Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30-11-2010) 18-02-2011, n. 6199

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.D. è stato ritenuto responsabile dal Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Palermo, a seguito di giudizio abbreviato, del delitto (capo A) di partecipazione all’associazione mafiosa armata denominata Cosa Nostra unitamente, fra gli altri, a L.P.S.G., reggente della provincia mafiosa di Palermo, LO.PI.Sa., D.M. G., reggente della famiglia mafiosa di Cinisi, P. G., reggente della famiglia mafiosa di Carini, in particolare per aver contribuito alle attività della predetta associazione favorendo la latitanza di L.P.S., LO.PI. S. e P.G., fornendo loro un luogo ove trascorrerla per vari anni, per l’affiliazione alla famiglia di Cinisi, da cui veniva stipendiato; per i suoi rapporti con vari uomini d’onore, anche di qualifica apicale, fra cui i L.P. da cui aveva ricevuto denaro per reinvestirlo.

I coniugi T.A. e C.A. sono stati ritenuti responsabili, in concorso di attenuanti generiche del delitto (capo B) di procurata inosservanza di pena e favoreggiamento aggravato in concorso, aggravati ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, avendo, su richiesta di M.D., aiutato per almeno tre anni L. P.S.G. e LO.PI.Sa., nonchè per nove mesi P.G., ad eludere le investigazioni dell’autorità ed a sottrarsi all’esecuzione dei provvedimenti restrittivi cautelari e definitivi emessi a loro carico, fornendo aiuto, assistenza ed ospitalità in vari immobili di loro pertinenza.

La Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza del primo giudice, con la sentenza di cui all’epigrafe nei confronti della quale i prevenuti ricorrono per Cassazione.

Il ricorso del M. deduce, con unico articolato motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B) ed E) in relazione agli artt. 416 bis, 378 e 390 c.p., artt. 192 e 530 c.p.p., art. 111 Cost..

La sentenza della Corte territoriale amplificherebbe le carenze ed i vizi della prima decisione causa di una lettura dei fatti di rilievo sganciata dalle caratteristiche del quadro probatorio. Non corretta sarebbe stata la delimitazione della condotta "partecipativa" al sodalizio mafioso e, la qualificazione del rapporto tra la predetta condotta partecipativa e la condotta "favoreggiatrice".

Il M. sarebbe soggetto legato solo da rapporti personali di amicizia con il L.P. e i giudici del merito male avrebbero valutato le dichiarazioni del collaboratore P. e dei coniugi T. – C. dalle quali non poteva trarsi un quadro nè di affiliazione, nè di collaborazione organica del prevenuto con l’associazione, dovendosi al più valutare la sua azione, esauritasi nella presentazione dei L.P. ai coniugi che avevano loro in seguito fornito rifugio ed un’abitazione sicura, quale condotta favoreggiatrice, per la quale, peraltro, non si potrebbe configurare l’aggravante ex L. n. 152 del 1991, art. 7.

La Corte di merito avrebbe poi travisato le risultanze processuali attribuendo, a seguito di una lettura arbitraria, un contenuto fuorviante ai pizzini sequestrati, laddove aveva ritenuto che il soggetto indicato con il soprannome di (OMISSIS) si dovesse necessariamente individuare nel M., potendosi riferire anche ad una diversa persona (tal Pi.), solo a dare la corretta lettura dei documenti in sequestro; nè essendosi adeguatamente considerato come i soggetti dell’età e con il medesimo nome del prevenuto fossero almeno due, nella località di (OMISSIS), e come, quindi, non si potesse riferire a lui un’indicazione, riguardante certo M.D. di (OMISSIS), del L.P. in una lettera diretta a P.B.; preconcetto stravolgimento della realtà storica che si tradurrebbe con immediatezza in termini di travisamento dei fatti e delle prove.

Il ricorso di T. e C. si articola su tre motivi.

Con il primo deduce violazione di legge per essere stata ritenuta l’aggravante di cui alla L. n. 152 del 1991, art. 7, non avendo essi avuto contezza della natura delle persone che aveva presentato loro M. se non con almeno un anno e mezzo di ritardo e poi essendo sempre stati sottoposti alle prepotenze di costoro, così da non potersi configurare una volontaria agevolazione dell’associazione.

Con il secondo motivo si deduce violazione di legge per non essere stato ritenuto che la C. aveva agito in stato di necessità, in quanto costretta dal marito ad accogliere in casa quelle persone senza essersi potuta ribellare. Con il terzo motivo si lamenta l’eccessività del trattamento sanzionatorio.
Motivi della decisione

Inammissibile è il ricorso del M..

La Corte territoriale in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte ha fatto corretta applicazione del principio dell’irrilevanza, ai fini della penale responsabilità per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, della formale affiliazione alla consorteria e/o dell’accertamento della peculiare intraneità alla cosca, non avendo alcun particolare significato la gerarchia interna al gruppo criminale, nè la differenza tra soggetto formalmente affiliato e soggetto vicino al gruppo criminale, sostanziandosi la partecipazione associativa unicamente nell’affectio societatis e nella stabile messa a disposizione della propria opera per i fini dell’organizzazione mafiosa.

Tanto stabilito, la Corte di merito ha ricomposto, in maniera congrua e logicamente coerente, il quadro probatorio a carico del prevenuto, formato da più elementi dichiarativi specifici, e fra di loro riscontratisi, provenienti dai collaboratori di giustizia, PA.Sa. e P.G., e dai coimputati, C.A. e T.A., tutti omogenei nei toni e concordi nel tratteggiare il modo operativo del prevenuto, individuandone il rilevantissimo contributo causale in favore dell’associazione nei termini descritti nella relativa rubrica. Ha rammentato, il giudice d’appello, come la qualificazione del M. come uomo legato ai corleonesi risalisse alle dichiarazioni del 1993 del PA. ed ha rilevato che, pur essendo mancata all’epoca una sufficiente precisazione del quadro accusatorio, il valore di tali dichiarazioni – sintomatiche di una prolungata appartenenza, nel tempo, del prevenuto all’associazione – si manifestava evidente nel loro connettersi a quelle del collaboratore P., particolarmente significative perchè provenienti da persona che era a diretto contatto con i vertici dell’organizzazione e che aveva trascorso alcuni mesi di latitanza assieme ai L. P., proprio nell’abitazione messa a loro disposizione dai T., su indiscusso intervento M..

Ed il P. aveva tratteggiato la figura del M. come quella di soggetto da lungo tempo vicino a L.P.S., del quale aveva aiutato in più occasioni la latitanza e, unitamente al quale, aveva partecipato a gravissimi fatti di sangue.

A tali dichiarazioni si aggiungevano, secondo i giudici del merito, quelle dei coniugi C. – T., che proprio da M. erano stati convinti a mettere a disposizione la propria casa per accogliere, prima, i L.P., padre e figlio, e poi P. durante la loro latitanza. E il ricorso, che da atto della particolare attendibilità delle affermazioni del P., finisce, in primo luogo, per travisarne il senso, sul ruolo del prevenuto, quando sostiene che nelle sue propalazioni il collaboratore avrebbe affermato che M. (testualmente dal ricorso) non aveva nulla a che fare con l’associazione mafioso non essendo mai stato un loro sodale affiliato: "non è mai stato un uomo d’onore". Il ricorrente trae, in modo manifestamente infondato, la conclusione dell’estraneità all’associazione dal mero fatto, peraltro pacifico, che non era mai avvenuta una sua formale affiliazione al sodalizio, omettendo di considerare che le affermazioni di P. evidenziavano tutti gli elementi che indicavano il prevenuto come pronto a mettere a disposizione della consorteria la propria attività, con ciò integrando quella partecipazione all’associazione che comporta penale responsabilità indipendentemente, come s’è visto sopra, dalla formale affiliazione del soggetto.

Il ricorso poi, nell’esaminare il contenuto delle dichiarazioni acquisite agli atti, si riduce ad una riproposizione di argomenti difensivi adeguatamente presi in esame e confutati dalla sentenza impugnata e svolge considerazioni di fatto (tendenti a minimizzare ed a circoscrivere ad un rapporto di natura esclusivamente personale quello fra il prevenuto e L.P.) insuscettibili di valutazione in questa sede, perchè non è consentito alla Corte di Cassazione di ripercorrere l’iter cognitivo e valutativo del giudice, dovendo esser limitato il controllo di legittimità a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e non abbia trascurato elementi in astratto decisivi, sia compatibile con il senso comune e la giustificazione della decisione, data come valida la premessa in fatto, sia logica: sia insomma esauriente e plausibile.

E, come rilevato sopra, i giudici del merito hanno adeguatamente valutato i contributi dichiarativi (sulla cui attendibilità neppure il ricorrente avanza censure) e li hanno ricollegati alle decisive emergenze documentali provenienti dai pizzini trovati ai L.P. e da una lettera trovata a PR.Be. al momento dell’arresto.

La Corte di merito si è fatta carico di affrontare tutte le questioni proposte dal prevenuto, sul valore probatorio di quei pizzini, individuando con motivazione del tutto logica nel M. il soggetto chiamato col soprannome di (OMISSIS) – nel senso di persona carica di debiti che non si preoccupa di restituire quanto deve, ma tende, al contrario, a farsi dare ancora denaro senza avere intenzione di restituirlo – (anche in base alle pacificamente attendibili affermazioni di P. sui rapporti economici fra L. P. e M., destinatario di somme rilevanti a lui affidate dai primi, e non restituite) così da inquadrare, sulla scorta di quel documento, la figura del prevenuto, indicato quale destinatario di somme della famiglia mafiosa di Cinisi, come soggetto avente un sicuro ruolo nell’ambito della predetta consorteria, essendo impensabile che L.P.S. prestasse tanto denaro ad un estraneo al proprio gruppo di riferimento. Come detto, la Corte territoriale, sulle doglianze dell’appellante (peraltro riproposte in questa sede) circa la sua individuazione nei pizzini come il (OMISSIS), quando, secondo uno dei documenti, vi sarebbe stato altro soggetto (certo Pi.) chiamato con quel soprannome, ha esaminato con precisione il documento ed ha fornito del suo contenuto una spiegazione che si basa sul suo tenore letterale – l’evidenza esteriore del documento – mettendo l’accento, in modo del tutto logico, e conforme al susseguirsi dei segni grafici, su quelle caratteristiche che portano ad una certa interpretazione del contenuto, piuttosto che ad un’altra.

Nel ricorso, pur affermandosi l’esistenza di un vizio di contraddizione della motivazione rispetto ai dati acquisiti, e cioè di "travisamento della prova", non v’è argomento che non si ponga invece come censura sul significato e sulla interpretazione di tali elementi. Non si lamenta un’omissione di esame del contenuto, quanto piuttosto che quel contenuto dovrebbe essere interpretato in modo diverso e si manifesta come inammissibile in quanto l’unico "travisamento" prospettabile in questa sede, per effetto della novella che ha modificato l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dovrebbe concernere il significante, non il significato.

Parimenti inammissibili le doglianze relative all’interpretazione data dalla Corte di merito alle emergenze dell’altro documento, ritenuto ulteriore significativa conferma delle acquisizioni dichiarative sul ruolo del M. all’interno della consorteria.

Si tratta della lettera, sequestrata al momento dell’arresto a PR.Sa., indirizzatagli da L.P., in cui lo si ragguagliava in merito all’incendio di una automobile, che interessava una cognata del PR., e si segnalava come le informazioni relative fossero state ottenute da parte di un certo M.D. di (OMISSIS) che aveva fatto da intermediario e aveva riferito ogni cosa. Con ciò, secondo la Corte territoriale, qualificandosi, il ruolo di M. come non marginale nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, posto che fungeva da intermediario verso un personaggio come L.P., per la soluzione di questioni che stavano a cuore allo stesso PR..

Il ricorso ripropone, quanto al valore probatorio del documento, le questioni sottoposte al giudice d’appello alle quali la Corte territoriale ha dato una risposta adeguata e priva di incongruenze logiche. A fronte del rilievo documentato che in territorio di Cinisi esisteva anche un altro M.D. coetaneo del prevenuto e, per di più, parente di PR., la Corte d’appello ha evidenziato che proprio il testo della lettera escludeva che la stessa si riferisse, non al prevenuto, ma al suo omonimo, posto che, se il riferimento al M. di (OMISSIS) avesse riguardato un soggetto diverso, ed imparentato col PR., non avrebbe avuto alcun senso che L.P., nello scrivere proprio a P., chiamasse quella persona "un certo M.D. di (OMISSIS)", come se il destinatario non dovesse conoscere un parente, mentre plausibilmente poteva non conoscere l’attuale ricorrente.

La Corte di merito, quindi, evidenziati, come visto, tutti i contributi probatori secondo cui per un lungo periodo di tempo M. aveva collaborato con l’associazione criminale, ha posto, conclusivamente, l’accento sull’aver egli procurato, per oltre tre anni, ad un capo conclamato dell’associazione, ed a suo figlio, del pari appartenente alla mafia, ricercato da tempo immemorabile e frattanto assurto ai più alti vertici dell’intera Cosa Nostra, una casa d’abitazione dove rifugiarsi nella latitanza e dove ricevere altri associati e tenere riunioni, ed ha qualificato la complessiva attività del prevenuto come partecipazione all’associazione mafiosa, e non come favoreggiamento.

E tali valutazioni sono in linea con i principi elaborati dalla consolidata giurisprudenza al proposito, (Sez. 6, sent. n. 40966 dell’8/10/2008, Rv. 241701, ric.: Pillari; Sez. 6 sent. n. 2533 del 26/11/2009, Rv. 245703, ric.: Gariffo e altri) secondo cui l’organica e sistematica interazione del soggetto con gli associati, anche per garantire loro (e per L.P. era avvenuto anche altra occasione precedente) sicurezza dalle indagini e ricerche di polizia, ne qualifica l’azione come partecipazione all’associazione mafiosa – distinguendosi in ciò dal favoreggiamento, qualificato dall’episodicità dell’aiuto ad un associato – tanto più se la collaborazione ha comportato la cura sotto il profilo logistico della latitanza di un capo del sodalizio, cui venga assicurata al contempo in maniera stabile la possibilità di mantenere i contatti con gli altri associati e di continuare a dirigere l’organizzazione, condotta significativa della volontà di agevolare non solo il soggetto latitante ma l’intera associazione.

Il ricorso, con la riproposizione delle medesime questioni oggetto dell’appello, sulla prova dell’appartenenza del prevenuto alla consorteria, e sull’esclusione dell’ipotesi minore di favoreggiamento, per di più non aggravato ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, affrontate ed adeguatamente risolte, come sopra rilevato, dalla Corte di merito, si manifesta in tutta la sua evidente infondatezza che lo rende inammissibile.

Inammissibili sono anche le doglianze avanzate nei ricorsi per T. e C.. Con riguardo al lamentato difetto di motivazione circa il ricorrere dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, osserva il Collegio che la Corte territoriale ha evidenziato gli elementi che l’avevano portata a ritenere che i due imputati avessero lasciato nella disponibilità dei L.P. la loro abitazione, per consentire loro di nascondersi alle ricerche della polizia, nella consapevolezza che stavano dando un decisivo aiuto a due noti capi mafia, ed i ricorsi, ripercorrendo in linea di fatto gli avvenimenti, propongono una ricostruzione alternativa sulla loro consapevolezza della situazione che si era determinata e sulla natura del contributo che essi davano alla latitanza dei due, durante circa tre anni, che non sono consentiti nella sede di legittimità.

E’ innanzitutto manifestamente infondata l’argomentazione secondo cui per potere considerare sussistente l’aggravante speciale sarebbe necessario individuare, e non sarebbe stato individuato, anche un qualche collegamento tra i T. e l’associazione mafiosa, così da potersi concludere che la condotta di costoro fosse diretta, oggettivamente, ad agevolare l’attività non solo del singolo ma anche del sodalizio criminoso.

E’ agevole al proposito osservare come l’esistenza di un concreto collegamento con l’associazione mafiosa potrebbe configurare un concorso esterno, mai contestato ai prevenuti, mentre per il ricorrere dell’aggravante è sufficiente la consapevolezza di aiutare la latitanza di uno o più soggetti inseriti nella consorteria e che una tale situazione si pone come oggettivo aiuto all’attività dell’associazione.

E, nel caso, risulta dalle sentenze di merito che la latitanza dei L.P. era organizzata all’interno dell’abitazione dei due imputati in modo tale che i due capi mafia potessero ricevere visite di loro sodali ed organizzare incontri in cui venivano decise strategie criminali, con l’avvertenza di tenere il volume del televisore alto, per impedire ai coniugi T. di ascoltare i loro colloqui.

E questo era un oggettivo ausilio all’attività della consorteria criminale, perchè non solo veniva protetta e garantita la latitanza dei suoi capi, ma anche era garantita la possibilità di ulteriori sviluppi dell’attività dell’associazione, senza l’ostacolo rappresentato dalla latitanza dei vertici. E che si tenessero riunioni tra personaggi di spicco dell’associazione era noto ai due imputati che, quanto meno dal momento in cui avevano saputo chi erano esattamente le due persone loro presentate da M. e di che caratura criminale fossero, erano perfettamente consapevoli che il loro aiuto, protrattosi per anni anche in seguito, agevolava l’associazione nei suoi massimi livelli.

Al proposito, se è vero che secondo la giurisprudenza di questa Corte, rammentata dai ricorrenti, il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un’associazione mafiosa non determina, in ragione esclusivamente dell’importanza di questi all’interno dell’associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, la sussistenza dell’aggravante di avere commesso il favoreggiamento avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso, è altrettanto vero che (cfr. Sez. 5, sent. n. 41063 del 24/6/2009, Rv. 245386, ric: Celiento e altri) l’aggravante ricorre qualora la condotta favoreggiatrice sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafioso, in quanto l’aiuto fornito al capo si concretizzi nell’agevolazione per dirigere da latitante l’associazione, che finisce per concretizzare un aiuto all’associazione la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto, mentre, sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l’intenzione dell’agente di favorire anche l’associazione allorchè risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capomafia (conf. ASN 200443443, Rv. 229786). La sentenza impugnata ha esattamente rilevato come l’ausilio fornito ai latitanti – peraltro susseguitisi nel tempo e che avevano trovato i due, che lucravano, e l’hanno fatto per tre anni, su tale disponibilità, sempre pronti ad accoglierli anche quando si allontanavano dal quel rifugio per non brevi periodi di tempo – avesse caratteristiche tali, di sicurezza e continuità garantite dal comportamento dei due, che aveva finito per diventare un punto di riferimento importante per la vita dell’associazione. E la motivazione della Corte che appare, nel valutare la circostanza sotto il profilo oggettivo e soggettivo, del tutto logica e consequenziale, sfugge alle critiche dei ricorrenti, che propongono una lettura alternativa delle emergenze processuali sul loro atteggiamento soggettivo, che richiederebbe a questa Corte una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in questa sede.

Del pari inammissibile, perchè propone una lettura alternativa delle risultanze processuali è il secondo motivo di ricorso sul mancato riconoscimento a favore della C. dell’esimente dello stato di necessità, per essersi dovuta adeguare alle pretese del marito T.. Ha osservato la Corte di merito che anche la C. era del tutto al corrente dei fatti, per sue stesse reiterate ammissioni, avendo avuto, poco dopo l’inizio della coabitazione, l’esatta percezione della reale identità dei suoi ospiti, ed aveva in ogni caso continuato per anni a riverirli, accudirli, custodirli, nè era configurabile una situazione in cui le occorresse agire per salvare se stessa o altri da un danno grave alla persona, attuale e inevitabile.

Al proposito ha rilevato la Corte territoriale che difettava, quanto meno, il requisito dell’inevitabilità del danno grave, dal momento che, nel corso degli oltre tre anni durante i quali era durata la condotta favoreggiativa di stampo mafioso, la C., in particolare, non era apparsa subire passivamente le scelte del marito e, al contrario, era del tutto autonoma nel determinarsi e libera, avendo larga facoltà di movimento, dedicandosi alla preparazione dei pasti ed u-scendo in continuazione a far la spesa con esclusione quindi di ogni costrizione e, come il marito, nelle condizioni di denunciare la situazione e far cessare l’occupazione della sua casa.

E si tratta di motivazione del tutto congrua e priva di vizi di logica consequenzialità, a cui il ricorso contrappone una non consentita rivalutazione alternativa delle risultanze processuali.

Inammissibile perchè risolventesi in censure su valutazioni di merito, insuscettibili, come tali, di aver seguito nel presente giudizio di legittimità, è infine il terzo motivo dei ricorsi T. – C., concernente la misura della pena, giacchè la motivazione della impugnata sentenza si sottrae ad ogni sindacato per avere adeguatamente valorizzato la gravità dei fatti, anche per il loro perdurare nel tempo, elemento sicuramente rilevante ex art. 133 c.p.. Nè i ricorrenti indicano elementi, non considerati in positivo, decisivi ai fini di una diversa valutazione.

All’inammissibilità dei ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione – di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00, per ognuno.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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