T.A.R. Campania Napoli Sez. II, Sent., 14-02-2011, n. 924 Equo indennizzo Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il coniuge della ricorrente, D.G.R., dipendente amministrativo della Università intimata, è deceduto per infarto del miocardio e l’Università su parere negativo del CPPO e del Ministero della Sanità, con decreto del 9.7.1996 ha respinto la domanda di riconoscimento della dipendenza del decesso da causa di servizio. Conseguentemente con decreto del 16.7.1996 ha respinto anche la domanda di concessione dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata.

Questo TAR ha accolto il ricorso proposto avverso il diniego di equo indennizzo per difetto di motivazione (giusta sentenza del 9.12.2003), essendo mancata una analitica disamina delle condizioni concrete in cui era stato reso il servizio, nei loro effetti causali sulla infermità contratta dal dipendente.

La pronuncia è stata tuttavia annullata dal giudice di appello con sentenza n. 2831/2009.

Nelle more dell’appello era stato erogato l’equo indennizzo e conferita la pensione privilegiata.

Con il gravato provvedimento l’amministrazione in esecuzione della sentenza di appello revoca la concessione dell’equo indennizzo invitando le percipienti alla restituzione dell’indebito; inoltre invita l’INPDAP a procedere al ripristino della pensione ordinaria, e al recupero delle differenze corrisposte tra pensione privilegiata e pensione ordinaria.

Il ricorso è affidato alle seguenti censure:

– violazione art. 2033 c.c., art. 1 legge 15/2005, eccesso di potere sotto vari profili: la buona fede del percipiente escluderebbe la legittimità del recupero. Tanto risulta confermato anche dalla recente disposizione dell’art. 1 legge 15/2005 a mente del quale la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti non aventi natura autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato.

– violazione del principio di affidamento ingenerato dalla pronuncia giudiziale che aveva accolto la domanda della ricorrente; la buona fede dovrebbe essere rilevante quanto meno ai fini del riconoscimento di una congrua rateizzazione del debito;

violazione e falsa applicazione art. 206 DPR 1092/73.

Si sono costituite in giudizio le amministrazioni intimate, contestando la fondatezza della domanda.

Con ordinanza n. 516 del 4.3.2010 questa Sezione ha accolto la domanda cautelare ordinando all’amministrazione di riesaminare le proprie determinazioni al fine di disporre in favore della ricorrente una congrua rateizzazione.

Per l’effetto l’amministrazione ha emanato un nuovo provvedimento in data 23 giugno 2010, deliberando la rateizzazione del debito in cinque anni con rate pari ad euro 600 circa mensili.

La ricorrente lamenta che tale rateizzazione non rispetti le prescrizioni della ordinanza cautelare, non rappresentando una congrua dilazione in rapporto alle proprie concrete esigenze di vita.

Alla pubblica udienza del 20 gennaio 2011 il ricorso è stato ritenuto in decisione.
Motivi della decisione

Il presente gravame contesta la legittimità del recupero operato dall’amministrazione con riferimento a somme che si assumono percepite in buona fede, in base ad un titolo costituito da pronuncia giudiziale, ancorché annullata in sede di appello.

In via subordinata la parte lamenta le modalità del disposto recupero, tali da incidere pesantemente sulle sue condizioni di vita.

Il ricorso è in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.

Con i primi motivi si deduce che l’atto con cui l’Amministrazione dispone il recupero di somme indebitamente corrisposte ai propri dipendenti è discrezionale, e presuppone il raffronto dell’interesse pubblico al recupero con gli altri interessi coinvolti: esso determina, cioè, "sia pure per implicito, l’annullamento in via di autotutela del pregresso provvedimento che ha dato luogo alla erogazione delle somme corrisposte; conseguentemente, l’amministrazione, nell’esercizio del suo potere discrezionale, deve valutare, ed esplicitare attraverso una idonea e congrua motivazione, la ricorrenza di un interesse pubblico attuale e concreto all’annullamento, l’affidamento ingenerato nel dipendente dal pregresso provvedimento, la buona fede di questi nella percezione delle somme, l’incidenza degli effetti già prodotti e dell’eventuale recupero a disporsi" (così C.d.S., IV, 15 giugno 1994, n. 501; conf. C.d.S., a.p., 30 settembre 1993, n. 11).

Il Collegio osserva che l’orientamento giurisprudenziale richiamato da parte ricorrente è stato oggetto di successivi ripensamenti.

Invero, nel tempo la giurisprudenza ha mutato, in materia, il proprio orientamento; ha cioè stabilito (ed il Collegio condivide tale soluzione) che il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti a pubblici dipendenti costituisce per l’Amministrazione non già l’espressione di un potere discrezionale, quanto "l’esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, ex art. 2033 c.c., avente di regola carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale" (così C.d.S., VI, 20 aprile 2004, n. 2203); diritto "non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate" (C.d.S., IV, 17 dicembre 2003, n. 8274), tanto che non assume rilievo preclusivo neppure "l’eventuale destinazione delle somme indebite a bisogni primari della vita" (C.d.S., VI, 2203/04 cit.).

Peraltro, interpretata come diretta a negare nella fattispecie l’esistenza di un tale diritto, con la conseguente condanna alla restituzione delle somme a suo tempo recuperate, la domanda della ricorrente, sebbene ammissibile, va respinta siccome infondata.

Infatti, la buona fede dell’accipiens "non è di ostacolo all’esercizio, da parte dell’amministrazione, del diritto di ripetere le somme indebitamente erogate ai sensi dell’art. 2033 c.c.; trattandosi di atto vincolato nell’an e non di atto discrezionale, la p.a. non è tenuta a fornire una specifica e dettagliata motivazione, essendo sufficiente che vengano chiarite le ragioni per le quali il percipiente non aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per errore" (C.d.S., VI, 15 giugno 2004, n. 3878; conf. id. 12 luglio 2004, n. 5067; V, 23 marzo 2004, n. 1535), senza che possa considerarsi prevalente l’interesse del dipendente, cui era stata effettuata l’indebita erogazione, su quello pubblico, per sua natura sempre attuale e concreto (così, C.d.S., VI, 3 dicembre 2003, n. 7953; id. 7 luglio 2003, n. 4012).

Peraltro le somme liquidate a titolo di equo indennizzo sono state erogate in virtù di un titolo che ancorchè costituito da una pronuncia di primo grado di questo giudice amministrativo, era gravata in appello e pertanto suscettibile di modifica, come nella specie è avvenuto.

La doverosità del recupero discende, nel caso in esame, ineluttabilmente dal ribaltamento della pronuncia di primo grado avvenuto in appello, per cui da un lato non possono trovare ingresso valutazioni di carattere discrezionale dell’amministrazione; e dall’altro deve escludersi una situazione di buona fede in senso assoluto del percipiente, quantomeno sotto il profilo della consapevolezza della stabilità e definitività della erogazione.

La giurisprudenza sul punto ha a più riprese ribadito che la percezione di emolumenti non dovuti da parte dei pubblici dipendenti non è di ostacolo all’esercizio, da parte dell’ Amministrazione, del diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’ art. 2033 Cod. civ., essendo il recupero di regola un atto dovuto e privo di valenza provvedimentale, salva restando la non eccessiva onerosità, per il dipendente, delle modalità della ripetizione (fra le tante, C.Stato, IV Sez., 16/10/2001, n.5450; IV Sez. 22/10/2001 n.5540; V Sez., 27/3/2000, n. 1767; VI Sez., 9/4/2001, n. 2153; VI Sez., 28/5/2001, n. 2899; IV sez., 25/9/2002, n.4896).

Il solo temperamento alla regola della ripetibilità dell’indebito è dunque rappresentato dalle modalità di recupero, che non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore (C.d.S., VI, 26 giugno 2003, n. 3837; id. 20 giugno 2003, n. 3674; id. 10 gennaio 2003, n. 43; V, 14 febbraio 2003, n. 792), ma tali, cioè, da consentire la duratura percezione di una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa (C.d.S., VI, 12 dicembre 2002, n. 6787).

Invero la buona fede del percipiente non impedisce di per sé la ripetizione di somme indebitamente erogate ad un dipendente pubblico, imponendo soltanto modalità di recupero tali da non comportare un eccessivo aggravio per la sua posizione (cfr. CdS, Comm. Sp., n. 478/2000 del 5.2.2001; VI, n. 2591 dell’8.5.2001; n. 2899 del 28.5.2001; IV, n. 6197 dell’11.12.2001).

Né soccorre la disposizione di cui all’art. 52 L. 88/89, che limita il recupero delle somme indebitamente corrisposte all’ipotesi del dolo del percipiente, essendo la stessa dettata in materia di previdenza sociale e, come norma eccezionale, non applicabile in materia di pubblico impiego, ove l’Amministrazione è tenuta alla ripetizione dell’indebito (cfr. Cds, VI, n. 1964 del 3.4.2001), salvo il rilievo, nei limiti sopra esposti, della buona fede del soggetto interessato.

Va tuttavia rilevato che, in specie, la limitazione circa l’entità del recupero entro limiti ragionevoli non è stata rispettata: vi sono infatti elementi per affermare che l’ente, nel procedere al recupero, abbia posto a carico della ricorrente insostenibili decurtazioni della pensione- nel frattempo ricondotta a pensione ordinaria da parte dell’Istituto previdenziale.

In esecuzione della ordinanza cautelare di questo Collegio invero l’Ente con la delibera del CdA del 15.6.2010 ha predisposto un piano di recupero delle somme che non può ritenersi integrare una congrua rateizzazione di quanto dovuto dalla ricorrente.

Ritiene il Collegio che in proposito debba trovare applicazione in via analogica il principio di cui agli artt.1 e ss. del DPR n.180/50, che fonda il diritto del dipendente pubblico a non vedersi decurtato lo stipendio per un ammontare superiore al limite del quinto.

Inoltre l’Amministrazione ha omesso nel caso di specie di ottemperare ai dettami del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa (A.P. 30/9/93, n.11) per non aver valutato se il recupero sia tale da rendere la pensione di cui la ricorrente è titolare non più sufficiente secondo i parametri dell’art.36 cost..

Pertanto, se l’Amministrazione, oltre che il dovere,ha in primis il diritto di provvedere al recupero, il dipendente si trova in una condizione sostanzialmente di soggezione, soltanto parzialmente riequilibrata dai limiti entro i quali la potestà datoriale ha modo di esplicarsi. Ciò nel senso che l’entità del recupero deve essere "ragionevole", ovverosia tale da non rendere insufficiente quanto percepito dal dipendente al fine di soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia.

In tali termini si è espressa la giurisprudenza sul punto, assumendo come indice significativo della predetta ragionevolezza proprio il rispetto del limite del quinto dello stipendio (T.A.R. Lazio – Roma, Sez.II, 28/4/98, n.713), così come introdotto dall’art.2 d.P.R. n.180 del 5.1.50 in ordine alla previsione dei limiti entro i quali tali emolumenti sono pignorabili.

Tale specifica previsione consente senz’altro di ritenere configurabile un vero e proprio diritto soggettivo del dipendente a non vedersi decurtato lo stipendio da parte dell’Amministrazione di appartenenza, nel caso di specie nella veste di creditore di una somma di denaro indebitamente corrisposta, oltre il limite suindicato(cfr TAR NA sez. IV n. 8471/03).

La rateizzazione mensile concessa nel caso in parola a seguito della ordinanza cautelare di questo Collegio, d’altronde, non riduce adeguatamente il sacrificio imposto alla ricorrente, sacrificio che non è comunque, per la giurisprudenza citata, idoneo a prevalere sull’interesse pubblico -sempre attuale- al recupero (Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2000, n. 1238 e 29 settembre 1998, n. 1377; Cons. giust. amm. Reg. sic., 3 febbraio 2000, n. 20; v. anche T.A.R. Umbria, 06/03/1998, n.193, secondo cui "La previsione che il recupero di emolumenti non dovuti a dipendenti pubblici avvenga mediante ritenute mensili nei limiti di un quinto dello stipendio rende di per sè l’azione recuperatoria inidonea a compromettere le possibilità di soddisfacimento dei bisogni essenziali della vita").

Il principio è estensibili, ricorrendo l’eadem ratio, alla posizione della ricorrente, titolare di pensione di reversibilità del coniuge, in relazione alla quale va parametrata l’entità delle rate che l’amministrazione dovrà definire.

Fermo quindi restando il dirittodovere dell’amministrazione di procedere al recupero, va affermato il diritto della ricorrente a vedere limitato lo stesso entro rate mensili tali che non superino un quinto della pensione mensile ordinaria di reversibilità della quale la stessa è titolare;

La domanda, in tali sensi, va conclusivamente accolta.

Sussistono giusti motivi per dichiarare integralmente compensaste le spese di lite tra le parti, stante la parziale reciproca soccombenza.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,accoglie la domanda per quanto di ragione e per l’effetto, dichiara il diritto della ricorrente a far luogo alla restituzione delle somme indebitamente ricevute mediante una congrua rateizzazione, tale che le singole rate mensili non superino un quinto della pensione mensile ordinaria di reversibilità della quale la stessa è titolare;

compensa integralmente le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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