Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-03-2011, n. 7492 Licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.L., dipendente di Poste Italiane spa, proponeva appello contro la sentenza n. 253/04 del Tribunale di Bergamo, con la quale, dichiarata illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole il 6 dicembre 2002 (per aver trattenuto per taluni giorni Euro 47,99, incassati al momento della consegna di raccomandate in contrassegno), la società datrice di lavoro era stata condannata a reintegrarla nel posto di lavoro e a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla reintegrazione.

Lamentava l’appellante l’erroneità della statuizione posto che le retribuzioni maturate dal licenziamento risultavano essere inferiori al numero minimo di cinque previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

Si costituiva in giudizio l’appellata contestando gli argomenti svolti a sostegno della impugnazione, non essendo ravvisabile alcuna apprezzabile interruzione del rapporto di lavoro.

Con autonomo ricorso proponeva appello contro la stessa sentenza la società Poste Italiane, chiedendo l’accertamento della legittimità del recesso per giusta causa, o in via subordinata per giustificato motivo, lamentando l’erronea valutazione in fatto e in diritto dei fatti, essendo stata dimostrata con i documenti prodotti;

l’appropriazione di danaro contestata alla lavoratrice quale causa di licenziamento.

Si costituiva in giudizio M.L. chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

La Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 299/2006, respingeva il gravame della società Poste e, in accoglimento dell’appello della lavoratrice, condannava la prima al pagamento di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, con interessi e rivalutazione monetaria, oltre alle spese di lite.

Propone ricorso per cassazione la società Poste, affidato a tre motivi.

Resiste la M. con controricorso.
Motivi della decisione

1. – Con primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt 2119, 1175, 1375 cod. civ., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7 (art. 360 c.p.c., n. 3) e per omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Esponeva che la sentenza impugnata ritenne che la M. non si fosse dolosamente voluta appropriare delle somme di cui alla contestazione disciplinare, celandole, ma che ella avrebbe, semplicemente, posto in essere una condotta negligente e/o omissiva, tanto che la responsabile dell’ufficio potè subito riscontrarne la mancanza il lunedì mattina; che era dunque verosimile la versione dei fatti fornita dalla dipendente, secondo cui si trovò, il sabato a fine lavoro, "nell’impossibilità di depositare le somme riscosse, a causa della chiusura dell’ufficio".

La Corte d’Appello di Brescia aveva rilevato che il mancato deposito della somma non poteva ritenersi imputabile alla M. stante la chiusura dell’ufficio, anche se negligente era stato il comportamento successivo, avendo la dipendente depositato le somme (Euro 47,99) solo il martedì, essendone il lunedì sprovvista. Riteneva tuttavia sproporzionata la sanzione espulsiva, ritenendo semmai adeguata una sanzione conservativa. Lamentava la società Poste che la lavoratrice, il lunedì, non dedusse di essersi dimenticata della somma ma di esserne sprovvista.

Rammentava che la valutazione della giusta causa di licenziamento non poteva essere operata in astratto, bensì in concreto, con riferimento a tutte le circostanze di fatto in cui la condotta venne posta in essere. Al riguardo evidenziava che la M. non aveva avvertito immediatamente i superiori; non aveva adottato tutte le misure per conservare il denaro al fine di restituirlo; che l’entità della somma non era decisiva al fine di escludere la gravità del comportamento; che la giurisprudenza di legittimità aveva sempre valutato con giusto rigore analoghe situazioni riguardanti i dipendenti di banca (Cass. n. 5332 del 2002), formulando pertanto il seguente quesito di diritto: "Se sia legittima e proporzionata la sanzione del licenziamento per giusta causa comminata nei confronti di una dipendente, che svolga mansioni consistenti anche nel maneggio denaro, la quale ometta – senza avvisare il suo superiore o altri colleghi – di depositare al termine del turno di lavoro, nella cassa del proprio ufficio una somma di denaro riscossa dalla clientela, deducendo – senza prova al riguardo – di aver trovato l’ufficio chiuso e, neppure il primo giorno lavorativo successivo, avvisi il superiore di tale omissione, limitandosi ad affermare, una volta scoperto l’ammanco, che tale somma di denaro era stata utilizzata dal proprio convivente e sarebbe stata restituita il giorno successivo". 2. – Con secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 (art. 360 c.p.c., n. 3) e per insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Evidenziava al riguardo che la Corte di appello, pur ritenendo erroneamente sproporzionata la sanzione del licenziamento per giusta causa, non aveva neppure ritenuto che il comportamento contestato potesse configurare il licenziamento con preavviso posto in essere dalla M., connotato, quanto meno, da una colpa grave o, comunque, di grado elevato, tale da giustificare la conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Formulava il seguente quesito di diritto: "Se sia legittima e proporzionata la sanzione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, previa conversione da licenziamento per giusta causa, nei confronti di una dipendente, che svolga mansioni consistenti anche nel maneggio di denaro, la quale ometta – senza avvisare il suo superiore o altri colleghi- di depositare, al termine del turno di lavoro, nella cassa del proprio ufficio una somma di denaro (circa cinquanta/00 Euro) riscossa dalla clientela deducendo senza prova al riguardo di aver trovato l’ufficio chiuso e, neppure il primo giorno lavorativo successivo a quello in cui avrebbe dovuto effettuare il deposito, avvisi il proprio superiore di tale omissione, limitandosi ad affermare una volta scoperto tale ammanco che tale somma di denaro era stata utilizzata dal proprio convivente e sarebbe stata restituita il giorno successivo". 3. -I primi due motivi, stante la loro evidente connessione, possono essere congiuntamente trattati e risultano in parte inammissibili e per il resto infondati.

Essi risultano inammissibili nella parte in cui richiedono puramente e semplicemente una rivalutazione dei fatti, preclusa al giudice di legittimità.

Deve richiamarsi il consolidato orientamento di questa Corte e plurimis, Cass. sez. un. 28 settembre 2007 n. 20360), secondo cui "Il quesito di diritto deve consistere in una chiara sintesi logico – giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto..".

Nella specie il quesito formulato, oltre ad essere in contrasto con i principi enunciati in materia da questa Corte, finisce per chiedere al giudice di legittimità un inammissibile riesame di tutte le circostanze di fatto caratterizzanti il caso di specie.

Per il resto occorre osservare che la corte territoriale ha congruamente e logicamente valutato che, a differenza di quanto sostenuto dalla società ricorrente, dalla contestazione disciplinare non risultava alcun riferimento ad intenti appropriativi ma solo ad una condotta negligente, ritenendo verosimile che nel giorno in cui le somme avrebbero dovuto essere depositate, un sabato, l’ufficio postale era chiuso, che la M. dichiarò al capo ufficio il lunedì successivo che per un disguido non aveva con sè la somma (risultando così infondata la censura che la M. non avrebbe neppure avvertito, il lunedì, il capo ufficio), provvedendo a depositarla il martedì successivo, senza che al riguardo sussistano specifiche censure ad opera della ricorrente, che invero insiste meramente su di una ricostruzione dei fatti diversa da quella congruamente accertata dalla corte di merito.

Va peraltro rammentato che in tema di sanzioni disciplinari il fondamentale principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione impone al giudice di tener conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa. L’apprezzamento di merito della proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge, peraltro, a censure in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione, Cass. 27 settembre 2007 n. 20221. 4. -Con terzo motivo la società Poste denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, (art. 360 c.p.c., n. 3).

Lamentava che la Corte d’Appello di Brescia, accogliendo l’appello proposto dalla signora M., aveva condannato la società ricorrente al pagamento di cinque mensilità di retribuzione quale risarcimento per il licenziamento, nonostante essa fosse stata reintegrata, a seguito di procedimento cautelare, a distanza di circa un mese dal recesso, sicchè doveva applicarsi il principio già espresso da questa Suprema Corte per i casi in cui al licenziamento non segua una effettiva interruzione del rapporto, dovendo in tal caso il lavoratore dimostrare l’esistenza del danno (Cass. n. 6331 del 2001). Formulava il prescritto quesito di diritto. Il motivo è infondato.

La ricorrente richiama la sentenza n. 6331 del 2001 di questa Corte, cui possono aggiungersi successivi conformi arresti (Cass. 6 agosto 2003 n. 11893), secondo cui "nel caso di licenziamento illegittimamente intimato dal datore di lavoro, ove il recesso non sia seguito dalla interruzione del rapporto, il lavoratore che agisca per il risarcimento del danno derivante dal licenziamento non può giovarsi della presunzione di danno, inapplicabile nella fattispecie, nella misura minima di cinque mensilità di retribuzione, L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 4, ma è soggetto, per la dimostrazione del danno da lui dedotto, agli oneri di allegazione e prova di una ordinaria azione di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale".

Deve tuttavia evidenziarsi che l’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna interruzione della funzionalità del rapporto è diversa da quella ora in esame.

Questa Corte ha infatti chiarito, sentenza n. 12102 del 2004, che il risarcimento del danno stabilito dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 nella misura minima di cinque mensilità, essendo assimilabile ad una sorta di penale collegata al rischio di impresa, è dovuto in ogni caso, per il solo fatto dell’intervenuto licenziamento illegittimo, ed indipendentemente dalla necessità di un intervento reintegratorio, perciò anche quando il rapporto di lavoro abbia avuto una interruzione inferiore ai cinque mesi o non abbia avuto alcuna interruzione.

La Corte ha invece escluso l’applicazione del principio solo nel caso in cui, ad esempio per l’immediata revoca del licenziamento, venendo a mancare la stessa riconoscibilità esterna dell’atto di licenziamento (e perciò la sua stessa giuridica esistenza), mancherebbe il presupposto per il risarcimento nella misura minima prevista dalla norma.

Nella specie la ricorrente è stata semplicemente reintegrata, a seguito di provvedimento cautelare, a distanza di circa un mese dal licenziamento, non potendosi dunque derogare alla chiara disposizione contenuta nella L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4. 5.- Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 12,00 per spese, Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 febbraio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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