Cass. civ. Sez. V, Sent., 31-03-2011, n. 7327 accertamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

p.1. Svolgimento del processo.

I.P. impugnava dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Benevento l’accertamento emesso dal locale ufficio dell’Agenzia delle Entrate per l’anno 1998, col quale veniva accertato un maggiore imponibile ai fini i.r.pe.f. ed i.v.a., derivanti da attività di lavoro autonomo (geometra libero professionista) sulla base di determinazione presuntiva di ricavi non dichiarati. La commissione accoglieva il ricorso e contro tale decisione proponeva appello l’Agenzia, mentre il contribuente proponeva appello incidentale, deducendo l’omesso esame della censura di difetto di motivazione dell’accertamento.

Con sentenza depositata il 13 maggio 2005 la commissione tributaria regionale della Campania accoglieva parzialmente il gravame dell’ufficio, ritenendo infedele la dichiarazione, a fronte del valore dei beni strumentali, ma riducendo al 50% il maggior reddito non dichiarato, rispetto a quello accertato.

Avverso tale sentenza lo I. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre mezzi d’annullamento.

Resistono con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle entrate. p.2. I motivi di ricorso.

2.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 132 e 161 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c.; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36; insufficiente e contraddittoria motivazione.

Lamenta che la sentenza non esporrebbe le argomentazioni a sostegno della decisione e non conterrebbe alcuna statuizione circa la censura d’inammissibilità dell’appello svolta nell’appello incidentale. La sentenza, inoltre, non spiega l’iter seguito per stabilire i compensi non dichiarati nella misura di L. 21.613.000. 2.2. Col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, il ricorrente lamenta che la commissione regionale non avrebbe dato risposta alla censura di inapplicabilità dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996 per inesistenza dei presupposti, e precisamente un’attività esercitata per 366 giorni, non tenendo conto del fatto che il contribuente era un lavoratore dipendente e dedicava poco tempo all’attività professionale. Tale censura era stata accolta dalla commissione tributaria provinciale e tale punto era stato contrastato nell’appello dell’Agenzia, la quale insisteva sull’applicabilità dei parametri.

La commissione regionale si era, invece, limitata a ridurre il maggior reddito accertato. Quanto sopra, secondo il ricorrente, integrerebbe il vizio di omessa pronuncia.

2.3. Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41; art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Censura l’interpretazione che ritiene cogliersi nella sentenza impugnata, secondo cui il D.P.C.M. 29 gennaio 1996 consentirebbe la determinazione presuntiva del reddito sulla base del solo valore dei beni ammortizzabili. Secondo il ricorrente, lo strumento più adeguato sarebbe costituito dagli studi di settore, i quali consentirebbero, unitamente agli elementi forniti dal contribuente, una ricostruzione del reddito, non su mere presunzioni, ma in relazione alla particolare situazione dell’impresa.

I principi costituzionali e l’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente impongono che il reddito non venga determinato in maniera automatica, a prescindere dalla capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Rileva,infine, che il giudice d’appello avrebbe del tutto ignorato le disposizioni contenute del citato DPCM, il quale impone di prendere in considerazione anche il tempo dedicato all’attività professionale. p.3. Motivi della decisione.

Le censure del ricorrente, che possono essere congiuntamente esaminate, meritano accoglimento nei termini che seguono.

Dai motivi di ricorso si ricava una complessiva censura di difetto di motivazione in relazione alle varie questioni svolte dal ricorrente nel giudizio di merito, fra cui l’erronea applicazione dei parametri indicati dal D.P.C.M. del 29 gennaio 1996 e la mancata indicazione dei criteri impiegati per la determinazione di un reddito e di un imponibile i.v.a. maggiori di quelli dichiarato, sia pure in misura ridotta rispetto a quella cui era pervenuto l’ufficio accertatore.

Orbene, come ha esattamente rilevato il ricorrente, la sentenza impugnata non contiene una specifica indicazione delle ragioni del decidere, neppure attraverso un rinvio al contenuto di atti di parte nell’esposizione della vicenda processuale. In particolare, la decisione di aumento del reddito e dei ricavi non è sostenuta da alcuna argomentazione, mentre la riduzione del maggior imponibile al 50% si presenta come una vera e propria decisione equitativa. Quanto al rilievo del tempo limitato dedicato dal contribuente all’attività professionale, la risposta della commissione si è limitata a frasi assolutamente generiche.

Il richiamo fatto nel controricorso alla natura del giudizio tributario come giudizio sul rapporto si risolve in un approssimativo ed improprio utilizzo della regola enunciata dalla giurisprudenza della Corte. Più volte è stato, infatti, ricordato, che, pur essendo i poteri del giudice tributario più estesi di quelli di un giudice di mero annullamento, il processo tributario resta comunque un giudizio d’impugnazione, introdotto mediante la deduzione di specifici vizi i quali devono essere necessariamente esaminati dal giudice, mentre la difesa dell’amministrazione non può svolgersi in modo difforme dalla motivazione dell’accertamento. Il giudice tributario non può, pertanto, ignorare le censure dedotte a sostegno del ricorso ed esercitare in via autonoma la potestà impositiva riservata all’amministrazione.

La mancanza totale di indicazione delle ragioni poste a fondamento della decisione si risolve in un vizio in procedendo ex art. 111 Cost., ben più radicale di quello disciplinato dall’art. 360 c.p.c., n. 5, e comporta la totale cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della commissione tributaria regionale della Campania, con assorbimento di tutte le altre censure.

Il giudice di rinvio dovrà, quindi, previa adeguata ricostruzione della vicenda processuale, esaminare analiticamente le ragioni delle parti e decidere anche sulle spese della presente fase.
P.Q.M.

La Corte di Cassazione;

accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa e rinvia, anche per la decisione sulle spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale della Campania.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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