comportare ingiustificate limitazioni all’esercizio di una professione, abbia altresì comportato, quale conseguenza inevitabile, un" illegittima restrizione della concorrenza tra professionisti ed il riferimento è, in particolare, all’art. 3 della L. 264/99 -che prevede e disciplina la competenza ministeriale per la determinazione e ripartizione annuale del numero di posti disponibili nelle università, dove, al comma 1, lett. a), si legge che la determinazione annuale del numero di posti a livello nazionale per i corsi di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a) e b) (che, tra gli altri, richiamano i corsi di laurea in medicina e chirurgia, in medicina veterinaria, in odontoiatria e protesi dentaria, in architettura etc.), debba avvenire "sulla base della valutazione dell’offerta potenziale del sistema universitario, TENENDO ANCHE CONTO DEL FABBISOGNO DI PROFESSIONALITÀ DEL SISTEMA SOCIALE E PRODUTTIVO".

Tale sistema del numero chiuso, sempre secondo parte ricorrente, risulterebbe ispirato a logiche del tutto avulse rispetto a quella di assicurare l’adeguatezza formativa degli studenti e, in ogni caso, a logiche contrarie all’indirizzo comunitario, oltre che restrittive della concorrenza, con conseguente contrasto con la normativa comunitaria considerato che la rimozione di tali limitazioni, per un verso consentirebbe l’accesso ad un numero maggiore di studenti, rendendo più produttivo il confronto tra gli stessi e migliorando così la qualità dell’ insegnamento e dell’apprendimento e, per altro verso, garantirebbe una concorrenza effettiva tra professionisti sul mercato.

Ed invero già in sede di esame del quarto motivo di gravame il Collegio ha evidenziato come il sistema delineato sia coerente con i principi contenuti nella pronuncia n. 383/1998 della Corte Costituzionale (ed alle direttive comunitarie ivi richiamate) la quale ha riconosciuto la piena legittimità costituzionale del numerus clausus quale criterio di accesso ai corsi universitari, lasciando alla discrezionalità politica del legislatore l’individuazione dei criteri di determinazione dei posti disponibili.

Le direttive comunitarie richiamate dalla Corte Costituzionale concernono il reciproco riconoscimento, negli Stati membri, dei titoli di studio universitari sulla base di criteri uniformi di formazione, l’esercizio del diritto di stabilimento dei professionisti negli Stati dell’Unione nonché la libera prestazione dei servizi e riguardano, al momento, i titoli accademici di medico, medicoveterinario, odontoiatra e architetto.

Nelle sopra citate direttive comunitarie si rinviene, dunque, un preciso obbligo di risultato che gli Stati membri sono chiamati ad adempiere predisponendo, per alcuni corsi universitari aventi particolari caratteristiche, misure adeguate a garantire le previste qualità, teoriche e pratiche, dell’ apprendimento: ma non viene dettata alcuna disciplina riguardo alle predette misure. Queste sono, infatti, rimesse alle determinazioni nazionali e il legislatore italiano, come per lo più i suoi omologhi degli altri Paesi dell "Unione, ha previsto la possibilità di introdurre il numerus clausus per tali corsi.

Non si ravvisa pertanto nessun contrasto con il diritto comunitario.

Sulla base delle suesposte considerazioni il ricorso va respinto.

Sussistono tuttavia giusti motivi per la compensazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. III bis,definitivamente pronunciandosi sul ricorso indicato in epigrafe lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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