Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-03-2011, n. 7470 Rovina e difetti dell’immobile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) Il 26 ottobre 1992 il Condominio (OMISSIS) evocava in giudizio la Immobiliare Campo Marzio snc (abbr.: Immobiliare) quale costruttore e venditore del fabbricato chiedendo, ex art. 1669 c.c., l’eliminazione dei vizi e il risarcimento dei danni derivati da gravi difetti di costruzione nella schermatura impermeabilizzante esterna e di copertura.

La convenuta si opponeva alla domanda; chiedeva e otteneva di chiamare in causa, "per eventuale manleva", la società costruttrice Impresa Edile Zaia e Masutti snc (abbr.: Impresa), la quale, costituendosi, negava le proprie responsabilità e precisava di aver appreso del procedimento per accertamento tecnico preventivo, già svoltosi, solo grazie alla notifica dell’atto di citazione.

Il tribunale di Pordenone condannava la società immobiliare e l’Impresa, in solido, al risarcimento dei danni, per complessivi L. 121 milioni.

I gravami proposti dalle soccombenti venivano respinti il 19 marzo 2005 dalla Corte di appello di Trieste, la quale, in accoglimento dell’appello incidentale del Condominio, condannava le due società al pagamento della somma di Euro 167.83,47.

A tal fine la Corte territoriale confermava la configurabilità di responsabilità solidale delle due società, in relazione ai danni lamentati, considerando estesa la domanda iniziale anche nei confronti della Impresa. Respingeva le eccezioni di decadenza e prescrizione.

Notificata la sentenza il 19/20 aprile 2005, Immobiliare Campo Marzio snc il 14 giugno 2005 ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a quattro motivi.

Impresa Edile Zaia e Masutti ha proposto ricorso incidentale. Il Condominio ha resistito con due controricorsi.
Motivi della decisione

2) I ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

2.1) Il primo motivo del ricorso principale, proposto dalla società Campo Marzio, lamenta violazione di legge e/o omessa pronuncia in relazione all’art. 112 c.p.c.. La ricorrente sostiene che essa aveva chiesto la condanna dell’Impresa a garantirla da qualsiasi pretesa attorea e che la Corte d’appello non avrebbe risposto.

La censura è priva di fondamento. La sentenza, premesso che la domanda del Condominio doveva ritenersi estesa nei confronti della Impresa, ha ritenuto che sussistesse la corresponsabilità solidale delle due società per imputabilità ad entrambe dei gravi difetti di costruzione. Con riguardo al documentato (cfr. pag. 27 in fine) intervento anche di altra impresa, ha anche precisato che la circostanza potrà rilevare nel "riparto interno di responsabilità".

Ha quindi disatteso la domanda di manleva, tendente a stabilire che ogni responsabilità della Immobiliare era da scaricare sull’Impresa, sancendo che entrambe erano da considerare (eventualmente con inclusione di altra azienda operante sul cantiere) responsabili dei difetti, ditalchè non v’era materia per condanna in garanzia, ma per un successivo giudizio teso a suddividere l’imputabilità dei danni che solidalmente le convenute sono tenute a risarcire al Condominio.

2.2) Con il secondo motivo l’Immobiliare deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. Sostiene di non essere mai stata costruttrice, ma "mera "proprietaria-venditrice" del fabbricato condominiale. Nega che parte attrice abbia mai provato o anche solo offerto di provare un qualche ruolo dell’Immobiliare in fase "costruttiva". Aggiunge che l’esecuzione don danaro proprio e la titolarità della concessione edilizia non rilevano in tal senso.

La censura, per come prospettata, è infondata. Secondo la giurisprudenza di questa Sezione, la norma di cui all’art. 1669 cod. civ., sebbene dettata in materia di appalto, configura una responsabilità extracontrattuale che, essendo sancita per ragioni e finalità di interesse generale, è estensibile al venditore che sia stato anche costruttore del bene venduto (Cass. 7634/06). La responsabilità è invocabile, si è detto, nei confronti del venditore anche nell’ipotesi in cui questi abbia progettato l’opera e diretto i lavori, oppure abbia, nominato un direttore dei lavori o sorvegliato personalmente l’esecuzione dell’opera (13003/00), partecipando alla costruzione dell’immobile in posizione di "autonomia decisionale" (Cass. 13158/92; 3406/06; 19868/09).

La Corte d’appello ha ritenuto che la responsabilità fosse configurabile in capo al committente sulla base non solo degli elementi indicati in ricorso, ma anche della qualifica di costruttrice (con danari propri) che la Immobiliare (operatrice professionale) si attribuì nei contratti di vendita. In altro passaggio della motivazione ha poi sottolineato che essa aveva nominato il direttore dei lavori e che si era valsa dell’Impresa quale mera "esecutrice materiale dei lavori".

Non è quindi in alcun modo configurabile un errore di sussunzione nella qualifica di costruttrice attribuita dalla sentenza impugnata sulla base degli elementi evidenziati, essendo stato applicato il paradigma normativo correttamente individuato. Il ricorso non ha denunciato il vizio di motivazione sul punto; nè la censura è implicita, atteso che essa, lungi dall’evidenziare con criteri di autosufficienza gli elementi probatori che avrebbero dovuto indurre ad opposta valutazione, o a criticare le risultanze valorizzate, si limita a lamentare genericamente una cattiva valutazione dei giudici di merito.

2.3) Inammissibile è la terza censura, con la quale si deduce violazione dell’art. 345 c.p.c. (in relazione peraltro all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non 4), assumendo che le domande contenute nell’appello incidentale del Condominio erano domande nuove e che solo i gravissimi difetti di costruzione inizialmente esplicitati costuituivano il thema decidendo.

La doglianza, per la sua asfittica formulazione, non consente di comprendere se sia lamentato un vizio in procedendo, costituito dall’esame di vere e proprie domande nuove, del tutto estranee alla materia del contendere, ovvero un vizio In iudicando, dovuto all’individuazione del suo contenuto, costituito da posta risarcitoria di incerta ricomprensione nelle richieste iniziali. In questo secondo caso, che sembra configurabile, le scelte del giudice di merito integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, soggetto in sede di legittimità al solo controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata.

La censura sviluppa però una critica apodittica, immeritevole di considerazione.

Quanto alla altra prospettiva, ove ipotizzabile, la censura sarebbe affetta insanabilmente da genericità. Se è vero infatti che la Corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, quale indubbiamente il vizio di ultra o extrapetizione, è anche giudice del fatto ed ha il potere – dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia, per il sorgere di tale potere – dovere è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il "fatto processuale" di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (Cass. 5148/03; 1170/04; 6225/05).

2.4) Anche la quarta censura – vizi di motivazione in relazione all’art. 1669 – è insopportabilmente generica ed apodittica. La ricorrente si duole che "il dies a quo annuale" sia stato fatto coincidere con il deposito dell’accertamento tecnico preventivo e si limita a ricordare che la costruzione sarebbe stata completata nel 1984 e che i vizi si evidenziarono subito.

Occorre in proposito ricordare che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento , e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (SU 5802/98).

Per porre utilmente la censura, parte ricorrente avrebbe dovuto quindi riportare i passi della sentenza impugnata, criticare logicamente la tesi da essa sostenuta e illustrare, al lume della giurisprudenza in proposito esistente, la decisività degli argomenti dedotti, che invece risultano appena accennati in ricorso.

3) Il ricorso incidentale dell’Impresa Zaia e Masutti si articola in nove motivi.

3.1) Il primo è inammissibile per difetto di interesse ( art. 100 c.p.c.), atteso che con esso l’Impresa mira a negare che la società Immobiliare fosse costruttrice del fabbricato, affermazione che non lede diritti della controricorrente in questo giudizio, e anzi la solleva parzialmente da responsabilità per vizi e difetti dell’opera.

3.2) Il secondo lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha sostenuto l’avvenuta estensione della domanda alla terza chiamata. La censura, alquanto criptica, si attarda a osservare che la Corte territoriale ha negato che vi fosse stata rinuncia alle domande di merito sol perchè le conclusioni specificate in primo grado erano di natura istruttoria.

Essa non riesce però a enucleare alcun vizio di applicazione della legge o vizio di motivazione nell’affermazione che la domanda di merito (non rinunciata) si estende automaticamente al chiamato in causa senza necessità di un’espressa istanza. Detto principio (su cui v. Cass. 1522/06) è ribadito dalla Corte Suprema, in quanto la diversità e pluralità delle condotte produttive dell’evento dannoso non da luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio (Cass. 5057/10).

3.3) Ciò si osserva per rispondere anche alla quarta censura, che denuncia violazione dell’art. 106 c.p.c.. La ricorrente incidentale qui nega l’applicabilità del principio dell’estensione della chiamata, quando quest’ultima sia formulata in garanzia e quando vi siano diversità dei titoli in forza dei quali traggano spunto la domanda contro la convenuta e quella contro il terzo chiamato. Nel riconfermare l’opposto principio di cui al precedente testè citato, va aggiunto che la sentenza impugnata ha espressamente negato che fosse stata formulata domanda "di regresso ex art. 1670 c.c." e ha ravvisato l’estensione della domanda.

La critica doveva quindi avere di mira non la violazione dell’art. 106 c.p.c. ma, in ipotesi, un vizio di motivazione, che non è stato denunciato.

3.4) Il terzo motivo, con il quale si deduce violazione dell’art. 345 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – e non 4), è inammissibile perchè affetto da genericità alla stessa stregua dell’omologo terzo motivo del ricorso principale; va quindi disatteso per le ragioni esposte nell’esaminare quella doglianza.

3.5) Il quinto motivo denuncia violazione degli artt. 1130 e 1131 c.c. Parte ricorrente nega la legittimazione dell’amministratore condominiale a proporre azioni di garanzia per vizi della cosa venduta. Cita allo scopo risalente giurisprudenza di questa Corte.

Anche questa doglianza non coglie nel segno. Giova infatti ripetere che in ipotesi di controversia promossa ex art. 1669 cod. civ. contro il venditore di unità immobiliari che abbia curato curi direttamente la costruzione, ancorchè i lavori siano stati appaltati ad un terzo, l’amministratore del condominio è legittimato ad agire perchè tale azione configura un atto conservativo e perciò rientra nei suoi poteri – se i difetti sono riscontrati sulle parti comuni (Cass. 3146/98; 3040/09).

3.6) Il sesto motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione dell’art. 306 e 808 c.p.c.) ripropone infondatamente l’eccezione di compromesso arbitrale, in forza della clausola compromissoria esistente nel contratto di appalto tra L’Immobiliare e l’Impresa.

Essa è agitata sul presupposto che non vi siano state rituali domande da parte del Condominio nei confronti dell’Impresa.

Rivelatosi infondato tale presupposto (cfr. secondo motivo), è destituita di pregio anche questa lagnanza.

3.7) Il settimo motivo espone violazione e falsa applicazione degli artt. 1669 e 2966 c.c. e "decadenza dal diritto alla garanzia per vizi". Il ricorso deduce che nel termine di decadenza non è stata formulata alla terza chiamata in causa alcuna denuncia da parte di chi aveva fatto valere la garanzia. Sostiene che la chiamata in causa non possa valere quale denuncia ex 1669 c.c., poichè proveniente da soggetto diverso dal titolare del diritto e per la povertà di contenuto dell’atto di citazione iniziale.

Il motivo è infondato. La sentenza impugnata ha attestato che il termine non era decorso nè al momento della notifica dell’atto di citazione, nè al momento della notifica dell’atto di chiamata in causa. Quest’ultimo può valere quale denuncia dei vizi, come ritenuto dalla sentenza impugnata ed è corretto che provenga proprio dal committente dei lavori, nella specie l’Immobiliare. La giurisprudenza ha dovuto sforzarsi di equiparare a questa ipotesi, stante la natura extracontrattuale della responsabilità decennale di cui all’art. 1669 c.c., la denuncia dei gravi vizi (o rovina) dell’edificio, fatta dal compratore, all’appaltatore, chiamato in causa dal costruttore – venditore – committente (in motivazione cfr.

Cass. 4622/02) , ma non può essere contestata la validità della denuncia proveniente proprio dal committente.

Quanto all’inidoneità contenutistica dell’atto, ancora una volta la censura è inammissibile per apoditticità e difetto di autosufficienza, non essendo stato riportato il testo dell’atto stesso, nè formulata critica specifica sotto il profilo del vizio di motivazione.

3.8) Non miglior sorte ha l’ottavo motivo, concernente violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. in ordine al "termine decennale ex lege" e vizio motivazione.

Il ricorso afferma che non è "completamente" vero che i lavori erano finiti nel 1984, come ritenuto in sentenza, e sostiene che l’Impresa aveva ultimato le opere nel 1982 e che le controparti non hanno offerto prova tale da far "dubitare" dell’avvenuta decorrenza del termine decennale. La censura si risolve palesemente nella richiesta di una nuova valutazione di merito, inammissibile in sede di legittimità.

Inoltre va ricordato che il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore e non anche all’esercizio della suddetta azione, la quale può essere iniziata anche dopo la scadenza del suddetto termine, purchè entro un anno dalla denunzia dei vizi; quest’ultima, a sua volta, deve farsi nel termine di un anno dalla scoperta dei vizi, la quale si intende verificata quando il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza obbiettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera (nella specie attraverso una relazione di consulenza tecnica) non essendo sufficiente, di regola, per il decorso del termine suddetto, la constatazione di segni esteriori di danno o di pericolo, salvo che si tratti di manifestazioni indubbie come cadute o rovine estese. (C. 5920/93).

Pertanto la critica, che non coglie tutti questi profili e che pecca vistosamente in punto di autosufficienza poichè riporta solo pochi e parziali spunti di deposizioni testimoniali, non è idonea a scalfire il convincimento del giudice di merito.

3.9) Da ultimo (nono motivo) il ricorso lamenta violazione o falsa applicazione art. 2055 c.c.. La ricorrente sostiene di non aver eseguito le opere di impermeabilizzazione e quindi nega responsabilità propria.

Ancora una volta la censura è inappropriata. La Corte d’appello non ha eluso tali questioni.

Le ha risolte affermando che tra i lavori appaltati alla Impresa Zaia, oltre alle strutture portanti e ai muri perimetrali, vi erano "anche lavori di impermealizzazione". Ha anche considerato (pag. 27) la circostanza, valorizzata in ricorso, che le pareti perimetrali metalliche inclinate non siano state realizzate da Zaia e Masutti, ma ha osservato che ciò rileva solo nel riparto di responsabilità tra Immobiliare e Impresa.

Per contestare l’imputabilità a sè di opere di impermeabilizzazione fonte di difetti, la ricorrente doveva quindi denunciare convenientemente un vizio di motivazione, giacchè alla luce della ritenuta qualificazione delle due società quali costruttrici, ineccepibile era l’applicazione dell’art. 2055 c.c. (unico oggetto della censura) nel condannarle solidalmente.

4) Discende da quanto esposto il rigetto di entrambi i ricorsi e la condanna del ricorrente principale e di quello incidentale al pagamento delle spese in favore del Condominio, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE riuniti i ricorsi, li rigetta.

Condanna ricorrente principale e ricorrente incidentale alla refusione delle spese di lite in favore del Condominio, liquidate per ciascuno dei soccombenti in Euro 3.000,00 per onorari, 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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