Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 27-01-2011) 17-02-2011, n. 5869

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

S.S. proponeva ricorso per cassazione avverso il provvedimento del Tribunale di Roma – in data 21 aprile 2010 – con il quale veniva respinto il ricorso per riesame contro il decreto emesso il 3 febbraio 2010 dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma e con il quale veniva imposto il sequestro preventivo di beni ai sensi dell’art. 321 c.p.p. ed L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 11.

Con il primo motivo di ricorso denunciava la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento ai presupposti oggettivi della misura cautelare reale e, in particolare, alla derivazione del profitto oggetto del sequestro dal delitto di associazione per delinquere.

Osservava, a tale proposito, che l’ordinanza impugnata si contraddiceva quando, pur individuando il reato per il quale era stato disposto il sequestro in quello previsto dall’art. 416 c.p., ammetteva che i profitti da sottoporre a confisca erano quelli derivati dal diverso reato di frode fiscale, per il quale non era applicabile la L. n. 146 del 2006.

Rilevava, altresì, l’assenza di un nesso di derivazione immediata e diretta tra i profitti da sottoporre a sequestro ed il reato associativo.

Con il secondo motivo di ricorso lamentava la violazione di legge, penale sostanziale e processuale, con riferimento all’applicazione retroattiva della L. n. 146 del 2006 ancorchè "legge sopravvenuta" e "meno favorevole" al reo.

Aggiungeva che i reati contestati erano collocabili temporalmente in epoca antecedente alla data di entrata in vigore della menzionata normativa e che, con riferimento al reato associativo, non erano stati individuati gli specifici contributi forniti, quale partecipante all’illecito sodalizio, in data successiva all’entrata in vigore della L. n. 146 del 2006.

Con il terzo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge, penale sostanziale e processuale, con riferimento all’applicazione del sequestro finalizzato alla confisca "per equivalente", rilevando come detto sequestro non esime dal dimostrare la provenienza da reato del bene del quale risulti impossibile il sequestro, mentre il Tribunale del Riesame, omettendo tale verifica, aveva concepito il concetto di "equivalenza" come presunzione di illiceità.

Con il quarto motivo di ricorso deduceva la violazione di legge con riferimento all’applicazione del sequestro, nei suoi confronti, per l’intero ammontare del profitto asseritamente derivante dai delitti contestati, mentre era possibile contenere il vincolo entro i limiti, agevolmente individuabili, della quota societaria effettivamente detenuta.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere rigettato.

Va premesso che il Tribunale del Riesame ha correttamente inquadrato, nella introduzione del provvedimento in contestazione, i termini della questione sottoposta alla sua attenzione rinviando, per quanto non contestato, al provvedimento del G.I.P. e, per le questioni attinenti alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, ad altro provvedimento confermativo della misura cautelare personale applicata al ricorrente.

Va altresì osservato, preliminarmente, che gran parte del ricorso si fonda su una non condivisibile individuazione del rapporto intercorrente tra il reato associativo, che è quello per il quale viene applicata la misura cautelare reale ed i reati-fine contestati al ricorrente.

Non viene infatti tenuta in debito conto, come si dirà in seguito, la autonomia del reato associativo rispetto ai reati-fine, giungendo così a non plausibili censure del provvedimento impugnato.

Conseguentemente la tesi del ricorrente sulla non applicabilità della L. n. 146 del 2006 ai reati di frode fiscale è irrilevante, perchè nella fattispecie il sequestro per equivalente è stato applicato in relazione al reato associativo in ordine al quale, come meglio si dirà in seguito, un profitto è certamente configurabile.

Ciò posto, si osserva che è del tutto erronea la lettura dell’ordinanza in contestazione, suggerita dal ricorrente, laddove viene individuata una aperta contraddizione, che consisterebbe nel riferimento ai beni sequestrati da sottoporre a confisca come pertinenti al reato associativo ed alla successiva indicazione ai reati fine, di natura fiscale, quale fonte dei profitti del sodalizio criminale e ciò allo scopo di sostenere che, non essendo contestata la natura transnazionale di questi ultimi, non sarebbe applicabile il disposto della L. n. 146 del 2006, artt. 3 ed 11.

Nella asserzione del Tribunale del Riesame, invero, non è rinvenibile alcuna incoerenza.

I giudici hanno infatti semplicemente dato atto della circostanza che il vincolo associativo era stato costituito per la commissione di determinati reati che avevano consentito agli associati di perseguire profitti definiti di "entità davvero straordinaria".

L’argomentazione è del tutto priva di contraddizioni, considerata la natura del reato previsto dall’art. 416 c.p., che è reato plurisoggettivo di pericolo contro l’ordine pubblico, per la configurabilità del quale si richiede esclusivamente la sussistenza di un vincolo associativo continuativo, finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di delitti e supportato da una minima struttura organizzativa, peraltro senza necessità che gli illeciti siano effettivamente commessi.

Può pertanto affermarsi il principio secondo il quale, nel reato di cui all’art. 416 c.p. il profitto, inteso come l’insieme dei benefici tratti dall’illecito ed a questo intimamente attinenti, può consistere (come nella fattispecie) nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata proprio dall’esistenza di una stabile struttura organizzata e da un comune progetto delinquenziale.

Il provvedimento del Tribunale del Riesame appare altrettanto immune da censure anche con riferimento alle argomentazioni proposte con il secondo motivo di ricorso.

Correttamente i giudici hanno dato, infatti, atto della natura permanente del reato contemplato dall’art. 416 c.p. e della circostanza che il vincolo associativo, che essi ritengono provato a livello di gravita indiziaria, era ancora sussistente alla data di entrata in vigore della L. 16 marzo 2006, n. 146 e, per la ragioni in precedenza esposte, non assumono alcun rilievo i riferimenti ai singoli delitti commessi nell’ambito dell’associazione per delinquere, che è reato autonomo.

Non era inoltre richiesto ai giudici del riesame di individuare, con riferimento al ricorrente, le singole condotte dallo stesso poste in essere nell’arco temporale successivo all’entrata in vigore della L. n. 146 del 2006, ovvero il contributo dallo stesso fornito al sodalizio criminoso, poichè l’associazione sussisteva ed alla stessa partecipava il ricorrente.

Quindi la censura circa la mancata specificazione del contribuito fornito dallo S. è del tutto irrilevante.

Va peraltro ricordato che la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene integrata la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti della partecipazione al reato associativo la ripetuta commissione di reati fine, salvo prova contraria che il contributo fornito sia estraneo al vincolo preesistente con i correi (v. Sez. 2^ n. 5424, 11 febbraio 2010; Sez. 5^ n. 21919, 8 giugno 2010; Sez. 5^ n. 6026, 21 giugno 1997).

Con riferimento al terzo motivo di ricorso, deve rilevarsi come, anche in questo caso, le doglianze difensive non siano meritevoli di accoglimento.

La L. n. 146 del 2006, art. 11 prevede, infatti, un’ipotesi speciale di confisca, con riferimento ai reati menzionati dall’art. 3 della legge medesima, disponendo che il giudice, quando non sia possibile la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato, possa ordinare la confisca "per equivalente" di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a detto prodotto, profitto o prezzo.

Si tratta, come hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte nella decisione menzionata anche dal ricorrente (SS. UU. n. 26654, 2 luglio 2008), di una delle diverse forme che l’istituto della confisca può assumere nei diversi contesti normativi nel quale è utilizzato.

Con riferimento alle ipotesi di confisca per equivalente, le Sezioni Unite osservano che, con essa, il legislatore persegue lo scopo di privare l’autore del reato del profitto che ne deriva, giungendo ad incidere, quando è impossibile una aggressione diretta dello stesso profitto, su denaro, beni o altre utilità di pertinenza del condannato per un valore corrispondente e, per tali ragioni, ne individuano la natura essenzialmente sanzionatoria (il riferimento, oltre alle ipotesi di confisca prevista dalla legge in esame, riguarda anche gli artt. 322 ter, 600 septies, 640 quater, 644, 648 quater c.p., il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 T.U.F., l’art. 2641 c.c.).

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, appare ancora una volta travisato il contenuto del provvedimento impugnato laddove si assume che lo stesso riconoscerebbe la legittimità del sequestro sulla base di una errata concezione dell’equivalenza come presunzione di illiceità.

In realtà il Tribunale del Riesame, facendo buon uso del contenuto della norma, si limita ad osservare come sia irrilevante la legittima provenienza di quanto sequestrato, la data di acquisizione ed il rapporto di pertinenzialità con il reato proprio perchè il vincolo cautelare è imposto "per equivalente", quindi su cose che non costituiscono direttamente il prodotto, il profitto o il prezzo del reato medesimo; ma che l’attività delittuosa posta in essere dal ricorrente e, segnatamente, la partecipazione alla associazione per delinquere, abbia determinato ingenti profitti il Tribunale lo afferma chiaramente, richiamando legittimamente il provvedimento del G.I.P. e l’ordinanza emessa il 17 marzo 2010 senza incorrere, pertanto, in violazione di legge o carenze motivazionali.

Correttamente effettuato appare, infine, il richiamo operato dal Tribunale del Riesame alla giurisprudenza di questa Corte in materia di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente in presenza di più concorrenti nel reato.

Tale giurisprudenza, che il Collegio condivide e dalla quale non intende discostarsi, ammette la possibilità che il sequestro possa interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, sebbene la confisca non possa essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l’ammontare complessivo dello stesso (v. Sez. 5^ n. 10810, 19 marzo 2010; Sez. 6^ n. 18536, 5 maggio 2009, SS. UU. n. 26654,2 luglio 2008, cit.).

Si è altresì fatto rilevare, premessa la natura provvisoria del sequestro, la correttezza di tale soluzione interpretativa con riferimento ai principi contenuti nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con L. n. 848 del 1955) secondo la lettura sistematica data con le sentenze n. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale, affermando anche che "una volta esclusa l’esistenza di vizi in ordine al "fumus" di reato nei confronti del ricorrente, nessuna illegittimità può essere ravvisata nel provvedimento di sequestro che, in funzione della futura possibile confisca anche per equivalente, venga disposto sui beni del singolo concorrente avendo come parametro l’intero ammontare del profitto derivante dal reato" (Sez. 3^ n. 12580, 31 marzo 2010).

Tale assunto non può essere contrastato dall’affermazione del ricorrente, secondo il quale la somma da sottoporre al vincolo cautelare sarebbe stata certamente individuabile entro i limiti della quota societaria del 25% da lui detenuta.

Invero la circostanza appare del tutto inconferente, atteso che non può pretendersi di individuare l’importo dei beni da sequestrare, in vista della confisca "per equivalente", sulla base della quota societaria detenuta dall’indagato implicitamente supponendo, come sembra indicare il ricorso, che gli illeciti proventi dal reato fossero ripartiti tra i partecipanti al sodalizio criminale in proporzione alle quote di partecipazione ad una società di capitali.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali determinazioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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