Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-03-2011, n. 7276 Dipendenti delle banche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 23.11.2001, aveva respinto il ricorso proposto da M.O., inteso ad ottenere la erogazione del trattamento pensionistico di cui al Regolamento delle pensioni del personale dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane approvato il 11.9.1974, per il periodo dal 1.4.1995 al 15.9.1996, periodo in cui aveva lavorato alle dipendenze della Provincia religiosa SS. Apostoli Pietro e Paolo, nonchè l’erogazione di una pensione, per il periodo successivo alla cessazione di tale rapporto di lavoro con a Provincia religiosa, decorrente dal 1.4.1996, pari alla differenza tra la pensione diretta disciplinata dal citato Regolamento e la quota della pensione liquidatale dall’INPS, rapportata all’anzianità ed alla retribuzione pensionabile maturata.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 14.12.2007, notificata il 17.9.2008, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava la Banca Eurosistemi s.p.a. al pagamento, in favore dell’appellante M., del trattamento pensionistico pari alla differenza tra la pensione diretta ex art. 4 lett. A) del Regolamento delle pensioni dell’I.C.C.R.I. e la quota della pensione corrispostale dall’INPS, rapportata all’anzianità ed alla retribuzione pensionabile maturata dalla data di cessazione del rapporto di lavoro con l’ICCRI, a decorrere dal 1.10.1996.

Sosteneva la Corte di Appello che, quanto al periodo 1.4.1995 – 30.9.1996, gli artt. 4 e 13 del Regolamento Pensioni, in riferimento al trattamento pensionistico integrativo di quello e corrisposto dall’INPS, prevedono la possibilità della relativa corresponsione unicamente quando sia contestualmente erogato il trattamento INPS. Nella specie, l’appellante M. sosteneva che non sussistevano i requisiti per l’erogazione di detta pensione INPS, atteso che l’erogazione, quanto alla pensione di vecchiaia, era subordinata alla cessazione di ogni rapporto lavorativo e che, quanto a quella di anzianità, ella non aveva maturato, nel 1995, la necessaria anzianità contributiva. La Corte territoriale osservava al riguardo che il motivo per come prospettato, era tale da denotare il contrasto con le disposizioni del regolamento, onde rigettava il motivo di gravame.

Quanto al secondo periodo (dal 1.10.1996 in poi), la Corte del merito osservava che, dalla data in cui l’appellante aveva iniziato a percepire, da parte dell’INPS, il trattamento pensionistico, spettava la pensione aziendale ai sensi del richiamato Regolamento.

La società aveva, invece, sostenuto che il trattamento erogato dall’INPS era superiore a quello necessario per consentire l’erogazione dell’integrazione richiesta, ma la Corte, alla luce dell’ulteriore relazione di ctu espletata e dei chiarimenti integrativi resi, rilevava che era stato evidenziato un differenziale a favore del trattamento pensionistico aziendale, rispetto a quello erogato dall’INPS, costante negli anni, e concludeva per la fondatezza del secondo motivo di gravame. Condannava, pertanto, la Banca Eurosistemi spa, conferitaria dell’azienda bancaria già di proprietà della s.p.a. I.C.C.R.I., al pagamento, come già detto, del trattamento pensionistico pari alla differenza tra la pensione diretta ex art. 4, lett. a) del Regolamento delle Pensioni del personale ICCRI e la quota di pensione corrisposta alla M. dall’INPS rapportata all’anzianità ed alla retribuzione pensionabile maturata dalla data di cessazione del rapporto di lavoro con l’ICCRI, a decorrere dal 1.10.1996.

Propone ricorso per cassazione il Banco Popolare Società Cooperativa (già Banca Eurosistemi spa), affidando l’impugnazione a due motivi.

Resiste con controricorso la M., che rileva l’inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 13, comma 2 del Regolamento, che si riferisce all’ipotesi residuale di diminuzione della pensione INPS, per svolgimento di attività lavorativa da parte de pensionato, laddove, dal 1.10.1996, la M. non svolgeva più alcuna attività lavorativa.

La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. nonchè note illustrative di udienza.
Motivi della decisione

Deduce la società, con il primo motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg.; degli artt. 61, 62, 115, 116 c.p.c.; infine, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi ( artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Assume il Banco che era stato applicato, per il periodo dal 1.10.1996 in avanti, quanto disposto dall’art. 13, comma 2, del Regolamento delle pensioni aziendali ICCRI 11.9.1974, nonchè dall’art. 7 del Regolamento Pensioni Aziendali, accordo del 26.10.1988, che prevedevano la possibilità di liquidare un trattamento integrativo aziendale unicamente sulla base della pensione INPS rapportata alla retribuzione pensionabile al momento della cessazione del rapporto di lavoro con l’istituto; rileva che la motivazione, nella parte in cui aveva accolto il secondo motivo di gravame, era erronea per la insufficienza e la carenza logica dell’iter argomentativo e per la violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale in riferimento ai regolamenti applicabili. Osserva che, come evidenziato anche nella prima c.tu., il trattamento pensionistico INPS si era ridotto a causa dell’attività lavorativa svolta dalla M. presso altro datore di lavoro e che, pertanto, la pensione integrativa, ai sensi dell’art. 13, comma 2, del Regolamento, veniva corrisposta in misura pari a quella che sarebbe stata corrisposta nel caso in cui la M. non avesse lavorato successivamente alla cessazione del rapporto con l’ICCRI. Essendo, dunque, la pensione "ipotetica" Inps (non il trattamento effettivamente erogato che risentiva del periodo lavorativo successivo alle dimissioni ICCRI) superiore a quello aziendale, non si era perfezionato per la M. il diritto all’integrazione del trattamento pensionistico INPS. Osserva, ancora, la società ricorrente che, a decorrere dal 1.10.1996. la M. aveva iniziato a percepire la pensione di vecchiaia INPS e che, in relazione ai chiarimenti li richiesti, il C.t.u. aveva accertato l’ammontare della pensione aziendale spettante qualora la M. non avesse maturato il requisito per ottenere la pensione INPS e l’importo del rateo mensile corrisposto dall’INPS alla predetta a far data dall’ottobre 1996 (che risentiva del periodo lavorativo svolto presso l’istituto religioso); che la corte di appello erroneamente aveva ritenuto un differenziale a carico dell’azienda, senza considerare che l’accordo prevedeva che la quota da erogare doveva essere integrativa di quella INPS ipotetica e non di quella effettiva, ma, contraddittoriamente, aveva condannato la stessa al pagamento della differenza tra la pensione diretta e la quota della pensione corrisposta alla dipendente dall’INPS rapportata all’anzianità ed alla retribuzione pensionabile maturata dalla data di cessazione del rapporto con l’istituto di credito che i CTU aveva già conteggiato come superiore alla pensione integrativa aziendale, giungendo alla esatta conclusione che non sussisteva alcun diritto all’integrazione da parte della M.. Pone, a conclusione della parte argomentativa del motivo, quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112. 346, 414 c.p.c. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Rileva che la sentenza ha omesso di statuire sulla eccezione di nullità del ricorso introduttivo.

Il primo motivo di impugnazione deve essere accolto.

Rileva la Corte, preliminarmente, che per il periodo dal 1.4.1995 al 30.9.1996 si è formato il giudicato, non avendo la M. proposto ricorso incidentale.

Quanto al periodo decorrente dal 1.10.1996, deve rilevarsi che la normativa regolamentare richiamata e, specificamente, sia art. 7 del Regolamento delle Pensioni Aziendali, accordo de 26 ottobre 1988, sia l’art. 13, comma 2, del Regolamento dell’ICCRI dell’11 settembre 1974 dispongono nel senso che possa liquidarsi un trattamento integrativo aziendale unicamente sulla base della pensione INPS rapportata alla retribuzione pensionabile al momento della cessazione del rapporto di lavoro con l’istituto stesso (ovvero una pensione "ipotetica") INPS, dovendo eventuali riduzioni di detto trattamento, conseguenti ad attività lavorativa con terzi, far carico all’interessato.

La normativa in questione prevede, invero, testualmente, che "nel caso di riduzione del trattamento pensionarlo INPS per attività lavorativa svolta dal pensionato, verrà corrisposta la pensione integrativa in misura pari a quella che sarebbe stata corrisposta nel caso il pensionato non lavorasse", Il successivo Regolamento Pensioni aziendali, Accordo del 26.10.1988, ulteriormente chiarisce, all’art. 7, che nel caso in cui gli ex dipendenti non abbiano diritto alla liquidazione della pensione di anzianità perchè prestino opera retribuita alle dipendenze di terzi, le obbligazioni del fondo si intendono limitate alla corresponsione della sola pensione integrativa e cioè in misura pari a quella che verrebbe corrisposta nel caso in cui il pensionato non lavorasse. Si aggiunge, nella medesima disposizione, che "nel caso in parola, al momento dell’effettiva liquidazione delle prestazioni INPS, qualora le medesime dovessero risultare diverse da quelle che invece sarebbero maturate in base alla retribuzione pensionabile sulla quale sono determinate le prestazioni del fondo, la quota da erogare dovrà essere integrativa di quella INPS ipotetica e non di quella effettiva".

Nella specie il rapporto della M. con l’ICCRI era cessato nel marzo 1978, per dimissioni volontarie dopo venti anni di servizio e la stessa aveva conseguito, per effetto del disposto di cui all’art. 4, n. 3 del Regolamento, il diritto alla pensione diretta, avente carattere integrativo del trattamento pensionarlo INPS;

tuttavia, la stessa aveva proseguito il servizio alle dipendenze dell’Istituto Don Orione, come la legge le consentiva, sia per perfezionare i requisiti soggettivi fino ad arrivare al raggiungimento dell’anzianità contributiva e dell’età pensionabile massime, sia per fruire del trattamento retributivo, essendo quello pensionistico ritenuto insufficiente.

Aveva, poi, interrotto tale attività lavorativa, ma, al momento in cui aveva maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia (1.10.1996), non le era stata corrisposta alcuna pensione integrativa, essendo la stessa in termini economici rappresentata dal differenziale tra la pensione diretta disciplinata dal Regolamento delle pensioni e la quota della pensione liquidabile dall’INPS rapportata alla anzianità ed alla retribuzione pensionabile maturate alla data di cessazione del rapporto di lavoro tra essa ricorrente e l’istituto resistente. E nella specie tale differenziale era stato ritenuto insussistente dal ctu che aveva rilevato come la pensione ipotetica INPS fosse, a far data dal 1995 in poi, annualmente inferiore a quella aziendale avente carattere integrativo della prima. Irrilevante ai fini considerati è invece l’importo della pensione INPS effettivamente erogata, che risente del periodo lavorativo successivo alle dimissioni dall’ICCRI e che non assume alcuna valenza nel calcolo del differenziale per le argomentazioni svolte.

Deve, dunque, ritenersi che la sentenza impugnata si palesa contraddittoria nella parte in cui, smentendo lo stesso dispositivo ad andando oltre la domanda originariamente formulata dalla ricorrente, condanna l’istituto al pagamento della differenza tra la pensione effettivamente corrisposta dall’INPS a decorrere dal 1.10.1996, che quindi risente del rapporto lavorativo intersorso tra la ricorrente e l’Istituto Don Orione dal 1987 al 1996 ed è di importo minore rispetto a quella ipotetica maturata alla data di cessazione del rapporto di lavoro con l’ICCRI, avvenuto nel 1978, e la pensione aziendale.

Quanto al secondo motivo di ricorso, deve osserva che lo verifica degli elementi essenziali del ricorso introduttivo nel processo de lavoro , costituisce attività pregiudiziale rispetto alla decisione del mento, e che l’omessa determinazione dell’oggetto della domanda e la mancata esposizione dei fatti e degli elementi di diritto, comporta una nullità insanabile, che il giudice dovrà rilevare, in quanto una prosecuzione del processo sarebbe del tutto ingiustificata, rappresentando un inutile dispendio di energie processuali.

Nel processo del lavoro non e presente la disposizione apprestata per il rito ordinano che prevede, all’art. 164 c.p.c., comma 5, che il giudice possa disporre l’integrazione della domanda o la rinnovazione del ricorso, per sanare i vizi relativi ali edictio actionis, ma la Suprema Corte individua una soluzione per il rito lavoristico che si ricava dall’applicazione del principio generale della conservazione degli atti processuali, per il quale, se l’atto riesce comunque a raggiungere lo scopo per il quale è preordinato ex art. 156 c.p.c., esso dovrà essere considerato valido ed efficace. Per la Corte, il vizio relativo all’edictio actionis, comporta nullità dell’atto, solo quando, attraverso l’esame complessivo dell’atto, risulti impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente, rendendo difficoltoso l’esercizio di difesa e il contraddittorio.

Tuttavia, la valutazione della nullità del ricorso introduttivo deve essere compiuta solo dal giudice di merito e nella specie deve ritenersi che implicitamente il giudice del mento abbia proceduto in termini positivi a tale preliminare valutazione e che abbia reputato l’atto completo degli elementi atti ad individuare con sufficiente chiarezza i termini della questione prospettata. Peraltro, l’istituto non ha indicato con precisione in che modo aveva eccepito la nullità ex art. 157 c.p.c., e se la relativa eccezione fosse stata riproposta in sede di gravame, osservandosi, peraltro, che ove il giudice non l’abbia rilevata, disponendo l’integrazione della domanda, o, la rinnovazione del ricorso, tale nullità confluirebbe tra i motivi di impugnazione per error in procedendo del giudice di primo grado; se il vizio non viene prospettato in tali termini, come nella specie, deve ritenersi costituito il giudicato interno che preclude la via a un possibile ricorso in sede di legittimità (cfr., tra le altre, Cass., 27 maggio 2008 n. 13825).

In conclusione, va accolto il primo dei motivi di ricorso prospettati, e la sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, rinviandosi la causa, anche per la regolamentazione delle spese, a diversa corte territoriale per la valutazione delle risultanze processuali, alla luce dei principi evincibili dalla corretta interpretazione delle norme regolamentari.
P.Q.M.

LA CORTE Così provvede:

In prosieguo della camera di consiglio del 4.2.2011, con la medesima composizione, accoglie il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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