Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-03-2011, n. 7483 Distanze legali tra costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 20.3.91 S.R., proprietario di un suolo con annesso fabbricato in abitato di Pesaro, citò al giudizio del locale tribunale la società Lambros a r.l. lamentando l’illegittima edificazione da parte della medesima, su un terreno a confine sul quale aveva demolito un vecchio fabbricato, di un nuovo edificio, senza osservare le distanze prescritte dalle norme regolamentari locali, limiti di altezza e le norme tecniche di edilizia antisismica, ragioni per le quali chiedeva la condanna della suddetta agli arretramenti e demolizioni conseguenti, oltre al risarcimento dei danni. Costituitasi la convenuta, contestava la fondatezza di tutte le avverse richieste. All’esito di istruttoria documentale e consulenza tecnica, il Tribunale di Pesaro, con sentenza 17/26.7.02 accogliendo per quanto di ritenta ragione la domanda, ritenuto che il nuovo fabbricato non osservava le distanze minime, sia dal confine, sia dalla parete finestrata dell’edificio preesistente, rispettivamente prescritte dalle norme tecniche di attuazione del P.R.G. di Pesaro e dal regolamento edilizio tipo della Regione Marche, nonchè, la seconda, dalla normativa antisismica, condannò la convenuta ai conseguenti arretramenti, oltre al risarcimento dei danni, equitativamente liquidati in Euro 20.000,00.

Tale decisione, previo rigetto degli appelli, principale della società (poi ridenominata Impresa di Costruzioni Giuseppe Montagna S.R.L.), incidentale degli attori, veniva confermata dalla Corte di Ancona, con sentenza 19/5 – 26/6/04.

La corte marchigiana considerava essenzialmente, tra l’altro e per quanto ancora rileva ai fini del presente giudizio: a) che la distanza di mt. 10 suddetta, prescritta in conformità al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 ed al regolamento tipo regionale, fosse applicabile anche nei casi di preesistenza di uno dei fabbricati fronteggiatisi ed indipendentemente dalla distanza dello stesso dal confine; b) che nella specie non potesse derogarsi alla suddetta prescrizione, non rientrando, come richiesto dal cit. D.M., art. 9, u.c., il nuovo edificio in un piano particolareggiato o in una lottizzazione convenzionata; c) che rimanesse assorbita ogni questione relativa alla violazione della normativa antisismica, attesa la coincidenza della distanza tra fabbricati nella stessa prescritta con quella di cui alla norma locale; d) che il danno per la violazione delle distanze era in re ipsa e correttamente era stato liquidato dal primo giudice, con statuizione genericamente censurata e, pertanto inammissibile ex art. 342 c.p.c.; d) che irrilevante fosse, infine, la dedotta circostanza dell’avvenuta alienazione a terzi dell’edificio, proseguendo la causa tra le parti originarie e rimanendo estranea al giudizio la questione dell’inopponibilità a detti acquirenti, in ragione dell’anteriorità della trascrizione dei titoli di acquisto, della condanna ripristinatoria.

Avverso la suddetta sentenza la società Impresa di Costruzione Giuseppe Montagna s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati con memoria difensiva.

Ha resistito S.G. con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c., del D.M. n. 1444 del 1968, dei "principi vigenti in materia di distanze tra costruzioni", nonchè del D.M. 24 gennaio 1986.

Le censure attengono alla ritenuta applicabilità del distacco di m.

10 anche in relazione ad edifici preesistenti, come quello dell’attore, soluzione che viene criticata, sulla base sia dell’interpretazione della norma locale (e di quella statale cui la stessa si conforma), sia di quella seguita dallo stesso Comune di Pesaro, oltre per le conseguenze irrazionali e discriminatorie che ne deriverebbero, in termini di imposizione di una vera e propria servitù (che potrebbe, nel caso di lotti di limitata estensione, risolversi in quella di totale inedificabilità), a carico del fondo obbligato all’osservanza di tale distanza. Sotto altro e subordinato profilo, si sostiene che nella specie sussisterebbero gli estremi per la deroga prevista dal sopra cit. D.M., art. 9, u.c., essendo stato l’intervento adottato con un "progetto unitario di attuazione", approvato dal Consiglio Comunale, senza che il vicino S. esprimesse il proprio dissenso o contestazioni di sorta.

Infine si lamenta anche la conferma della violazione della normativa antisismica, nonostante l’esistenza di una nota chiarificatrice dell’ufficio preposto, che ne avrebbe escluso la sussistenza.

Il motivo è infondato sotto tutti i profili esposti.

Quanto al primo, va ribadito che le norme di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, nn. 2 e 3, come è stato più volte precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, funzionali ad esigenze di ordine pubblico, di natura igienico – ambientale, oltre che di armonico sviluppo urbanistico, perseguono l’essenziale finalità di assicurare l’esistenza tra edifici che si fronteggino di adeguati spazi minimi, quando almeno una delle due pareti frontistanti sia finestrata (v. tra le altre, v. 20574/07, 23495/06, 5878/06, 8383/99) e, sul piani) privatistico, costituiscono anche disposizioni integrative dell’art. 873 c.c., così giustificando l’esperimento da parte del vicino dell’azione restitutoria di cui all’art. 872 c.p.c., comma 2. Tenuto conto delle suesposte primarie finalità delle citate disposizioni, che non operano alcuna distinzione al riguardo, qualsiasi nuovo intervento edilizio realizzato nelle zone urbanistiche ad esse soggette, è tenuto a conformarvisi, osservando il prescritto distacco dai preesistenti ed antistanti edifici eventualmente presenti sul fondo confinante, quale che sia l’epoca di relativa realizzazione ed anche se la distanza dal confine degli stessi sia inferiore a quella prescritta dalle norme locali vigenti all’epoca della successiva edificazione. La circostanza che, nel caso di specie, l’edificio dell’attore si trovasse a meno di cinque metri dal confine non esimeva la parte convenuta ad osservare, a sua volta e nella nuova edificazione, una distanza tale dal confine medesimo che, sommata a quella in precedenza osservata dalla controparte, assicurasse la prescritta intercapedine minima; tale conclusione è imposta non tanto dalla considerazione che non risulta che l’edificazione attorea sia avvenuta nella vigenza della norma locale prescrivente anche tale distanza dal confine (circostanza di fatto che viene dedotta tardivamente, soltanto con la memoria illustrativa e che, se del caso, avrebbe al più consentito l’esercizio di una domanda riconvenzionale diretta ad ottenere il relativo arretramento), quanto da quella che la norma statale, cui i regolamenti comunali sono tenuti a conformarsi (v., tra le altre, Cass. 319/08, 23495/06, sicchè poco o punto rileva l’indirizzo interpretativo, favorevole alla tesi della ricorrente, seguito dal Comune di Pesaro), non prevedendo anche la distanza dal confine e non contenendo alcuna distinzione, quanto alla risalenza dell’edificio rispetto al quale la distanza di m. 10 deve essere osservata, non è di alcun apporto alla tesi sostenuta. La disposizione che viene, nella specie, in considerazione è, infatti, quella di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, secondo cui per "i nuovi edifici…è prescritta in tutti i casi distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti", nella formulazione della quale il requisito della "novità" riguarda l’edificio tenuto all’osservanza della distanza e non anche quelli antistanti, rispetto ai quali la distanza deve essere osservata, sicchè la formulazione letterale e tassativa della stessa e le finalità, in precedenza evidenziatele la norma persegue, non possono che condurre all’interpretazione correttamente fornita dai giudici di merito.

Sotto il secondo profilo, è agevole osservare che la tesi dell’ammissibilità della deroga alle distanze in questione, ai sensi del D.m. cit. art. 9, u.c., seconda parte, non è sostenibile nella fattispecie dedotta, riguardante un singolo, ancorchè complesso, intervento edilizio , e non invece, come richiesto dalla disposizione derogatoria, "un gruppo di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche"; la questione al riguardo dedotta, che avrebbe richiesto accertamenti di fatto (l’inclusione dell’edificio nell’ambito di un piano particolareggiato o di una lottizzazione di edilizia convenzionata) risulta comunque nuova. Il terzo profilo di censura, attinente alla conformità del distacco osservato alla normativa antisismica, risulta assorbito dalla reiezione del primo.

Con il secondo motivo vengono censurate, per violazione e falsa applicazione, rispettivamente, dell’art. 1226 c.c., dell’art. 872 c.c. e dell’art. 111 c.p.c., la conferma della liquidazione equitativa dei danni, che sarebbe stata apodittica e non correlata ad alcun concreto ed oggettivo elemento di riferimento, nonchè la reiezione del motivo di appello, deducente l’inopponibilità ai terzi acquirenti della condanna all’arretramento, perchè il mero richiamo all’art. 111 c.p.c. non avrebbe considerato che gli stessi avevano trascritto i rispettivi atti di acquisto, mentre altrettanto non aveva fatto il S., quanto alla propria domanda. Anche tale motivo deve essere respinto.

I giudici di merito si sono correttamente attenuti al principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nei casi di inosservanza delle distanze tra edifici, il danno è in re ipsa essendo costituito dall’asservimento di fatto dell’edificio, rispetto al quale la distanza non è stata osservata, ad una situazione di temporanea soggezione limitante la fruibilità ed il valore del bene, destinata a cessare soltanto con l’esecuzione della condanna all’arretramento. In siffatti casi di obiettiva e palese difficoltà di quantificazione economica del pregiudizio subito, legittima ex art. 1226 c.c., ed insindacabile, in quanto costituente esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, è la relativa valutazione, a meno che non risulti palesemente irrazionale o abnorme; e tale non poteva considerarsi nel caso di specie, in cui la confermata condanna al pagamento di Euro 20.000,00 (che , peraltro, era stata ritenuta insufficiente con il rigettato appello incidentale) era riferita ad un periodo che, alla data della decisione di primo grado durava già da circa dodici anni ed era destinato ad ulteriore protrazione fino quella dell’esecuzione. Ne consegue l’incensurabilità della conferma di tale liquidazione da parte dei giudici di secondo grado, sull’essenziale rilievo della genericità della doglianza dell’appellante principale, secondo cui detta liquidazione sarebbe stata "del tutto ingiustificata ed apodittica"; genericità alla quale soltanto in questa sede si vorrebbe, tardivamente, porre riparo, sostenendo si che la liquidazione sarebbe stata "slegata dalle prospettazioni delle parti" (senza precisare quali) ed indicando solo oggi i criteri (deprezzamento del fabbricato, diminuzione della visuale, etc.) cui il giudice di primo grado avrebbe dovuto attener si, senza anche precisare se la mancata osservanza degli stessi fosse stata denunciata in sede di appello.

Manifestamente infondato è, infine, il secondo profilo di censura, avendo correttamente evidenziato la corte di merito l’estraneità al giudizio della questione dell’opponibilità, in mancanza di trascrizione della domanda, della sentenza agli acquirenti delle unità immobiliari realizzate dalla convenuta, unica parte nei confronti della quale il processo era proseguito e destinataria della sentenza di condanna.

Tale questione avrebbe potuto formare oggetto di pronunzia soltanto in caso di intervento, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., degli aventi causa a titolo particolare dalla convenuta, che pertanto va confermata carente di interesse a proporla, ferme restanti le possibilità di tali terzi di far valere i propri eventuali diritti in separata sede oppositiva. Il ricorso va conclusivamente respinto.

Le spese, infine, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui 200 per esborsi.

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