Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-03-2011, n. 6636 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Firenze, con sentenza in data 19/30.12.2006, confermava la sentenza del Tribunale di Siena n. 337/2002, impugnata dalle Poste italiane, che dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti stipulati fra le Poste Italiane, B.V. e R.M. rispettivamente il 20 Ottobre 1998 ed il 2 ottobre 2000, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994, "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Osservava in sintesi la corte territoriale che, pur nel contesto normativo qualificato dalla previsione della L. n. 56 del 1987, art. 23 restava chiara, comunque, la natura eccezionale dell’apposizione del termine (sia pure in ipotesi individuate dall’autonomia collettiva) a fronte della regola della ordinaria indeterminatezza della durata del contratto di lavoro, e che,in ogni caso, si doveva riconoscere che, una volta che tale autonomia fosse stata esercitata con la previsione di specifiche e delimitate ipotesi, incombesse sul datore di lavoro l’onere di dimostrare le condizioni obiettive che, nel singolo caso, avevano giustificato la clausola del termine;

onere, nella fattispecie, non osservato, essendo stato richiamato solo il processo generale di ristrutturazione operato dall’azienda sul territorio nazionale, senza alcuna dimostrazione in ordine alla effettiva necessità delle assunzioni nello specifico contesto produttivo ove il lavoratore era stato assegnato.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con due motivi, illustrati con memoria.

Resistono con controricorso B.V. e R. M..
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione ( art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 56 del 1987, art. 23 deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria "delega in bianco" in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicchè restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva.

Con il secondo motivo, prospettando omessa motivazione in ordine all’eccezione di aliunde perceptum, sollevata nei precedenti gradi del giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), si duole che la corte territoriale avesse omesso qualsiasi decisione in merito e precisava, al riguardo, che l’eccezione non poteva che essere genericamente dedotta dal datore di lavoro, incombendo il relativo onere, in realtà, sul lavoratore.

2. Con riferimento al primo motivo del ricorso, vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063,v. anche Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato". (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato. Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, alla luce dei quali va corretta la motivazione della decisione impugnata, deve, quindi, rigettarsi il primo motivo del ricorso, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

3. Con riguardo al secondo motivo, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7.

In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità (ed a prescindere della riferibilità pur a tale giudizio della disposizione dell’art. 32, comma 7 che estende retroattivamente ("per tutti i giudizi,ivi compresi quelli pendenti …") i nuovi criteri di determinazione del danno, introdotti dai commi 5 e 6 dello stesso testo) lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006).

In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Nel caso in esame, la ricorrente, con motivo intestato alla omessa motivazione di un fatto controverso e decisivo, ma, in realtà, relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 c.c., censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte discenderebbe che "l’aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dall’istante" e che, ai fini della costituzione in mora del datore di lavoro, si richiede una manifestazione di volontà esplicita del lavoratore di porre a disposizione le proprie energie lavorative.

Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:

"Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

Il quesito descritto, nondimeno, risulta non conforme al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nel motivo e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente. In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, "potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata", le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo. Il quesito posto dalla società ricorrente non risulta conforme ai canoni interpretativi indicati perchè – va ribadito – inidoneo ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 28,00 per esborsi ed in Euro 2.500,00 per onorari di avvocato, oltre ad accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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