Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-11-2010) 17-02-2011, n. 5978

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.-. Con sentenza in data 6-12-06 il Tribunale di Palermo ha condannato M.D. alla pena di anni otto di reclusione per i reati di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. (capo a)) e L. n. 195 del 1975, art. 7, comma 2, e L. n. 659 del 1981, art. 4, comma 1, (capo b)), unificati sotto il vincolo della continuazione, con libertà vigilata per la durata minima di un anno, interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, interdizione legale durante la espiazione della pena e incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione per un anno.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Palermo, sezione 1^ penale, in parziale riforma della suindicata decisione, ha assolto il M. dalla imputazione ascrittagli al capo b) della rubrica perchè il fatto non costituisce reato e ha rideterminato la pena a lui inflitta per la residua imputazione di cui al capo a) in anni sei e mesi sei di reclusione, confermando nel resto.

L’addebito originariamente mosso a M.D., medico chirurgo e candidato alle elezioni politiche regionali in Sicilia nell’anno 2001, è quello di avere concorso nel reato di associazione mafiosa, incontrando G.G., capo del mandamento di Brancaccio di "Cosa nostra" ed esponente di vertice della consorteria, presso la sua abitazione in un arco di tempo intercorrente tra il 2 febbraio ed il 28 aprile 2001. Dalle intercettazioni ambientali registrate in occasione degli incontri era emerso, secondo l’Accusa, il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa in capo al M. per avere egli accettato l’appoggio elettorale, anche se non eletto, del mafioso (c.d. patto politico-mafioso); per essersi prestato per ottenere la nomina a primario ospedaliero a soggetti segnalatigli dal G. ed a raccomandare, sempre su segnalazione del G., un medico per un posto di assistente medico, non ottenuto (c.d. vicenda sanità); per essersi adoperato per ottenere una variazione urbanistica indispensabile per realizzare un "Centro commerciale"; per avere disvelato al G. notizie riguardanti indagini in corso.

Dalla motivazione della sentenza di primo grado emerge che il Tribunale di Palermo già in primo grado ha escluso la rilevanza penale della condotta finalizzata ad ottenere la nomina di taluni medici a primari ospedalieri.

La Corte di Appello ha considerato, a sua volta, irrilevanti sul piano penale i comportamenti posti in essere dal M. in riferimento alla ed. vicenda relativa al Centro Commerciale. Di conseguenza la Corte di merito ha ritenuto integrata la fattispecie penale di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. limitatamente alle tre vicende individuate nelle conversazioni intercettate in casa del G., nelle nomine di personale tecnico ospedaliero e nelle rivelazioni sulle indagini in corso a carico del G..

2.-. Avverso la suindicata sentenza resa dalla Corte di Appello di Palermo in data 16-10-2008 ha proposto un primo ricorso il difensore di M.D., avv. Franco Coppi, chiedendone l’annullamento.

Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), in relazione all’art. 268 c.p.p., comma 3.

La Corte di merito non avrebbe dato risposta allo specifico motivo di gravame relativo alla asserita inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali disposte con Decreto n. 963/01 NRI, e, in particolare, delle conversazioni captate in casa G. nei giorni 12 e 15 giugno 2001, nonchè degli atti da esso decreto desumibili. Il citato decreto, a dire del ricorrente, non conterrebbe alcuna indicazione delle eccezionali ragioni di urgenza, che costituiscono il presupposto della norma derogatoria al regime ordinario, e non specificherebbe in alcun modo la situazione fattuale che giustificava il giudizio di inidoneità degli impianti in dotazione alla Procura della Repubblica. Nonostante la censura avesse formato oggetto di specifico motivo di appello, la Corte di merito avrebbe omesso qualunque motivazione sul punto.

Con il secondo motivo di ricorso si lamentano gli stessi vizi in riferimento alla 24 proroga di intercettazione disposta dal GIP di Palermo in data 2-2-2001, di cui al decreto n. 1007 del 29-7-1999. In particolare, costituiva oggetto di specifico motivo di appello la asserita discrasia esistente tra la motivazione della richiesta di proroga del P.M. procedente e la ipotesi delittuosa, normativamente ed ontologicamente diversa, per la quale il GIP aveva autorizzato la proroga richiesta. In buona sostanza, la Corte di Appello, pur dando atto che il GIP, in tale provvedimento, aveva fatto espresso riferimento al latitante D.F.F. e che analoga menzione espressa non si rinveniva nella richiesta di proroga di intercettazione ambientale avanzata dal P.M. in data 1-2-2001, ha affermato che doveva tuttavia valutarsi il tenore complessivo della richiesta, nella quale si rappresentava che persistevano "le ragioni di cui al decreto sopra menzionato" (ossia al decreto di intercettazione del 29 luglio 1999, convalidato dal GIP il 31 luglio 1999) e non veniva esclusa, in alcun modo, la esigenza di proseguire le indagini nei confronti del latitante D.F.F.. In definitiva, secondo la Corte di merito, il P.M. non avrebbe condiviso le conclusioni esposte dai Carabinieri nella nota del 2-12-2000 (con particolare riferimento alla prospettata opportunità di interrompere le indagini finalizzate alla cattura del latitante). Ad avviso del ricorrente, avendo ricostruito in tal modo gli atti ed essendosi ritenuto che il P.M. non avesse fatto propria la menzionata nota dei Carabinieri, il decreto in esame sarebbe illegittimo per la omessa indicazione delle ragioni che giustificavano il ricorso ad impianti esterni. In ogni caso, la Corte di merito avrebbe operato un inammissibile autonomo intervento correttivo, dal punto di vista motivazionale, della richiesta del P.M. e del decreto del GIP, attribuendo a detti magistrati meri intendimenti su ciò che avevano in animo di fare in rapporto a ciò che effettivamente era stato scritto come motivazione del loro operato.

Con il terzo motivo di ricorso, dopo avere richiamato le sentenze della Sezioni Unite in data 30-10-2002 (Carnevale) e 12-7-2005 (Mannino) in materia di concorso esterno in associazione mafiosa, si sostiene che nel caso in esame la Corte di merito avrebbe fatto cattiva applicazione dei principi di diritto ivi affermati, in quanto avrebbe fondato la responsabilità del M. sulla mera disponibilità e compiacenza da lui mostrata nei confronti del G., non individuando alcun comportamento concreto, specifico, consapevole e volontario e dotato di effettiva rilevanza causale (da valutare con una verifica ex post) ai fini della conservazione o del rafforzamento della associazione e, comunque, diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della associazione mafiosa.

Ed infatti: a proposito delle conversazioni intercettate in casa del G., la Corte di Appello si sarebbe limitata ad individuare soltanto una mera disponibilità del M. ad assecondare i desiderata del G.; a proposito delle nomine di personale medico ospedaliero, la decisione avrebbe fondato il giudizio di responsabilità esclusivamente facendo riferimento a potenziali vantaggi che l’organizzazione avrebbe conseguito con la nomina del dott. C., medico segnalato dal G. ma non assunto all’esito del concorso per assistente medico; in ordine alle rivelazioni sulle indagini in corso a carico del G., si sarebbe affermato che il contenuto delle notizie rivelate era potenzialmente in grado di agevolare la associazione; in ordine al c.d. patto politico-mafioso relativamente all’impegno del G. per procurare voti al M. non si sarebbe adeguatamente motivato in ordine alla intenzione di contribuire al conseguimento degli scopi della associazione mafiosa.

Con il quarto motivo di ricorso si esaminano in dettaglio le conversazioni intercettate in casa G. e si sostiene che i Giudici di merito avrebbero ricavato la disponibilità del M. unicamente in base a una serie di frasi del G., per altro lette in maniera illogica e frammentaria senza individuare condotte finalizzate al vantaggio del sodalizio mafioso e idonee a fornire contributi positivi alla associazione. A parte il fatto che dal contenuto di dette conversazioni emergerebbe la inesistenza di qualsiasi patto politico-mafioso tra il M. ed il G..

Il quinto motivo di ricorso affronta specificamente il tema delle rivelazioni sulle indagini in corso a carico del G., mettendo in luce l’evidente mendacio dell’ A., già ritenuto inattendibile dal Giudice di primo grado in riferimento a episodi di riciclaggio a lui contestati e in ogni caso confuso, generico e autore di dichiarazioni in larga parte frutto di mere deduzioni.

Inoltre, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, alle dichiarazioni dell’ A. non potrebbero fungere da riscontro nè le deposizioni degli operatori di polizia giudiziaria (relative a un mero servizio di pedinamento) nè la intercettazione ambientale del 12-6-2001, illogicamente ricostruita nel suo contenuto dalla Corte di merito.

Con il sesto motivo si deduce vizio di motivazione in ordine all’elemento psicologico in relazione all’episodio del (OMISSIS).

In altre parole non sarebbe stata dimostrata in alcun modo la volontà del M. di far pervenire la notizia al G., posto che l’ A. avrebbe dichiarato di essersi recato di sua iniziativa a casa del G. per informarlo delle novità apprese dal M..

La settima, ottava e nona censura si incentrano nel dedotto vizio di motivazione in relazione alla conversazione captata in data 15-6- 2001. In riferimento ad una specifica frase pronunciata dalla moglie di G., Gr.Gi., la Corte di merito avrebbe illogicamente accreditato la opinione espressa da alcuni periti ( Ge. e L.C.) rispetto a quelle, diametralmente opposte, di altri ( P. e Z.). Anche in ordine alla identificazione del " To." con l’on. Cu. (oggetto di specifico motivo di gravame) la Corte di Appello non avrebbe sviluppato alcuna motivazione.

Il decimo motivo di ricorso è relativo all’episodio del (OMISSIS) (rivelazioni presso il ristorante (OMISSIS) da parte del M. all’ A. circa la esistenza di ulteriori microspie in casa G.). In ricorso si sottolinea: che l’episodio è stato ricostruito unicamente in base a quanto dichiarato dall’ A.;

che, in ogni caso, il fatto non avrebbe prodotto alcun vantaggio concreto alla associazione mafiosa, vantaggio da valutare ex post;

che non potevano valere come riscontro i riferimenti del teste V..

Con l’undicesimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p. e il vizio di motivazione sul punto con particolare riferimento alle nomine di personale medico ospedaliero, sottolineando che il medico segnalato dal G. al M. (dott. C.) non era stato assunto all’esito del concorso per assistente medico, con la conseguenza che nessun vantaggio concreto l’organizzazione aveva conseguito dalla condotta ascritta al M.. A parte il fatto che l’interessamento del G. era stato da lui espressamente giustificato con argomentazioni di carattere amicale ed umanitario.

L’ultima censura attiene alle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto e sesto dell’art. 416 bis c.p., erroneamente ritenute sussistenti dalla Corte di merito, al mal motivato diniego delle attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio inflitto, ritenuto eccessivo anche alla luce del fatto che la Corte di Appello ha concluso per la irrilevanza penale di una delle condotte originariamente ascritte al M. (la c.d. vicenda relativa al Centro Commerciale).

3.-. Un secondo ricorso presentato nell’interesse del M. (a firma dell’avv. Giuseppe Gianzi) si articola nelle seguenti censure:

a) Violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, e mancanza assoluta di motivazione in ordine alla eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali effettuate in casa G. successivamente al 30 maggio 2001 ed eseguite in forza del Decreto n. 963/01 del P.M. presso il Tribunale di Palermo e di tutti gli atti successivi dalle stesse dipendenti. Si tratta di motivo del tutto analogo a quello illustrato come prima doglianza nel punto che precede. b) Violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del M. per concorso esterno in associazione mafiosa. Ricordati i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità (S.U. Carnevale e Marinino), il ricorrente puntualizza la ratio decidendi della sentenza impugnata nel ruolo di intermediario che il M. avrebbe accettato di svolgere tra il Cu. ed il G., adoperandosi per la costituzione di una sorta di canale tra i due. A suo avviso, la Corte di merito avrebbe ritenuto che la semplice volontà in capo al M. di adoperarsi per assumere il preteso ruolo di intermediario tra il G. ed il Cu. integrava gli elementi costitutivi del reato contestato, in quanto sostanziava l’accordo raggiunto tra l’esponente politico (il medesimo M.) ed il mafioso G.. Secondo il ricorrente però, anche volere ammettere in via di ipotesi la effettiva assunzione di tale ruolo da parte del M. (cosa fermamente contestata), ciò non sarebbe sufficiente a sostanziare il contributo dell’extraneus al sodalizio mafioso, in quanto soltanto l’effettivo rafforzamento della associazione, valutato con logica a posteriori, potrebbe integrare l’elemento oggettivo del reato in esame, per cui il fatto di porsi quale intermediario, non seguito da risultati di concreta utilità per l’intero organismo associativo, non varrebbe di per sè in alcun modo a integrare la condotta delittuosa contestata. In definitiva, si ribadisce che il concorso esterno non consiste nella mera disponibilità (nella specie far da tramite), ma nella specifica prestazione di un comportamento di concreta ed effettiva utilità per l’associazione nel suo complesso. Nel pervenire ad opposte conclusioni, la Corte di Appello avrebbe valorizzato elementi di fatto inconferenti, quali le conversazioni intercettate in casa G. (in nessuna delle quali sarebbe ravvisabile o desumibile la indicazione di un apporto concreto del M. al G. o alla associazione alla quale questi apparteneva). A parte il fatto che le vicende giudiziarie del Cu. non avrebbero condotto ad alcun accertamento in ordine alla sua responsabilità concorsuale nel delitto di associazione mafiosa. c) Violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del M. per concorso esterno in associazione mafiosa e in ordine alla ritenuta attendibilità dell’imputato di reato connesso, A.S..

Il ricorrente si sofferma sulle condotte nelle quali il Giudice di Appello ha ravvisato un apporto concorsuale alla associazione da parte del M., e cioè le rivelazioni sulle indagini a carico del G. e le nomine di personale medico ospedaliero, per concludere che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, i comportamenti storicamente tenuti dal M. avrebbero dovuto apprezzarsi per la assoluta carenza di qualsiasi contributo causale ai fatti. In particolare, in riferimento alla prima vicenda nel ricorso si insiste per la inattendibilità intrinseca dell’ A. e per la mancanza di riscontri estrinseci alle dichiarazioni accusatone del predetto, non potendo essere considerate tali le dichiarazioni del teste V.. Segnatamente in riferimento all’episodio del (OMISSIS) si sottolinea che nella decisione censurata non si sarebbe dato risposta alla argomentazione difensiva che nel corso della conversazione ambientale registrata l’ A. non avrebbe attribuito al M. la fonte della conoscenza trasmessa al G., non avrebbe riferito a quest’ultimo di avere precedentemente incontrato il M. e avrebbe riconosciuto di non essere stato mai chiamato dal M.;

in riferimento all’episodio del (OMISSIS) nessuna risposta sarebbe stata data circa l’inidoneità della testimonianza V. a riscontrare le dichiarazione dell’ A. e circa le specifiche indicazioni che avrebbero dimostrato la sicura inveridicità del narrato dell’ A.. In ogni caso nella vicenda delle microspie la Corte di merito avrebbe trascurato altre considerazioni attinenti alla inefficienza causale del comportamento attribuito al M. ed alla assenza di qualsiasi intenzione da parte dell’imputato di trasmettere la notizia al G., avendo l’ A. di sua iniziativa deciso di recarsi a casa di quest’ultimo per riferire.

Quanto alla vicenda attinente alle nomine di personale medico ospedaliero (ridimensionata al solo interessamento in favore del dr. C.), quest’ultimo non era stato assunto all’esito del concorso, sicchè in ogni caso il contributo dell’imputato non aveva prodotto, con valutazione a posteriori, un effettivo rafforzamento della associazione mafiosa. A parte il fatto che si era trattato di un interessamento di natura esclusivamente personale, dovuto ai rapporti di conoscenza e anche di parentela intercorrente tra il M. ed il C.. d) Violazione dell’art. 378 c.p. e vizio di motivazione sul punto.

L’eventuale realizzazione di una attività personale del M. dotata di efficienza causale rispetto al rinvenimento delle microspie da parte del G. sarebbe sussumibile al più nello schema del favoreggiamento personale, eventualmente aggravato ai sensi dell’art. 378 c.p., comma 2: il M., infatti, non ha mai avuto rapporti con altri associati, al di là di quelli intrattenuti con il G., e difetterebbe nel caso di specie il dolo di concorrere al raggiungimento degli scopi del sodalizio criminoso. e) Violazione dell’art. 62 bis c.p. e vizio di motivazione in ordine al diniego delle richieste attenuanti generiche.

4.-. In prossimità della odierna pubblica udienza, il difensore del M. (avv. Gianzi) ha dedotto un motivo nuovo, incentrato in due specifici profili di travisamento del fatto sul tema delle rivelazioni sulle indagini a carico del G..

In primo luogo la Corte di merito avrebbe errato nell’affermare che il narrato dell’ A. in ordine all’episodio del (OMISSIS) (cena al ristorante (OMISSIS)) sarebbe stato riscontrato dalle dichiarazioni del teste V., in quanto ques’ultimo si sarebbe limitato a riferire di avere visto M. ed A. che, alla fine della serata, colloquiavano tra loro, senza percepire il contenuto della conversazione e semplicemente avvertendo che i due sembravano arrabbiati e di diverso umore rispetto a quanto notato nel corso della cena precedente.

In secondo luogo, contrariamente a quanto affermato in sentenza, in riferimento alla intercettazione in casa G. del 15 giugno 2001 il consulente P. e il perito Z. avrebbero affermato che l’intera frase attribuita alla moglie del G. (e non solo le ultime due parole) era oggettivamente inascoltabile per le caratteristiche strutturali della intercettazione.

5.-. La prima censura è stata formulata in termini pressochè analoghi in entrambi i ricorsi proposti nell’interesse del M..

Si tratta della dedotta violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, in riferimento specifico al Decreto n. 963/01 NRI (acquisito da questa Corte di Cassazione, unitamente agli altri atti di riferimento), decreto che sarebbe nullo, in quanto privo delle indispensabili indicazioni in ordine alle eccezionali ragioni di urgenza, che costituiscono il presupposto della norma derogatoria al regime ordinario, e in ordine alla situazione fattuale che avrebbe giustificato il giudizio di inidoneità degli impianti in dotazione presso la Procura della Repubblica. Dalla nullità del predetto decreto discenderebbe la inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali effettuate in casa G. successivamente al 30 maggio 2001 e di tutti gli atti successivi dalle stesse dipendenti.

La censura è infondata.

In primo luogo deve rilevarsi che fin dal 1999 (decreto urgente del P.M., convalidato dal GIP in data 31 luglio 1999) la Procura della Repubblica di Palermo aveva intrapreso una attività di intercettazione all’interno della abitazione di G. G., capo del mandamento mafioso di Brancaccio, nel contesto di una complessa attività di investigazione finalizzata alla cattura del latitante mafioso, D.F.F., componente del clan Bagarella, condannato all’ergastolo.

Dalle conversazioni intercettate era stato possibile rilevare gradualmente la ripresa da parte del G., che si trovava agli arresti domiciliari, delle attività connesse alla gestione ed alla riorganizzazione del citato mandamento mafioso di Brancaccio, a imponenti traffici internazionali di sostanze stupefacenti e a estorsioni.

Alla data del 3 giugno 2001 scadevano, però, i termini di indagine preliminare per l’originaria ipotesi di reato per la quale era stata autorizzata l’intercettazione ambientale in casa G..

Preso atto di ciò e ritenuto che, alla luce delle predette risultanze, l’intercettazione ambientale in questione fosse "assolutamente necessaria per completare l’acquisizione degli elementi di prova in ordine ai reati di associazione criminale dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti e di estorsione continuata ed aggravata, in considerazione della attuale, consumazione dei medesimi da parte del G. e dei suoi correi, e considerata la indispensabilità dell’ascolto delle conversazioni destinate ad avvenire in detta abitazione, punto di incontro con altri aderenti all’organizzazione" (anche perchè ancora in data 2 maggio 2001 era stata intercettata una conversazione tra G. e S., particolarmente significativa in ordine ai traffici illeciti in questione), il P.M. di Palermo, in data 30 maggio 2001, aveva richiesto al GIP un nuovo decreto autorizzativo relativo alle intercettazioni in casa G. e il GIP, nella stessa data, aveva autorizzato dette intercettazioni.

Su queste basi il P.M. di Palermo, sempre in data 30-5-2001, con il decreto denunciato (n. 963/01) aveva delegato per l’esecuzione Ufficiali ed Agenti di P.G. del ROS di Palermo "con l’ausilio delle apparecchiature della ditta CA.To Tronic Italia di Milano, che si autorizzala) a nominare ausiliario di P.G., stante l’inidoneità degli apparati di questa Procura".

Come si è visto, ad avviso del ricorrente, il suindicato decreto esecutivo del P.M., non contenendo alcuna indicazione in ordine alle eccezionali ragioni di urgenza, che consentivano lo svolgimento delle operazioni in impianti diversi da quelli esistenti presso la locale Procura della Repubblica, e non spiegando la situazione fattuale che giustificava il giudizio di inidoneità degli impianti in dotazione presso detta Procura, sarebbe nullo, in quanto emesso in violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3.

Deve però sottolinearsi in primo luogo la particolarità della problematica sottoposta all’esame di questa Corte, posto che, come si è visto, il decreto in questione, inserendosi in realtà in una catena di altri provvedimenti analoghi relativi alla intercettazione ambientale in casa G. già in corso di svolgimento da un notevole arco di tempo, solo formalmente deve qualificarsi come "nuovo", avendo in realtà la natura sostanziale di una ennesima proroga delle intercettazioni ambientali in atto, sulle quali nulla si eccepisce da parte del ricorrente e in ordine alla quale non sarebbe stato necessario un ulteriore provvedimento esecutivo delle operazioni da parte del P.M. (Sez. Un. sentenza n. 42792 del 31-10- 2001, rv. 220094, Policastro).

A parte ciò, deve evidenziarsi che la autorizzazione del GIP in data 30-5-2001 (alla quale il Decreto n. 963/01 ha dato esecuzione, facendovi esplicito rinvio) da un lato rinvia alla richiesta del P.M. nella stessa data, facendola propria, dall’altro fa espresso riferimento, oltre agli accertati rapporti tra il G. ed i favoreggiatori del latitante D.F., alla attività in corso del medesimo G. di ripresa della gestione del mandamento mafioso di Brancaccio, di organizzazione di imponenti traffici internazionali di droga con la Colombia e di gestione di attività estorsive.

Questa Corte ha già chiarito che in tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la sussistenza delle eccezionali ragioni di urgenza richieste per l’esecuzione delle operazioni mediante l’impiego di apparecchiature diverse da quelle installate presso gli uffici della Procura può anche essere implicita quando si faccia riferimento ad un’attività criminosa in corso, quale quella relativa a reati di criminalità organizzata, per loro natura permanenti (Sez. 2, Sentenza n. 5103 del 17/12/2009, Rv. 246435, Cannizzaro) e può desumersi anche implicitamente dallo stesso contesto del processo e dalla natura delle imputazioni (Sez. 6, Sentenza n. 15396 del 11/12/2007, Rv. 239633, Sitzia).

Nulla quaestio, pertanto in ordine al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza in una fattispecie, come quella in esame, relativa ad un’associazione di stampo mafioso, a traffici internazionali di sostanze stupefacenti e ad altri gravi reati, in cui le ragioni di urgenza sono correlate ad una situazione di emergenza rappresentata dalla necessità di evitare il protrarsi di condotte criminose ancora in atto, di cui il P.M. ha dato atto attraverso il richiamo del decreto emesso dal GIP. Quanto al secondo presupposto richiesto dall’art. 268 c.p.p., comma 3, è pur vero che le Sezioni Unite di questa Corte hanno recentemente affermato che in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, l’obbligo di motivazione del decreto del Pubblico Ministero che dispone l’utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione all’ufficio di Procura non è assolto col semplice riferimento alla "insufficienza o inidoneità" degli impianti stessi (che ripete il conclusivo giudizio racchiuso nella formula di legge), ma richiede la specificazione delle ragioni di tale carenza che in concreto depongono per la ritenuta "insufficienza o inidoneità" (Sez. Un., Sentenza n. 30347 del 12/07/2007, Rv. 236754, Aguneche).

Tuttavia è stato anche chiarito che in materia di esecuzione delle operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, allorchè il Pubblico Ministero indichi nel decreto di autorizzazione all’utilizzo di apparecchiature esterne all’ufficio attività di indagini incompatibili con la strumentazione d’ufficio, è superflua ogni ulteriore motivazione a sostegno della ritenuta inidoneità di detta strumentazione rispetto allo scopo perseguito (Sez. 1, Sentenza n. 18174 del 08/04/2009, Rv. 243681, La Causa), e che il requisito dell’inidoneità o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica deve essere valutato tenendo conto della relazione tra le caratteristiche delle operazioni di intercettazione da svolgere nel caso concreto e le finalità perseguite attraverso tale mezzo di ricerca della prova, per le quali risultano inadeguati gli impianti dell’ufficio di Procura e necessario invece il ricorso alle apparecchiature esterne (Sez. 6, Sentenza n. 2930 del 23/10/2009, Rv. 246128, Ceroni).

Nel caso in esame il P.M. di Palermo si è limitato nel decreto esecutivo ad una assai succinta motivazione ("stante l’inidoneità degli apparati di questa Procura"), ma dal decreto autorizzativo del GIP (al quale si è fatto esplicito rinvio nel citato decreto esecutivo) e dalla richiesta di autorizzazione formulata dal P.M. (fatta propria dal GIP nella autorizzazione) emergevano chiaramente, data la particolare natura delle attività delinquenziali in corso di attuazione e il tipo di indagini necessarie, le ragioni che rendevano concretamente inadeguati gli impianti esistenti in Procura al raggiungimento dello scopo.

Poichè gli atti del processo da ultimo citati integrano per relationem il decreto esecutivo del Pubblico Ministero, ad essi è possibile far riferimento per individuare le effettive ragioni della insufficienza o della inidoneità degli impianti esistenti presso la Procura della Repubblica (Sez. U, Sentenza n. 30347 del 12/07/2007, Rv. 236755, Aguneche).

6.-. Ulteriore censura relativa alle intercettazioni ambientali è quella che si appunta sulla 24 proroga di intercettazione, disposta dal GIP di Palermo in data 2-2-2001, di cui al decreto n. 1007 del 29- 7-1999.

In riferimento a quest’atto si sostiene da parte del ricorrente la esistenza di una discrasia esistente tra la motivazione della richiesta di proroga del P.M. procedente e la ipotesi delittuosa, normativamente ed ontologicamente diversa, per la quale il GIP aveva autorizzato la proroga richiesta. In buona sostanza, secondo il ricorrente, il P.M. di Palermo, in adesione alla nota dei Carabinieri del 2-12-2000, aveva richiesto la proroga della intercettazione non più per la ricerca del latitante D.F. ma per verificare un ingente traffico internazionale dì stupefacenti in atto e individuare appartenenti alla famiglia mafiosa di Palermo – Roccella.

A fronte di tale richiesta, il GIP avrebbe invece autorizzato il proseguimento della intercettazione ambientale facendo riferimento ancora alle esigenze connesse alla ricerca del citato latitante, senza motivare sulle nuove emergenze. Inoltre la Corte di Appello, affermando, per superare la discrasia di cui sopra, che doveva valutarsi il tenore complessivo della richiesta del P.M., da un lato avrebbe operato una ricostruzione degli atti (in base alla quale il P.M. non avrebbe fatto propria la menzionata nota dei Carabinieri) che comporterebbe la illegittimità del decreto in esame per la omessa indicazione delle ragioni che giustificavano il ricorso ad impianti esterni e, dall’altro, avrebbe effettuato un inammissibile autonomo intervento correttivo, dal punto di vista motivazionale, della richiesta del P.M. e del decreto del GIP. La censura è infondata.

Questa Corte, infatti, ha già affrontato la stessa questione, spiegando che la doglianza del ricorrente trae spunto da una asserita difformità tra una nota dei Carabinieri ed un provvedimento del GIP per desumere da essa la violazione degli artt. 267 e 268 c.p.p., senza considerare che tali norme, del tutto opportunamente, indicano come autore e responsabile della richiesta di intercettazioni il solo Pubblico Ministero, mentre riservano alla Polizia Giudiziaria il ruolo di esecuzione delle operazioni di intercettazione. Ne deriva la inconfigurabilità, in materia di intercettazioni, di una discrasia tra una nota di Polizia Giudiziaria ed un provvedimento del GIP, a meno che non si assuma e non si dimostri che il Pubblico Ministero abbia integralmente recepito e fatto propria in un suo provvedimento la nota della Polizia (Sez. 6, sentenza 10-2-04, Miceli).

In realtà nel caso di specie, la Corte di Appello ha correttamente rilevato che la richiesta del P.M. in riferimento alla prosecuzione della intercettazione ambientale in casa G. doveva essere valutata nel suo tenore complessivo e che in detta richiesta si rappresentava che persistevano "le ragioni di cui al decreto sopra menzionato" (ossia al decreto di intercettazione del 29 luglio 1999, convalidato dal GIP il 31 luglio 1999) e non veniva esclusa, in alcun modo, la esigenza di proseguire le indagini nei confronti del latitante D.F.F.. Ne derivava che il P.M., unico titolare del potere di richiedere intercettazioni, non aveva condiviso (nè in alcun modo recepito) le conclusioni esposte dai Carabinieri nella nota del 2-12-2000 con particolare riferimento alla prospettata opportunità di interrompere le indagini finalizzate alla cattura del latitante (nota, del resto, neanche menzionata dal P.M. nella sua richiesta). Conseguentemente nessuna discrasia era ravvisabile con il decreto del GIP, che aveva autorizzato la prosecuzione delle intercettazioni anche per tale ragione.

Si tratta di una ineccepibile interpretazione degli atti sopra richiamati, anche perchè basata sul loro tenore letterale e sul loro avvicendarsi nel tempo.

7.-. Gli ulteriori motivi di ricorso riguardano la asserita violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p. e il dedotto vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del M. per concorso esterno in associazione mafiosa.

Si sostiene sostanzialmente nei ricorsi che i Giudici di merito avrebbero fatto una cattiva applicazione della giurisprudenza di legittimità sul concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto il semplice ruolo di intermediario che il M. avrebbe (secondo l’accusa) svolto tra il G. ed il Cu. non sarebbe stato in ogni caso sufficiente a sostanziare il contributo all’extraneus al sodalizio mafioso. Infatti soltanto l’effettivo rafforzamento della associazione, valutato con logica a posteriori, avrebbe potuto integrare l’elemento oggettivo del reato in esame. In buona sostanza la Corte di Appello avrebbe invece ritenuto che per il concorso esterno in associazione mafioso fosse sufficiente la mera disponibilità (nella specie far da tramite) e non avrebbe individuato alcun comportamento concreto, specifico, consapevole e volontario da parte dell’imputato, che fosse dotato di effettiva rilevanza causale (da valutare con una verifica ex post) ai fini della conservazione o del rafforzamento della associazione e, comunque, diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della associazione mafiosa. In particolare, non potrebbero essere considerati tali nè le conversazioni intercettate in casa G. (poichè in nessuna di esse sarebbe ravvisabile o desumibile la indicazione di un apporto concreto del M. al G. o alla associazione alla quale questi apparteneva) nè le nomine di personale medico ospedaliero (trattandosi di persone poi non assunte) nè le asserite rivelazioni sulle indagini in corso a carico del G. (non essendone stata dimostrata la capacità di agevolare la associazione) nè il c.d. patto politico-mafioso relativamente all’impegno del G. per procurare voti al M. (non essendosi provata l’intenzione di contribuire al conseguimento degli scopi della associazione mafiosa).

Nei ricorsi si insiste altresì sulla inattendibilità dell’ A. e sulla mancanza di riscontri alle sue dichiarazioni e si sostiene che l’ A. avrebbe di sua iniziativa deciso di recarsi a casa del G. per avvisarlo della microspie.

Anche queste censure sono prive di fondamento.

Deve preliminarmente ribadirsi che, conformemente al più recente orientamento delle Sezioni Unite (n. 33748 del 12-7-2005, Marmino, rv. 231671), per la sussistenza del concorso esterno in associazione mafiosa è indispensabile che il contributo esterno prestato "esplichi una effettiva rilevanza causale e pertanto si appalesi quale condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative della associazione e sia diretto alla realizzazione, anche, parziale, del programma criminoso" (con apprezzamento ex post, oltre il ragionevole dubbio); con la conseguenza che non può più proporsi la distinzione tra contributo episodico e contributo occasionale per inferirne differenti criteri di accertamento causale, dovendo, in ogni caso, la condotta dell’extraneus tradursi in uno specifico facere rivolto alla realizzazione anche parziale del programma criminoso e non potendo consistere in atteggiamenti di mera disponibilità. Parimenti in riferimento allo scambio elettorale politico-mafioso, non può più sostenersi che la sola stipula del patto sia bastevole a dar vita ad una ipotesi di concorso esterno, allorchè produca il risultato della rassicurazione collettiva dei membri del gruppo, occorrendo anche in questo caso "una verifica probatoria ex posi della efficacia causale" (di tale patto) e non essendo sufficiente "una valutazione prognostica di idoneità ex ante". Infine, come si è visto, il dolo del concorrente esterno deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, agendo l’interessato nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.

Tutto ciò premesso, non resta che vagliare, in riferimento alla posizione del M., se la Corte di Appello di Palermo si sia in effetti, almeno nella sostanza, conformata a questi principi.

Come si è visto al punto 1,1 Giudici di merito hanno ritenuto accertato che M.D., medico chirurgo e candidato alle elezioni politiche regionali in Sicilia nell’anno 2001, si era reso responsabile del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, incontrando G.G., capo del mandamento di Brancaccio di "Cosa nostra" ed esponente di vertice della consorteria, presso la sua abitazione in un arco di tempo intercorrente tra l’inizio di febbraio e la fine di aprile del 2001. Dalle intercettazioni ambientali registrate in occasione degli incontri era, infatti, emerso che il M. aveva accettato l’appoggio elettorale (anche se poi non era stato eletto) del mafioso (c.d. patto politico- mafioso), si era prestato per raccomandare, sempre su segnalazione del G., un medico per un posto di assistente medico, non ottenuto (c.d. vicenda sanità) e aveva rivelato al G. notizie riguardanti indagini in corso (e cioè la presenza nel suo appartamento di microspie).

In particolare, nella sentenza censurata sono state ripercorse e spiegate, con ricchezza di analisi e di dettagli, le conversazioni intercorse tra il M. ed il G. in casa di quest’ultimo, che vi si trovava agli arresti domiciliari per associazione mafiosa. E’ così emersa tutta una complessa ed articolata trattativa relativa alle persone da candidare alle elezioni nazionali e regionali, sfociata nella accettazione di buon grado da parte dell’esponente mafioso della candidatura dello stesso M., anche per non compromettere i rapporti con esponenti di vertice del partito ( Cu.). Il contenuto dei colloqui intercettati è, ad avviso della Corte di Appello, sul punto inequivocabile e indica chiaramente la reale natura dei rapporti instauratisi tra il M. ed il G., all’epoca reggente del mandamento mafioso di Brancaccio, da poco scarcerato dopo un periodo di detenzione in carcere protrattosi dal novembre 1999 al dicembre 2000. Bastava allo scopo ricordare che il G. si rivolgeva al M. usando espressioni del tipo. "Noi come siamo messi politicamente?" e, riferendosi a Cu.Sa., sosteneva che "con questo ci si poteva parlare" e chiedeva "come siamo combinati con questo". Bastava evidenziare come i due interlocutori avevano passato in rassegna gli ambienti ospedalieri e, passando per candidati non più proponibili, erano giunti alla candidatura dello stesso M.. Bastava segnalare le contropartite che il capomafia aveva dichiarato di essere in grado di offrire a chi si fosse dichiarato disponibile ("le cose che mi servono, cerco di… servono a mia e all’amici mia")- Bastava altresì rammentare che il G. fin dal primo incontro con il M. aveva subito rimarcato l’esigenza di dirottare l’attenzione della politica nazionale sul problema dei carcerati ("ci stanno mettendo a tutti dentro…") e aveva dimostrato di voler porre basi solide per instaurare un rapporto ragionevole e costruttivo di collaborazione con il Cu., avvalendosi della intermediazione del M. e cercando di ottenere risultati concreti, senza rischiare di compromettere l’immagine esteriore dell’uomo politico prescelto (accettando senza esitazioni di rimanere nell’ombra e mostrandosi consapevole della inopportunità di incontrarsi personalmente con il Cu.).

In definitiva, secondo i Giudici di Appello, dal tenore delle intercettazioni era emerso che tra il M. ed il G. era stata raggiunta una intesa di massima, destinata a perfezionarsi nel corso degli ulteriori incontri. Si trattava di un accordo raggiunto nella piena consapevolezza da parte del M. della caratura mafiosa del suo interlocutore, posto che il G. era stato da poco scarcerato dopo una lunga detenzione in carcere quale imputato del reato di cui all’art. 416 bis c.p. e considerato che il M. aveva intrattenuto pregresse relazioni con l’esponente mafioso e aveva continuato ad avere rapporti con il cognato del G. durante la sua detenzione in carcere.

Ma c’era di più. In virtù di questo accordo il G. era riuscito a usufruire di un rapporto diretto con Cu.Sa., per rappresentargli le proprie richieste, formulate anche nell’interesse dei suoi amici, ossia di soggetti associati nella organizzazione mafiosa dei "carcerati", come espressamente detto nelle conversazioni con il M.. A parte il fatto che proprio l’accordo raggiunto con il M. aveva consentito al G. di conseguire la conoscenza di informazioni riservate concernenti le indagini a suo carico, e segnatamente la avvenuta collocazione di microspie all’interno della sua abitazione da parte della Polizia Giudiziaria.

Ulteriori colloqui intercettati e riportati nella sentenza impugnata avevano poi dimostrato il ruolo di interlocutore segreto svolto dal M. nell’interesse del G. nei rapporti con il Cu.. Significativo in proposito è il suggerimento del G. al M. della linea difensiva da adottare in caso di problemi giudiziari (utilizzare il paravento costituito dai rapporti professionali tra medici). E d’altra parte lo stesso G. non aveva esitato ad offrire al M. anche un aiuto in denaro per la sua campagna elettorale, prospettando anche l’eventualità di organizzare riunioni per "incuntrari cristiani" e offrendo l’aiuto del fratello C..

La Corte di merito ha poi preso in esame la illecita divulgazione da parte del M. di notizie riservate sulla esistenza di intercettazioni in corso in casa G..

In particolare, la Corte di Appello ha ritenuto dimostrato che il M. si era adoperato per fare pervenire alcune informazioni riservate a G., utilizzando A.S..

A tale conclusioni i Giudici di merito sono pervenuti:

– in base alle dichiarazioni dell’ A., il quale aveva riferito di avere appreso dal M. le notizie poi riferite al G. (pag. 63 della sentenza impugnata);

– in base ai riscontri che tali dichiarazioni dell’ A. avevano trovato nel contenuto della intercettazione ambientale del 12 giugno 2001, dal quale emergeva che il G. e la moglie, G. G., non riuscivano a spiegarsi in che modo fossero stati collocati in casa loro gli strumenti idonei per eseguire le intercettazioni;

– in base alla ricostruzione certamente non manifestamente irragionevole effettuata dalla Corte di Appello della frase di quel colloquio ("Mi marinò a chiamare"), secondo la quale il M., dopo avere parlato con To., aveva mandato a chiamare l’ A. per riferirgli le notizie riservate;

– in base agli accertamenti espletati, che avevano provato che l’ A. in data 12 giugno 2001 (al ritorno da un viaggio a Milano) era effettivamente passato presso la segreteria politica del M., prima di recarsi nella abitazione del G.;

– in base all’effettivo ritrovamento, dopo accurate ricerche, da parte del G. della microspia nella sua abitazione;

– in base alla frase pronunciata dalla moglie del G., al momento del ritrovamento della microspia ("veru ragioni avia Cu.To.!"), ricostruita con ineccepibili argomenti logici dalla Corte di Appello in considerazione delle opinioni espresse in proposito dai due periti fonici pratici di dialetto siciliano;

Ulteriori elementi di notevole spessore a carico del M. erano desumibili, ad avviso dei Giudici di merito, dall’episodio verificatosi in data 24 giugno 2001 presso il locale denominato "(OMISSIS)", durante la cena organizzata in occasione della chiusura delle elezioni regionali. In quella occasione, secondo il racconto dell’ A., il M. non soltanto aveva confermato allo stesso A. che presso la abitazione del G. era stata installata una microspia, ma aveva anche rivelato che altre apparecchiature simili, non rinvenute dal G., avevano registrato i commenti dei soggetti intercettati al momento del ritrovamento della prima microspia all’interno della predetta abitazione.

Tali dichiarazioni dell’ A., oltre ad essere intrinsecamente attendibili per la loro precisione, logicità e assenza di contraddizioni, avevano trovato un riscontro esterno nella deposizione di V.R., testimone presente alla serata del (OMISSIS) e "assolutamente indifferente all’esito del procedimento" e perciò pienamente affidabile, che, pur non essendo in grado di riferire il contenuto del colloquio intercorso in quella occasione tra il M. e l’ A., tuttavia aveva avuto modo di ricollegare lo stato di preoccupazione del suo amico A. proprio alla conversazione da lui poco prima intrattenuta con M. e aveva ricordato la esigenza avvertita dall’ A. di andare ad avvisare qualcuno a Bagheria in piena notte.

Infine la Corte di Appello di Palermo ha ritenuto accertato in base alle risultanze processuali che il M. aveva raccomandato all’on. Cu.Sa., su segnalazione del G., un medico (il dr. C.) per un posto di assistente medico, posto poi non ottenuto.

Questo comportamento è stato interpretato dalla Corte di merito come essenzialmente finalizzato a far conseguire vantaggi concreti al sodalizio mafioso, in quanto il reperimento di medici fidati da inserire nelle strutture sanitarie doveva considerarsi una importante attività strategica per "Cosa Nostra". A questa conclusione la Corte di Appello è prevenuta, non soltanto in base ad argomenti logici, ma anche analizzando una espressione utilizzata dal G. nel segnalare il dr. C. al M. ("servono a mia e all’amici mia"). Secondo la Corte con tale frase il capomafia intendeva comunicare al M. che la segnalazione del medico non derivava soltanto da un interesse personale, ma costituiva l’espressione di una decisione assunta anche nell’interesse degli altri componenti del sodalizio criminoso. E d’altra parte l’immediato impegno subito profuso dal M. nel raccomandare il sanitario all’on. Cu. radicava il convincimento che quest’ultimo fosse pienamente consapevole delle ragioni sostanziali che avevano indotto il G. a segnalare il C., privilegiando la sua nomina rispetto a quelle di altri, inizialmente pure sollecitata.

Essenzialmente in base alle risultanze sopra illustrate i Giudici di merito hanno ritenuto accertato che M.D., giovane e promettente esponente politico del C.D.U., già consigliere comunale a Palermo, aveva accettato di svolgere, nell’anno 2001, il ruolo di trait d’union, di intermediario, tra G.G., esponente di spicco di Cosa Nostra, e Cu.Sa., proprio mentre quest’ultimo era in procinto di essere eletto Presidente della Regione Siciliana. Questo suo ruolo comportava la sua responsabilità a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa della associazione, aveva fornito un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo al sodalizio criminoso, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione e del rafforzamento del sodalizio stesso, soprattutto mediante la instaurazione di un rapporto diretto con Cu.Sa., prossimo Presidente della Regione, e mediante la attività di rivelazione di indagini riservate, consentendo al G. di reperire e distruggere una microspia che la Polizia Giudiziaria era riuscita a collocare nella sua abitazione.

Si tratta di argomentazioni ineccepibili sul piano della logica e delle regole del diritto.

I singoli episodi ascritti al M. non devono, infatti, essere presi in considerazione isolatamente, ma vanno valutati nel loro complesso. Proprio da una visione complessiva della vicenda emerge con chiarezza che le relazioni tra il M. ed il G. devono essere inquadrate in un rapporto continuativo di scambio reciproco di favori, tale da costituire un contributo alla vitalità della associazione medesima. Al di là della disponibilità chiaramente dimostrata dal M. nei confronti del reggente della famiglia di Brancaccio (al momento agli arresti domiciliari per mafia) e degli interessi che a lui facevano capo, nella sentenza censurata sono stati individuati e passati in rassegna tutta una serie di incontri e di programmi elettorali ed è stato soprattutto accertato un comportamento (la rivelazione delle microspie), che costituiscono senza dubbio effettive condotte del M. di rilevanza causale per la conservazione ed il rafforzamento delle capacità operative della associazione, condotte dirette chiaramente anche alla realizzazione del programma criminoso. Le condotte sopra indicate (e anche, sia pure in misura minore, il reperimento di un medico fidato per l’organizzazione) appaiono senza dubbio dotate dei necessari requisiti di efficacia causale ai fini della conservazione e del rafforzamento dell’associazione mafiosa.

Correttamente, infatti, la Corte di merito ha sottolineato che il contenuto delle notizie rivelate al G. e il rapporto instauratosi con il Cu. erano potenzialmente in grado di agevolare il sodalizio mafioso nel suo complesso e in tutti i suoi aderenti e non soltanto il reggente della famiglia di Brancaccio.

A fronte di queste risultanze il ricorrente si è sostanzialmente limitato a riproporre rilievi già presi in esame e convenientemente "smontati" dalla Corte di merito, a ribadire apoditticamente la inefficacia causale dei contributi asseritamene prestati e ad insistere in ricostruzioni alternative dei fatti. A parte il fatto che in taluni casi nel ricorso si equivoca in ordine alla efficacia causale di cui devono essere dotati gli atti posti in essere dal concorrente esterno, ritenendo erroneamente che l’ultimo approdo della giurisprudenza delle Sezioni Unite (la citata sentenza Marinino) postuli che tali atti, per costituire un valido apporto da parte del concorrente esterno, abbiano raggiunto lo scopo per cui furono posti in essere, mentre ciò che è richiesto è, ovviamente, che essi siano stati idonei a preservare la conservazione della associazione di stampo mafioso o ad ottenerne il rafforzamento.

Si tratta di censure che, investendo direttamente la motivazione della sentenza impugnata, si risolvono tutte nella dedotta violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), denunciandosi errori di apprezzamento in ordine alle risultanze processuali e contraddizioni nell’iter argomentativo seguito dalla Corte di merito nella ricostruzione della vicenda processuale.

In tema di controllo sulla motivazione, è noto che alla Corte di Cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è geneticamente informata, ancorchè questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Cass., S.U., 31 maggio 2001, Jakani). L’indagine sul discorso giustificativo della decisione impugnata ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risaltare ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass., S.U., 24 novembre 1999, Spina). "Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass., S.U., 30 aprile 1997, Dessimone;

Cass. 21 aprile 1999, Jovino). In sostanza, "in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (Cass., 30 novembre 1999, Moro). In coerenza con queste decisioni, le Sezioni Unite hanno, infine, chiarito che l’illogicità della motivazione, censurabile ex art. 606 c.p.p., lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (S. U. 24-9-2003, Petrella, rv. 226074).

Questo quadro non è sostanzialmente mutato neppure in virtù delle recenti modifiche all’art. 606 c.p.p., lett. e), apportate dalla L. n. 46 del 2006. Infatti neanche la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, oltre che dal testo del provvedimento impugnato anche "da altri atti del processo", può nel caso di specie "salvare" le censure proposte dal ricorrente. Il sindacato di questa Corte resta pur sempre di legittimità, con la conseguenza che non può esserle demandato un riesame critico delle risultanze istruttorie. Il riferimento agli altri atti del processo può essere utilizzato unicamente per contestare la correttezza dell’iter logico- argomentativo utilizzato dal giudice di merito, non già per confutare in punto di fatto la valutazione dal medesimo offerta del materiale istruttorio allegato a fondamento della ipotesi accusatoria. Vale a dire che la omessa motivazione può essere dedotta là dove il giudice di merito abbia ingiustificatamente negato l’ingresso nella giustificazione della sua decisione ad un elemento di prova di segno contrario pacificamente risultante dagli atti processuali e dotato di efficacia "scardinante" dell’impianto motivazionale, non già quando ne abbia dato, coerentemente ed esaustivamente, una valutazione difforme rispetto alla prospettazione del ricorrente. Allo stesso modo la illogicità manifesta e la contraddittorietà sussistono quando "gli altri atti del processo", specificamente indicati nel gravame, inficino in modo radicale dal punto di vista logico l’intero apparato motivazionale, e non quando siano stati coerentemente ed adeguatamente valutati nel provvedimento di merito in modo diverso rispetto alla tesi propugnata in ricorso.

Nel caso di specie, la adeguatezza, nel senso sopra specificato, della motivazione della sentenza impugnata non è stata minimamente censurata dal ricorrente, che si è, invece, limitato esclusivamente ad apportare le sue critiche sulla valutazione data dal Giudice di merito al materiale indiziario sottoposto al suo esame, proponendone una diversa lettura.

In particolare, i Giudici di merito nelle due sentenze (che, sul punto, si integrano a vicenda), facendo corretta applicazione dei parametri di cui all’art. 192 c.p.p., hanno analiticamente preso in esame tutte le risultanze processuali e hanno vagliato con rigore le dichiarazioni di A., fornendo una diffusa ed esauriente motivazione in ordine alla attendibilità e veridicità delle medesime e dando conto di tutte le osservazioni formulate sul punto dalla difesa.

Il tessuto motivazionale della sentenza censurata non presenta affatto quella carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua- dei principi affermati da questa Corte, può indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e) (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono queste censure. Come si è visto, gli elementi addotti dal ricorrente sono già stati tutti valutati e correttamente "smontati" dai giudici di merito. Le argomentazioni della Corte di Appello di Palermo sono logiche ed adeguate e, a fronte di esse, il ricorrente si è limitato sostanzialmente a dedurre tesi di segno contrario e ad insistere in ricostruzioni alternative dei fatti. Ma non può costituire vizio deducibile in sede di legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più adeguata) valutazione delle risultanze processuali. Non rientra, infatti, nei poteri di questa Corte quello di compiere una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, essendo il sindacato in questa sede circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione.

8.-. Le ultime censure prospettate nei due ricorsi proposti nell’interesse del M. attengono alla asserita sussumibilità delle condotte ascritte al M. al più nello schema del favoreggiamento personale e non certo nel concorso esterno in associazione mafiosa e alle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto e sesto dell’art. 416 bis c.p., che sarebbero state erroneamente ritenute sussistenti dalla Corte di Appello.

Si tratta di doglianze già esaminate e respinte, con congrua motivazione, dalla Corte di Appello di Palermo.

In particolare, nella sentenza impugnata si è correttamente sottolineata la natura oggettiva della aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4 e si è ineccepibilmente puntualizzato che il fatto che la famiglia mafiosa capeggiata dal G. avesse anche disponibilità di armi da fuoco era stato accertato con sentenza (acquisita agli atti) resa dalla Sezione 2^ penale della Corte di Appello di Palermo in data 24 maggio 2006, divenuta irrevocabile.

Dalla suindicata sentenza era altresì risultato che la famiglia di cui il G. era reggente aveva posto in essere attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti, con ciò determinando la sussistenza anche della contestata aggravante di cui al comma sesto del citato art. 416 bis c.p..

Quanto alla riconducibilità delle condotte ascritte al M. nelle previsioni di cui all’art. 378 c.p., le ragioni delle infondatezza di tale censura sono state sviluppate nel punto precedente.

9.-. E’ fondato invece il motivo di ricorso incentrato nell’immotivato diniego delle attenuanti generiche.

La Corte di Appello di Palermo si è limitata ad affermare che al M. non potevano essere riconosciute le attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. "tenuto conto della spiccata gravita dei fatti accertati, della notevole pericolosità del G. (l’esponente mafioso con il quale l’imputato aveva collaborato), della natura delle condotte illecite poste in essere, della entità del contributo fornito (o comunque promesso) dall’imputato all’organizzazione criminale, nonchè dell’intensità del dolo".

I predetti elementi non consentivano, secondo i Giudici di Appello, di attribuire valore decisivo alla incensuratezza del M., che doveva comunque valutarsi, unitamente agli altri elementi di cui agli artt. 132 e 133 c.p., ai fini della determinazione della pena.

E’ pur vero che la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del Giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravita effettiva del reato ed alla personalità del reo (v. per tutte Sez. 6, Sentenza n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737, Straface).

Nel caso in esame però la motivazione della sentenza in ordine al diniego delle attenuanti generiche è meramente apparente, in quanto si sostanzia, come si è visto, in una struttura argomentativa caratterizzata da asserzioni apodittiche e da formule di stile, prive di concreti riferimenti alla realtà processuale ed alle emergenze che della stessa indichino la sua valenza storica prima che giuridica, così da fornire solo un simulacro di motivazione. Tra l’altro la sentenza di appello non dimostra in alcun modo di avere tenuto conto dei motivi addotti dall’imputato nel suo atto di gravame nè di avere riconosciuto l’esattezza delle risposte date sul punto dai primi giudici, palesando di non avere preso realmente in considerazione gli elementi necessari ai fini del decidere.

La sentenza impugnata deve conseguentemente essere annullata in parte qua con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, affinchè riesamini il motivo di gravame relativo alle invocate attenuanti e dia adeguata motivazione in proposito.
P.Q.M.

Annulla, limitatamente al diniego delle attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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