T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 11-02-2011, n. 466 Dichiarazione di pubblica utilità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I sig.ri F.L. e A.F., odierni ricorrenti, sono proprietari di una porzione di terreno prospiciente alla loro abitazione situato nel Comune di Trucazzano.

Con determinazione n. 36 del 3 marzo 2008, il Responsabile del Settore Tecnico del predetto Comune ha approvato un progetto relativo a lavori di urbanizzazione per complementi stradali (principalmente riguardanti l’asfaltatura e la realizzazione di marciapiedi) da realizzarsi, fra l’altro, sulla suindicata porzione di terreno di proprietà dei ricorrenti.

I sig.ri L. e F., ritenuto tale provvedimento lesivo dei propri interessi, hanno proposto il ricorso in esame.

Si è costituito in giudizio il Comune di Trucazzano per opporsi all’accoglimento del gravame.

La Sezione, con ordinanza n. 1234 del 24 luglio 2008, ha accolto l’istanza cautelare.

In prossimità dell’udienza di discussione del merito le parti hanno depositato memorie insistendo nelle proprie conclusioni.

Tenutasi la pubblica udienza in data 11 gennaio 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.

Come anticipato la controversia in esame ha ad oggetto il provvedimento con il quale il Comune di Trucazzano ha approvato un progetto relativo a lavori da realizzare, fra l’altro, su di un terreno di proprietà dei ricorrenti.

Detto provvedimento contiene una serie di statuizioni che hanno particolare rilevanza ai fini della decisione della causa, e che conviene dunque mettere subito in rilievo. In particolare viene affermato: a) che il predetto terreno sarebbe assoggettato a "demanialità da più di venti anni"; b) che lo stesso sarebbe stato oggetto di un atto di dicatio ad patriam la quale avrebbe determinato l’"occupazione acquisitiva in favore della Pubblica Amministrazione"; c) che l’approvazione del suindicato progetto comporta dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza.

Dall’insieme di questi elementi, o perlomeno da alcuni di essi, il Comune ricava il presupposto giuridico che lo autorizzerebbe all’esecuzione di un intervento su di un bene di proprietà privata.

Ciò premesso può passarsi all’esame dei mezzi di gravame.

I ricorrenti deducono tre motivi di ricorso.

Con il primo motivo, volto a censurare la pretesa demanialità dell’area, si rivendica la natura totalmente privata del terreno sul quale l’Amministrazione intende realizzare i lavori, contestandosi in particolare l’affermazione secondo la quale l’immobile sarebbe stato oggetto di un atto di dicatio ad patriam.

Con il secondo motivo, si lamenta che la dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza, contenuta nel provvedimento impugnato, sarebbe stata pronunciata senza rispettare le regole procedurali fissate dall’art. 16 del d.P.R. n. 327/2001.

Il terzo motivo censura la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento.

Per una più proficua esposizione è opportuno trattare congiuntamente i mortivi, partendo dalle doglianze contenute nel secondo, laddove si censura la violazione delle regole procedurali fissate dall’art. 16 del d.P.R. n. 327/2001.

La difesa di parte pubblica obietta che la dichiarazione di pubblica utilità non si riferirebbe al terreno di proprietà della ricorrente, in quanto già asservito ad uso pubblico a seguito di dicatio ad patriam; e che per questo motivo non vi sarebbe stata alcuna necessità di ottemperare alle disposizioni di cui al citato art. 16.

In proposito va in primo luogo osservato che il provvedimento impugnato, pur facendo riferimento ad una pluralità di opere da realizzarsi su di una pluralità di aree, non specifica a quali delle suddette opere ed aree vada riferita la dichiarazione pubblica utilità la quale deve, pertanto, considerarsi relativa alla generalità degli interventi.

In secondo luogo si deve evidenziare che l’esercizio del potere espropriativo (di cui la dichiarazione di pubblica utilità costituisce indefettibile presupposto) non può ritenersi intrinsecamente inutile per le aree assoggettate a dicatio ad patriam (e quindi assoggettate a servitù di uso pubblico), in quanto per ciò stesso disponibili alla mano pubblica.

Va invero osservato che, per pacifica opinione dottrinale e giurisprudenziale, sebbene le servitù di uso pubblico sottopongano i beni che ne sono gravati ai poteri di regolazione spettanti all’autorità amministrativa, tali poteri sono tuttavia limitati a quelli intesi a garantire l’uso del bene da parte della collettività nei limiti dettati dal pubblico interesse; l’amministrazione non può invece disporre del bene ed esercitare su di esso i poteri che le competerebbero come se questo appartenesse al proprio demanio. E così, per esempio, se il bene è costituito, come nel caso di specie, da una strada, l’esistenza di una servitù di uso pubblico consente all’amministrazione di realizzare gli interventi che ne garantiscono una migliore fruizione; non le consentono invece di esercitare i poteri diretti ad autorizzarne l’uso eccezionale (si pensi alla concessione di una porzione dell’area per la costruzione e la gestione di un’edicola).

Non va escluso quindi che, su di un’area già gravata da servitù di uso pubblico, l’amministrazione possa nutrire l’interesse a divenirne proprietaria, e quindi ad esercitare con riferimento ad essa il potere espropriativo che le compete, previa dichiarazione di pubblica utilità delle opere da realizzare.

Nel caso concreto, non è dunque escluso che il Comune di Trucazzano intendesse effettivamente espropriare l’area di proprietà dei ricorrenti; ed anzi poiché come anticipato la dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nel provvedimento impugnato, non esclude dal proprio ambito effettuale i lavori da realizzare su detta area, deve ritenersi che anche questa costituisca oggetto del procedimento espropriativo instaurato.

Ciò premesso, non può non rilevarsi la fondatezza della doglianza in esame, giacché anche per pacifica ammissione della difesa di parte pubblica, nel caso concreto l’Amministrazione non ha rispettato le regole procedurali, prodromiche alla dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, fissate dall’art. 16 del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 (deposito presso l’ufficio per le espropriazioni del progetto dell’opera, comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento agli interessati ecc..).

La fondatezza di tale censura è già di per sé decisiva ai fini del vaglio di legittimità del provvedimento impugnato.

Va comunque osservato che anche l’altro presupposto sul quale il Comune pretende di fondare la propria legittimazione per realizzare interventi sull’area della ricorrente (la sussistenza di diritti di natura pubblica sul bene) è insussistente.

Come visto, nel caso concreto, l’Amministrazione resistente ritiene di poter fondare la propria legittimazione ad eseguire i lavori sul terreno privato affermando, fra l’altro, che questo sarebbe assoggettato a demanialità da più di venti anni.

L’affermazione è ambigua, ma sembrerebbe riferirsi alla circostanza che l’Amministrazione eserciterebbe di fatto, da più di venti anni, sul terreno in argomento poteri corrispondenti a quelli esercitabili sui beni demaniali.

Ora, poiché è stato fatto riferimento ad un termine ventennale, e quindi al termine necessario per perfezionare l’usucapione, ed essendo pacificamente ammesso, sia in dottrina che in giurisprudenza, che anche i diritti di natura demaniale possono essere acquistati per usucapione, occorre domandarsi se, nel caso concreto, il Comune di Trucazzano abbia acquisito per usucapione al proprio demanio il terreno di proprietà dei ricorrenti.

La risposta al quesito non può che essere negativa, non avendo l’Amministrazione in alcun modo dimostrato di aver effettivamente posseduto, per un periodo almeno ventennale, e quindi usucapito, il suddetto immobile. Anzi, nelle stesse difese depositate in giudizio dalla parte pubblica non si sostiene affatto che il terreno in parola sia stato usucapito dal Comune di Trucazzano, affermandosi invece che su di esso graverebbe una servitù di uso pubblico costituita a seguito di dicatio ad patriam.

L’acquisto per usucapione del terreno, quindi, non solo non è stato dimostrato in sede processuale, ma neppure è stato allegato; sicché l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale il suddetto immobile sarebbe assoggettato a "demanialità da più di vent’anni" è del tutto apodittica e, per tale motivo, non idonea a giustificare l’intervento che su di esso il Comune intende eseguire.

Come anticipato il provvedimento impugnato afferma altresì che l’immobile in oggetto sarebbe stato oggetto di dicatio ad patriam.

La dicatio ad patriam, consiste nel comportamento del proprietario che mette volontariamente e con carattere di continuità un proprio bene a disposizione della collettività, determinando in tal modo l’insorgere, a favore della collettività medesima, di una servitù di uso pubblico.

Tali servitù consentono alla generalità dei consociati di fruire, in maniera più o meno ampia, a seconda dell’effettivo contenuto del diritto, di beni di proprietà privata. Esse si distinguono dunque dalle servitù pubbliche in quanto, a differenza di queste ultime – che, al pari delle servitù private, presuppongono l’esistenza di due fondi (dei quali uno, detto servente, viene gravato da pesi al fine di assicurare utilità ad un altro fondo, detto dominante) – postulano l’esistenza di un solo immobile gravato da pesi direttamente funzionali alla collettività beneficiaria.

Se il terreno dei ricorrenti fosse stato oggetto di dicatio ad patriam e quindi se esso fosse effettivamente gravato da servitù di uso pubblico, effettivamente il Comune sarebbe legittimato ad effettuare i lavori di cui al provvedimento impugnato giacché, per pacifica opinione, si ammette che l’amministrazione locale, quale ente rappresentativo degli interessi della collettività, possa realizzare, sui beni gravati dal predetto peso, i lavori necessari ad assicurarne la pubblica fruibilità o, perlomeno, a migliorane le possibilità di fruizione mediante l’esercizio dei poteri amministrativi di sua spettanza.

Occorre dunque verificare se, nel caso concreto, sul terreno dei ricorrenti, sia effettivamente sorta una servitù di uso pubblico a seguito di dicatio ad patriam.

Anche in questo caso la risposta al quesito non può che essere negativa.

In proposito va osservato che, come in parte anticipato, la dicatio ad patriam consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività.

Non sono rilevanti le motivazioni per le quali detto comportamento viene tenuto, così come è irrilevante la sua spontaneità o lo spirito che lo anima, essendo al contrario sufficiente che il bene sia effettivamente assoggettato dal proprietario ad uso collettivo, così da soddisfare un’esigenza comune ai membri della collettività, considerati uti cives.

Il diritto si perfeziona non appena l’uso collettivo viene esercitato, senza che occorra un congruo periodo di tempo (come avviene invece per l’usucapione) o un atto negoziale od ablatorio, (cfr. Cassazione civile, sez. II, 12 agosto 2002, n. 12167).

Il connotato essenziale della dicatio ad patriam è quindi dato dalla volontaria messa a disposizione del bene alla collettività: è quindi necessario – in considerazione della notevole importanza degli effetti che tale comportamento determina – accertare in maniera rigorosa se nel caso concreto il proprietario abbia effettivamente inteso mettere il proprio bene a disposizione dei consociati.

In proposito, vale la pena osservare che, proprio con riferimento alla problematica inerente la possibilità di poter considerare perfezionata la dicatio ad patriam in relazione ad una strada, in giurisprudenza si è affermato che l’interclusione dell’area esclude che possa sorgere un suo uso in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un’utilità limitata ai soli proprietari frontisti (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 18 dicembre 2006, n. 7601).

Ciò premesso deve evidenziarsi che, nel caso concreto il Comune di Trucazzano non ha addotto alcun elemento dal quale si possa arguire che effettivamente la porzione di terreno di cui i ricorrenti sono proprietari fosse utilizzata come strada dalla generalità dei consociati.

Dalla documentazione depositata in giudizio emerge che l’area in questione è costituita da una porzione di terreno non asfaltata, prospiciente all’abitazione dei proprietari, sulla quale non risultano posizionate opere che possano far ritenere che su di essa si eserciti il pubblico passaggio, né risultano evidenti altri elementi che possano in qualche modo suffragare siffatta presunzione.

Anzi, è incontroverso che per assecondare la volontà della proprietà, contraria a consentire la circolazione veicolare sul terreno, in passato il Comune ha posizionato alcuni "panettoni" in cemento in modo da impedire alle auto l’accesso all’area dalla pubblica via.

Tale circostanza si appalesa decisiva giacché, il Comune, dopo aver conosciuto e assecondato tale volontà, non può ora pretendere di considerare perfezionata la dicatio ad patriam, al fine di realizzare sull’area medesima opere (quali l’asfaltatura) evidentemente finalizzate a rendere agevole la circolazione veicolare, e quindi idonee ad imprimere ad essa una destinazione funzionale nuova, contrastante con la volontà privata esplicitamente manifestata.

Va pertanto condivisa la prospettazione di parte ricorrente, secondo la quale l’immobile di cui è causa non può considerarsi gravato da servitù di uso pubblico.

I motivi esaminati sono quindi fondati e per questa regione il ricorso va accolto. L’accoglimento delle censure aventi rilievo sostanziale consente di assorbire il motivo inerente alla violazione dell’art. 7 l. 241/90 per la mancata comunicazione dell’avvio di procedimento.

La complessità delle questioni affrontate induce il Collegio a disporre la compensazione delle spese di giudizio, fermo l’onere di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del decretolegge n. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, a carico della parte soccombente.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Spese compensate, fermo l’onere di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del decretolegge n. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, a carico della parte soccombente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *