Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 16-12-2010) 10-02-2011, n. 5060 Abuso di ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

del ricorso.
Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Firenze, con ordinanza 25 settembre 2009, ha riconosciuto a M.S. il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione subita, dal 1 giugno 2004 alni luglio 2004 (per 70 giorni) e poi fino al 27.8.2004 agli arresti domiciliari (ulteriori 15 giorni), a seguito dell’applicazione, nei suoi confronti, della misura cautelare della custodia in carcere per reati (di corruzione, concussione e abuso di ufficio) dai quali era stata successivamente assolta con sentenza divenuta definitiva. La Corte, escluso che l’istante avesse dato causa alla detenzione per dolo o colpa grave, ha così effettuato il calcolo della indennità:

muovendo dalla somma massima di 516.456,14 Euro prevista dalla legge per il periodo massimo di custodia cautelare (6 anni), la Corte ha operato una riduzione del 60 % per il solo danno derivante dalla detenzione in sè. In tal modo ha riconosciuto Euro 142, 22 per ciascun giorno di custodia in carcere ed Euro 71,11 per ciascun giorno di arresti domiciliari e complessivamente 10.239,84 Euro per il periodo di custodia intramurale e 1.137,76 per i giorni passati agli arresti domiciliari. A ciò ha aggiunto una somma equitativamente determinata per il danno biologico, per quello morale e per quello patrimoniale; ha valutato, sotto il primo profilo, la sofferenza per una carcerazione ingiusta, la perdita di prestigio e reputazione nel proprio ambiente professionale, il malessere psico- fisico comprovato dalle consulenze prodotte; sotto il profilo familiare ha ritenuto rilevante l’insuccesso scolastico del figlio della ricorrente in corrispondenza temporale con la custodia cautelare della madre e l’insorgere di sofferenze e situazioni ansiose nei componenti la famiglia con coinvolgimento primario della stessa architetto M.; da ultimo, sotto il profilo patrimoniale, la Corte si è riferita al fatto che, scaduto il 14 giugno 2004 il rapporto di lavoro con l’amministrazione comunale di Portoferraio, ovviamente non rinnovato dalla giunta successiva oltretutto di colore politico opposto, l’architetto M., nonostante le ripetute domande, non ha più ottenuto lavoro da amministrazioni pubbliche. Ha determinato l’indennizzo per tale danno patrimoniale, non quantificabile con precisione ma di certo molto elevato, in Euro 100.000; quello per il danno biologico in Euro 50.000 ed ulteriori Euro 50.000 per il danno morale, ivi compreso quello alla vita familiare.

2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero del Tesoro deducendo violazione di legge e difetto di motivazione sotto i seguenti profili: 1) per avere la Corte superato il limite massimo giornaliero derivante dal calcolo matematico che, secondo un orientamento di questa Corte che la ricorrente ritiene preferibile, non sarebbe invece superabile; 2) per avere riconosciuto un indennizzo di circa 10 volte superiore a quello anzidetto, senza tenere conto che l’Avvocatura aveva formulato specifici rilievi sulla adeguatezza della somma da riconoscere, rilievi del tutto pretermessi dalla Corte di Firenze che nell’ordinanza si è limitata a riportare che l’Avvocatura dello Stato aveva chiesto che la somma fosse quantificata secondo giustizia; 3) per mancanza di motivazione circa le ragioni per le quali, anche volendo aderire ad altro indirizzo giurisprudenziale che ritiene valutabili, anche oltre il mero calcolo matematico, ulteriori conseguenze della carcerazioni, ha quantificato l’indennizzo nella ritenuta misura senza alcun concreto riferimento a fatti e prove dedotti dalla ricorrente; in particolare lamenta violazione di legge laddove la Corte riconosce una autonoma voce di danno biologico, collegato alle sofferenze derivate dalla carcerazione, già considerate nel criterio generale; non ha tenuto conto che il danno all’immagine professionale è collegato anche e specialmente al procedimento penale piuttosto che alla detenzione e che la documentazione prodotta dalla ricorrente era attinente proprio alle vicende processuali fin da un momento addirittura precedente quello in cui è intervenuta la detenzione; quanto al "malessere psicofisico comprovato dalle consulenze prodotte", si fa rilevare che la M. già da molti anni prima della applicazione della misura cautelare soffriva di lipomatosi e che per la sindrome depressiva non giustificava il riconoscimento di una autonoma indennizzo superiore al limite giornaliero; si precisa che l’insuccesso scolastico del figlio era relativo ad anno scolastico iniziato dopo la cessazione della detenzione; che non era sufficientemente documentato il nesso causale tra detenzione e perdita di ulteriori occasioni di lavoro che sembrano piuttosto ricollegarsi alla pendenza del procedimento penale, come espressamente precisato nelle domande di assunzione prodotte dall’istante.

3. Nell’interesse della M. è stata presentata una memoria con la quale ci si oppone alle ragioni dedotte nel ricorso.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte. Occorre in primo luogo premettere, per quanto riguarda i principi generali valevoli per la determinazione dell’indennizzo in parola, che l’istituto della riparazione dell’ingiusta detenzione ha natura indennitaria e non risarcitoria come in particolare chiarito dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte del 13.1.1995 n. 1, Min. del Tesoro in proc. Castellani, secondo la quale "L’equa riparazione per l’ingiusta detenzione è istituto strutturalmente diverso dal risarcimento del danno. Questo può scaturire, come è noto, o da un inadempimento contrattuale, nel qual caso comprende tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, oppure da fatti illeciti, che, se integrano gli estremi di reato, oltre ai predetti danni patrimoniali, attribuiscono il diritto al risarcimento dei danni morali. Nell’un caso e nell’altro l’esistenza dei danni patrimoniali deve essere rigorosamente provata, essendo consentita la valutazione equitativa sul loro ammontare ove non se ne possa dare una prova precisa, b – La riparazione, invece, non si riallaccia al rapporto proprio del danno risarcibile e prescinde dalla prevedibilità di esso e dalla colpa del fatto causante, c – E’ un diritto che si costituisce sulla base di un rapporto lecito e di una attività legittima, quale è quella statuale giudiziaria, e si fonda su un danno obiettivamente ingiusto causato da quella attività. Scaturisce, quindi, da un rapporto di solidarietà civile, onde si deve attuare non con rigidi criteri tecnico-giuridici, ma con criteri prettamente equitativi, d – Ed è alla stregua di questi principi che debbono essere valutati i due criteri di proporzionamento della riparazione, che consistono nella durata della custodia cautelare e nelle conseguenze personali e familiari derivanti dalla privazione della libertà, criteri indicati nell’art. 643 c.p.p., comma 1, richiamato dall’art. 315 c.p.p., comma 3".

Nel delineare i contorni dell’istituto anche con riferimento al parallelo istituto della riparazione dell’errore giudiziario, si è infatti precisato (v. sentenza di questa stessa sezione n. 39815 11/07/2007 Cc. (dep. 29/10/2007) che le differenze concettuali e normative dei due istituti (che qui non è il caso di approfondire) portano a ritenere escluso per la riparazione per l’ingiusta detenzione il criterio risarcitorio, in considerazione dell’uso, nell’art. 314, dell’aggettivo "equa" con riferimento alle conseguenze della sola privazione della libertà personale, di per sè riparabile con meri criteri indennitari, nonchè dall’esistenza di un "tetto" massimo della riparazione che rende questa liquidazione di ardua compatibilità con criteri risarcitori; più precisamente si è osservato che l’art. 314 c.p.p., con il richiamo alla custodia cautelare subita, intende innanzitutto garantire l’indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale e dalle dirette conseguenze di questa privazione sul piano delle attività e dei rapporti personali; e che l’art. 315 c.p.p., comma 3, con il richiamo, in quanto compatibili, anche alle altre norma sulla riparazione dell’errore giudiziario consente di affermare, come del resto sempre riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, che sia applicabile anche alla riparazione per l’ingiusta detenzione – sempre all’interno del tetto massimo previsto – la possibilità di commisurare l’entità della riparazione non solo alla durata della detenzione ma altresì alle "conseguenze personali e familiari" da essa derivanti ( art. 643 c.p.p., comma 1); aggiungendosi che per queste conseguenze ulteriori (gli esempi sono noti: la perdita del lavoro, l’obbligata cessazione di un’attività economica; ma anche una significativa compromissione delle condizioni di salute) è richiesto – a differenza di quanto avviene per il pregiudizio derivante dalla mera privazione della libertà personale – che l’istante fornisca la prova della loro esistenza anche se non del danno subito la cui liquidazione può avvenire equitativamente.

Ciò posto, può ancora ricordarsi, quanto alla concreta determinazione dell’indennità, che è pacifico il principio secondo il quale "La indennità prevista dall’art. 314 c.p.p. deve essere liquidata equitativamente. Ne consegue che il giudice, benchè abbia l’obbligo di motivare in ordine alla valutata equità dell’indennizzo non è tenuto ad una determinazione dell’importo che tenga dettagliatamente conto delle eventuali varie voci di danno, visto che il legislatore ha costruito l’equa riparazione non come risarcimento del danno, sebbene come indennizzo, come atto dovuto, di solidarietà nei confronti di chi è stato ingiustamente privato della libertà" (Cass. 18.12.1996 n. 3176, Avanzato rv. 206650).

La natura di indennizzo della somma liquidata a titolo di riparazione conduce a importanti conseguenze anche nel giudizio di legittimità perchè i criteri, necessariamente equitativi, utilizzati dal giudice di merito non possono essere sindacati in questo giudizio laddove la censura sia in realtà rivolta ad ottenere un controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione; questo è un tipico giudizio di merito, come tale sottratto al giudice di legittimità che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza, o insufficienza, della somma liquidata a titolo di riparazione a meno che, discostandosi in modo assai sensibile dai criteri usualmente seguiti – che fanno riferimento al tetto massimo liquidabile correlato alla durata massima della custodia cautelare – il giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati (ovvero, viceversa, abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta). Nel caso in esame il giudice si è discostato dai principi di cui sopra sotto diversi aspetti, ma non per le ragioni invocate con il primo motivo di ricorso. A tale riguardo è infatti il caso di osservare che il ricorso non è fondato laddove invoca la applicazione alla liquidazione dell’ingiusta detenzione del solo criterio matematico; in tal senso si è espressa una decisione di questa Corte che però è rimasta isolata atteso che anche le sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 4187 del 30.10.2008 dep. 29.2009) hanno di recente riaffermato che la determinazione dell’indennità deve essere effettuata conciliando il criterio aritmetico con quello equitativo, di modo che può ribadirsi il principio, risalente alle sezioni unite Castellani sopra richiamate, secondo cui "La liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà". La Corte di Firenze ha invece errato laddove ha proceduto ad una liquidazione della somma dovuta sostanzialmente ancorata a principi risarcitori, ancorchè seguita da una concreta liquidazione del danno in via equitativa.

La previsione di specifiche voci di danno non patrimoniale (morale e biologico) è infatti indice di una modalità di determinazione dell’indennità con criteri risarcitori, atteso che proprio l’elaborazione che si è avuta nella materia del risarcimento del danno (con le note difficoltà poste dalle limitazioni alla risarcibilità del danno morale solo ai casi espressamente previsti dalla legge) ha portato alla individuazione e differenziazione di specifiche voci di danno da liquidare. Esula dai limiti delle questioni poste dal presente ricorso approfondire una tale tematica, rispetto alla quale è però il caso di rilevare come la stessa giurisprudenza civile abbia di recente modificato i propri precedenti orientamenti in tema di individuazione di danni risarcibili stabilendo che (v. sez. 3, 17.9.2010 n. 19816 rv 614577) i danni non patrimoniali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc).

In secondo luogo la Corte ha errato nella concreta determinazione dell’indennizzo laddove ha dapprima ridotto al 60 % la somma liquidabile per il solo calcolo matematico, per poi riconoscere, nelle modalità sopra riportate, le ulteriori voci di danno. Un tale modo di procedere si discosta infatti, senza apprezzabili ragioni, dalle modalità, sopra richiamate, che questa Corte, con una copiosa e ribadita giurisprudenza, ha ritenuto corrette e che devono trovare applicazione per assicurare uniformità di indirizzo e di valutazione.

In terzo luogo la Corte di Firenze ha determinato l’ulteriore danno riconosciuto alla M. senza indicare in alcun modo le ragioni per le quali la sofferenza per la carcerazione patita doveva giustificare un considerevole aumento dell’indennizzo, ed altresì senza valutare se ed in quale misura la perdita di prestigio e reputazione nel proprio ambiente professionale, il malessere psico- fisico comprovato dalle consulenze prodotte e la perdita di occasioni di lavoro fossero correlate alla detenzione in sè o non anche alla pendenza del procedimento, considerazioni che invece dovevano trovare enunciazione nella ordinanza della Corte per giustificare il riconoscimento alla istante di una somma che certamente si è significativamente discostata dal parametro matematico. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Firenze, che, senza alcuna limitazione ai propri poteri discrezionali, dovrà però procedere ad una nuova valutazione delle richieste della M. che tenga conto dei parametri di riferimento che la giurisprudenza di questa Corte ha al riguardo fissato e che si sono sopra precisati.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Firenze.

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