Cass. civ. Sez. V, Sent., 31-03-2011, n. 7418 Accertamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

L’8.11.2006 è stato notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze e all’Agenzia delle Entrate (oltre che alla medesima Agenzia presso la sede locale di Pordenone) un ricorso di Z.A. per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 28.10.2005), che ha rigettato l’appello del contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Pordenone n. 98/04/2001, che aveva rigettato il ricorso dello stesso contribuente avverso avviso di accertamento per IRPEF (oltre sanzioni) relativa all’anno 1994.

Il 18.12.2006 è stato notificato alla ricorrente il controricorso dell’Agenzia.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 24.2.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento/rigetto del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con il menzionato avviso di accertamento l’Agenzia ha contestato allo Z. un maggior reddito imponibile ai uni IRPEF di L. 704.622.000 per l’anno d’imposta 1994. in ragione dell’emissione di un accertamento a carico della Me.To.Do srl (in cui lo Z. era socio al 50%) nel quale era stato contestato alla società un maggior reddito d’impresa per il predetto esercizio (rinveniente dal disconoscimento di costi relativi a operazioni ritenute inesistenti), reddito perciò imputato pro quota allo Z. in virtù della presunzione di distribuzione tra i soci (consistenti in una ristretta base) di utili extra bilancio in somma pari a quelli maggiori accertati. L’impugnazione di detto avviso era stata respinta dalla CTP di Pordenone ed il successivo appello del contribuente è stato poi disatteso dalla pronuncia qui impugnata.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR. oggetto del ricorso per cassazione, è motivata – da una parte – nel senso che dovesse essere disattesa l’eccezione del contribuente concernente l’omessa notificazione (in una con l’avviso di accertamento che lo riguarda) degli atti relativi alla Me.To.Do.. atteso che la sentenza n. 177/06/2001 della CIP di Verona (prodotta in causa dallo stesso contribuente) dava conto del ricorso proposto dallo Z. contro l’avviso di accertamento concernente il maggior reddito contestato alla Me.To.Do per il 1994, sicchè detti atti si dovevano reputare già noti allo Z. stesso; d’altra parte, nel senso che – alla luce dell’insegnamento di questa Corte – è legittimo ritenere presuntivamente distribuiti al socio di società a ristretta base gli utili occulti, induttivamente accertati in capo alla società medesima, utili che nella specie di causa sono stati "assunti quale mero presupposto, non contestato in questa sede dal ricorrente, pur essendo egli a conoscenza dei fatti sottostanti". 4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con quattro distinti motivi d’impugnazione e si conclude previa determinazione del valore della lite come "indeterminabile" – con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con la condanna di parte avversaria al pagamento delle spese di lite.
Motivi della decisione

5. Questioni preliminari.

Preliminarmente necessita rilevare l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Quest’ultimo non è stato parte del processo di appello (instaurato dopo il 1 gennaio 2001 – data di inizio dell’operatività delle Agenzie fiscali – dal solo Ufficio locale dell’Agenzia) sicchè non ha alcun titolo che lo legittimi a partecipare al presente grado.

Nulla sulle spese, non essendosi costituito il Ministero.

Sempre preliminarmente deve essere rilevato che il ricorrente Z. ha evidenziato di avere ricevuto – per gli stessi fatti dianzi riassunti – due avvisi di accertamento ai lini IVA (evidentemente come legale rappresentante della Me.To.Do. srl) per gli anni di imposta 1994-1995 ed ulteriori due avvisi concernenti le imposte dirette inerenti i predetti anni (evidentemente notificatigli per i redditi imputati a lui come socio). Ha inoltre evidenziato che i contenziosi in materia di imposte societarie si erano risolti a favore della contribuente società, mentre i contenziosi in materia di imposte personali si erano risolti (in ragione di due diverse sentenze della stessa sezione della CTR di Trieste) a favore di esso Z. quanto all’anno 1995 ed a sfavore di esso Z. quanto all’anno 1994 qui in esame. Ciò posto, lo Z. assumeva che dalle menzionate decisioni emergeva "un contrasto fra giudicati ed un giudicato implicito" e che quella n. 25 del 2006 (già notificata) "una volta passata in giudicato, copra il dedotto ed il deducibile", anche per ciò che concerne la materia qui in contestazione.

Dette considerazioni contenute nel ricorso introduttivo sono rimaste così, genericamente formulate. prive di qualsivoglia precisa indicazione ovvero di conclusione e domanda (così come non sono state strumentate ai fini di un qualsivoglia motivo di impugnazione) e non potranno essere perciò tenute in alcuna considerazione, sicchè se ne riferisce qui per completezza.

6. Esame dei motivi d’impugnazione. a) Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: "Nullità della sentenza ex art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 61 e 36, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Il ricorrente assume che la motivazione della sentenza impugnata è meramente apparente, perchè non idonea a rivelare la ratio decidendi. ovvero perchè motivata per implicito rinvio alla pronuncia di primo grado.

Il motivo è da disattendersi. In ragione di quanto dianzi succintamente riassunto, è agevole ricostruire il percorso logico- argomentativo (del tutto originale) della sentenza qui impugnala, sicchè non vi è dubbio che non può concordarsi con la parte ricorrente. b) Il secondo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: "Vizi della motivazione ex art. 115 e 132 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 61 e 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2728 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2262, 2263, 2433 e 2627 c.c..

Con periodare non perspicuo e coinvolgendo nella censura anche la sentenza di primo grado, il ricorrente lamenta (confusamente e contraddittoriamente) violazione delle norme di legge che presiedono alla motivazione della sentenza, imputando alla Commissione di secondo grado di avere valorizzato due elementi di rilievo a favore dell’Agenzia, e cioè il fatto che esso ricorrente fosse socio al 50% in una società di due soli soci e che ne fosse anche amministratore unico, e perciò stesso in grado di vincere la presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati.

Non è però in alcun modo chiaro quale norma fra quelle valorizzate nella rubrica il giudice del merito avrebbe in tal modo violato, sicchè la censura per questo aspetto è del tutto indeterminata ed inidonea.

D’altra parte il ricorrente si duole del fatto che "non è risultato in atti alcun documento o sentenza di Tribunali Civili o Penali riferibili alla Me.To.Do. srl e/o allo Z. con la quale si fosse accertato effettivamente la omessa contabilizzazione di utili extrabilancio", e si duole ancora del fatto che sarebbe mancato nelle due sentenze di merito l’accertamento del fatto che le azioni e l’organizzazione aziendale fossero "concentrate in una stretta cerchia familiare".

Entrambe le doglianze, peraltro non correlate ad alcuna specifica violazione di norma di legge ma genericamente indirizzate contro la correttezza della decisione del giudice di merito, appaiono infondate, giacchè non tengono conto del costante indirizzo interpretativo ed applicativo di questa Corte secondo cui (per tutte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9519 del 22/04/2009):"In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo a quelli di capitale, nel caso di società a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poichè il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che. in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale. Affinchè, però, tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio, sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi".

Orbene, lo Z. non ha negato (neppure in questa sede, e come anche il giudice di secondo grado ha avuto modo di rilevare, in applicazione del criterio della non contestazione) che la società dei cui utili si tratta fosse composta da una ristretta compagine di soci e neppure che l’accertamento a carico di quest’ultima (che si dice annullato da pronunce di Commissione Tributaria che lo Z. in questa, sede non ha depositato e che perciò non possono valorizzarsi a favore della tesi del ricorrente) avesse evidenziato l’esistenza di maggiori utili rispetto a quelli dichiarati – sicchè consegue che si devono dare per acclarati tutti gli elementi di fatto necessari a concretizzare la menzionata presunzione e l’inversione dell’onus probandi che ne consegue. Sarebbe spettato insomma a ricorrente dimostrare che gli utili in argomento non erano stati distribuiti ai soci e ciò – pacificamente – non avendo egli fatto (nonostante ne avesse massima opportunità, atteso che aveva all’epoca la qualifica di amministratore della società), non può in questa sede dolersi di violazione di norme (peraltro non debitamente specificate) che non sono state affatto violate dal giudice del merito. c) Il terzo motivo di impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: "Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa e/o errata applicazione della L. n. 212 del 200, art. 7, comma 1 e del D.Lgs. n. 32 del 2001, art. 1 ".

Con detto motivo il ricorrente si duole del fatto che erroneamente la Commissione di secondo grado abbia ritenuto idoneamente motivato il provvedimento impositivo, per i solo fatto che la sentenza n. 177/06/01 della CTP di Verona dava conto del ricorso da esso ricorrente medesimo proposto contro l’avviso di accertamento relativo alla Me.To.Do., ma senza tenere conto del fatto che esso Z. era rimasto amministratore della predetta società sino al 1995 e perciò "in epoca ben precedente alla verifica e alla redazione del PVC". In difetto di valida notifica dell’atto presupposto, il provvedimento impositivo della cui impugnazione qui si tratta avrebbe dovuto essere quindi-annullato.

Si tratta di motivo con cui il ricorrente concretamente prospetta un vizio di motivazione (circa il fatto decisivo della avvenuta notifica allo Z. dell’atto presupposto) senza averlo correttamente formulato come tale. In termini si veda, per tutte Cass. Sez. L. Sentenza n. 16698 del 16/07/2010:"In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

(Principio enunciato dalla S.C., in tema di violazione procedimentale, in riferimento alla ricostruzione dell’"iter" processuale fornito dalla corte di merito riguardo alla mancata comunicazione di un’ordinanza emessa fuori udienza dal giudice di primo grado)".

Vi è poi come ulteriore ragione di inammissibilità della censura anche la circostanza che la censura stessa non è conforme al principio dell’autosufficienza del ricorso, non avendo la parte ricorrente in alcun modo indicato quali sarebbero gli elementi di prova utili a convalidare le circostanze sulle quali la doglianza si fonda, e cioè la data della permanenza nella carica di amministratore in correlazione con la data di avvenuta esecuzione della verifica e di redazione del Fatto presupposto della cui notifica qui si tratta. d) Il quarto motivo di impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica:"Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 42 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".

La parte ricorrente si duole del fatto che il giudice di primo grado abbia affermato che "sono utilizzabili le dichiarazioni assunte con modalità proceduralmente ben definite e che rivestono per questo particolare valore probatorio", così avendo basato la propria decisione su di una prova irrituale.

Si tratta di motivo inammissibile in questa sede, poichè non correlato con gli argomenti su cui si fonda la decisione di secondo grado, l’unica della quale può tenersi conto ai fini della valutazione della fondatezza del ricorso. In quest’ultima un argomento come quello censurato dal ricorrente non è mai stato sviluppato nè in via diretta, nè attraverso il richiamo agli argomenti su cui è fondata la sentenza di primo grado.

In termini si veda Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17125 del 03/08/2007:

"La proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al "decisimi" della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzie diverse da quelle impugnate. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile i motivo del ricorso di una società di persone, con cui, ne giudizio avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di rettifica del reddito di partecipazione, si censurava la sentenza emessa in un altro giudizio, avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di rettifica del reddito dichiarato dalla società, e richiamata nella sentenza impugnata dal socio)".

Non resta che concludere nel senso dell’infondatezza del ricorso per cassazione, con le conseguenti determinazioni ai lini della regolazione delle spese di questo grado, in applicazione del principio della soccombenza.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Nulla sulle spese a ciò relative. Rigetta il ricorso proposto contro l’Agenzia e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di questo grado, liquidate in Euro 2.000.00 per onorario, oltre spese di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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