Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-04-2011, n. 7955 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 30/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Termini Imerese, rigettava la domanda proposta da C.M. C. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl 1994 e acc. Az. 25-9-97, per il periodo dal 2-10-2000 al 31/1/2001, con le pronunce consequenziali. In particolare il detto giudice riteneva che nella specie ricorreva la risoluzione consensuale del rapporto per mutuo consenso tacito.

La C. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società resisteva al gravame di controparte e proponeva appello incidentale chiedendo il rigetto delle domande di controparte assorbite dalla pronuncia del primo giudice.

La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza depositata il 6-4-2006, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava l’illegittimità del termine apposto al contratto de quo, e condannava la società a riammettere in servizio l’appellante e a pagarle le retribuzioni maturate a decorrere dalla data di notifica del ricorso introduttivo con gli accessori sino all’effettiva riammissione.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con nove motivi, corredati dai quesiti ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis.

La C. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

Con il primo motivo la società ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 1372 c.c., comma 11, artt. 1175, 1375, 2697, 1427. 1431 c.c. artt. 100, 414 c.p.c., art. 437 c.p.c., comma 2, art. 87 disp. att. c.p.c.) in sostanza lamenta che la Corte d’Appello erroneamente ha escluso che ricorresse la risoluzione consensuale del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la C. avesse accettato senza alcuna riserva le competenze relative alla cessazione del rapporto e avesse impugnato il termine apposto al contratto di lavoro decorsi oltre tre anni dalla scadenza naturale del rapporto. La ricorrente, inoltre, deduce che nel caso di prolungato disinteresse delle parti deve presumersi l’estinzione per mutuo consenso, incombendo sul lavoratore che agisce per l’accertamento della nullità del termine l’onere di provare le circostanze atte a contrastare la predetta presunzione ed infine lamenta che la Corte di merito irritualmente ha preso in considerazione anche una circolare aziendale "solo citata da controparte – oltretutto tardivamente ed inammissibilmente per la prima volta in seno al ricorso in appello e non allegata in atti".

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia altresì omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.

Entrambi i motivi, strettamente connessi, non meritano accoglimento.

In base al principio costantemente affermato da questa Corte e che va qui nuovamente enunciato, "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11/12/2001 n. 15621). Peraltro, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello dopo aver rilevato che "il decorso del tempo è un fatto di per sè neutro" e che è configurabile la risoluzione per mutuo consenso in presenza di "comportamenti significativi tenuti dalle parti", che dimostrino "una chiara e certa comune volontà delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" e dopo aver precisato che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la detta chiara volontà, ha osservato che, "da un lato nessuna prova è stata fornita al riguardo da Poste Italiane s.p.a.; dall’altro l’inerzia della lavoratrice dopo la cessazione dell’attività lavorativa è da attribuire, alla luce del successivo ricorso dalla medesima proposto all’autorità giudiziaria, ad una fiduciosa aspettativa di essere integrata a tempo pieno nell’organico dell’azienda o, quanto meno, di essere nuovamente destinataria di un altro contratto a termine, evenienza quest’ultima cui la società appellata ha fatto ricorso in varie occasioni.

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito in aderenza al principio sopra richiamato, risulta congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente.

Peraltro la Corte territoriale soltanto ad abundantiam ha osservato che non va poi trascurato l’ulteriore elemento emergente dalla circolare aziendale richiamata dalla appellante (circa la impossibilità della stipula di nuovi contratti a termine con soggetti che abbiano in atto un contenzioso con la società), di guisa che inammissibile risulta comunque la censura riguardante la tardività e irritualità della relativa allegazione (v. Cass. 23/11/2005 n. 24591, Cass. Cass. 28-3-2006 n. 7074).

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 112, 414, 434 c.p.c. e omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla affermazione della nullità del termine apposto al contratto de quo, in quanto stipulato, per "esigenze eccezionali" ex acc. az. 25-9-97, dopo la scadenza del termine di efficacia del detto accordo (30-4-1998), senza che tale profilo di nullità fosse stato specificamente dedotto in primo grado.

Anche tale motivo non può essere accolto.

Posto che la Corte di merito, sul punto, ha espressamente accolto il secondo motivo di appello, con il quale la appellante ha "insistito" nella domanda di nullità del termine, in quanto apposto ad un contratto stipulato oltre il limite di efficacia dell’acc. az.

25/9/97 stabilito dagli accordi attuativi, rileva in primo luogo il Collegio che la società ricorrente non indica nel ricorso se ed in quali termini abbia eccepito davanti alla Corte d’Appello la eventuale novità e inammissibilità del profilo di nullità in oggetto.

Peraltro la stessa Corte d’Appello ha affermato che con il ricorso introduttivo la C., premesso che era stata assunta con contratto a tempo determinato, ai sensi del ccnl 1994 e dei successivi accordi integrativi, aveva dedotto "che l’apposizione del termine era illegittima perchè fuori dall’ambito delle previsioni stabilite dal contratto e dagli accordi dianzi indicati".

Sulla base di tale ampia interpretazione della domanda la Corte di merito ha, quindi, accolto il motivo di gravame, senza incorrere in alcun vizio di extrapetizione.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia contraddittorietà della motivazione, in quanto la sentenza impugnata "ha prima ammesso e poi negato l’ampiezza della delega riconosciuta alla contrattazione collettiva nella individuazione di ipotesi di assunzione a termine", richiedendo "l’introduzione di un rigido limite temporale di validità ad una fattispecie che riguarda problemi strutturali della società che non potranno trovare soluzioni in tempi brevi".

Con il quinto motivo la ricorrente, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 in sostanza lamenta che la sentenza impugnata "ha erroneamente affermato che il potere riconosciuto ai contraenti collettivi di introdurre nuove ipotesi di assunzioni a termine, in aggiunta a quelle previste dalla legge, sarebbe soggetto a pretesi limiti temporali".

Con il sesto motivo, la ricorrente denunciando violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 ccnl 1994 e degli accordi integrativi ed attuativi successivi, in sostanza deduce la natura meramente ricognitiva di questi ultimi, dovendo escludersi che le parti abbiano inteso fissare un termine finale alla possibilità di fare ricorso a contratti a tempo determinato.

Con il settimo motivo, la ricorrente denuncia omessa ed insufficiente motivazione in relazione al "supposto limite temporale a cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine effettuate dalla società".

I detti motivi (dal quarto al settimo, tutti riguardanti la legittimità o meno del termine), da trattarsi congiuntamente per la loro connessione, parimenti non possono essere accolti.

Osserva il Collegio che la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva alla "scadenza (30-4-1998) dei termini stabiliti dagli accordi attuativi" dell’acc. az. 25-9-1997 integrativo dell’art. 8 del ccnl del 1994.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con raccordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-1-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato, va quindi confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo risultando superfluo l’esame di ogni altra censura al riguardo.

Così respinti i primi sette motivi, osserva il Collegio che, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

"Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale dì fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, dì lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data dì entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.".

Con riguardo alla richiesta della società, contrastata dalla difesa dell’intimata e a prescindere dall’esame delle obiezioni da quest’ultima svolte in ordine alla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc.,; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile.

In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Premessi tali principi di diritto, si rileva che nel caso in esame i motivi che investono il tema cui potrebbe essere riferibile, secondo la prospettazione della ricorrente, la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7 sono l’ottavo e il nono.

Con l’ottavo motivo la società ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 c.c., lamenta, infatti, che la sentenza impugnata, pur affermando che il diritto alla retribuzione può sorgere solo con la messa in mora, non avrebbe "verificato se vi fosse effettiva costituzione in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore" ed avrebbe omesso di accertare se ed in che misura la lavoratrice avesse "svolto ulteriori e successive attività lavorative in epoca successiva alla scadenza del termine". La società al riguardo afferma inoltre che "l’aliunde perceptum" "non poteva che essere genericamente dedotto" dalla società, mentre incombeva sulla controparte la prova "di non aver intrattenuto altri e successivi rapporti di lavoro e/o di non aver percepito ulteriori somme a titolo retributivo". La ricorrente formula, poi, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte adita: se in applicazione del principio di sinallagmaticità che disciplina il rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni per l’intervallo in cui non ha reso la prestazione e se dalle somme dovute a titolo risarcitorio ed in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 c.c. e segg. e dell’art. 2043 c.c. e segg., in quanto dai primi richiamati, devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso dell’ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale graverebbe conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare i danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa".

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare del tutto astratto e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, per cui deve ritenersi inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. Del resto lo stesso motivo risulta del tutto generico e astratto, in quanto la ricorrente non indica se, con quale atto ed in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3/2/1998 n. 1099).

Parimenti inammissibile è, infine, il nono motivo, con il quale la ricorrente lamenta contraddittorietà della motivazione in merito alla avvenuta messa in mora della società.

In particolare la ricorrente deduce che la Corte di merito, "pur avendo correttamente affermato il principio per il quale il pagamento delle retribuzioni può decorrere solo dalla data di messa in mora della società, ha disposto la corresponsione delle medesime dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, anche se quest’ultimo non conteneva alcuna offerta della prestazione e, quindi, era inidoneo alla costituzione in mora".

Anche tale motivo non può essere accolto.

Sul punto, infatti, la ricorrente, attraverso la denuncia di un vizio di motivazione (che non emerge affatto dalla lettura dell’impugnata sentenza), in realtà contesta genericamente quanto affermato dalla Corte di merito, che ha ravvisato la messa in mora nella notifica del ricorso introduttivo di primo grado ("atto questo con il quale l’appellante ha offerto le proprie prestazioni lavorative al datore di lavoro, sino all’effettiva riammissione in servizio").

Tale accertamento, prettamente di fatto (peraltro riguardante anche la interpretazione della domanda) riservato al giudice del merito, è stato effettuato dalla Corte territoriale in conformità con l’indirizzo più volte dettato da questa Corte (v. fra le altre Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 13-4-2007 n. 8903) e risulta congruamente motivato.

Del resto la censura della società appare del tutto generica in quanto la ricorrente neppure riporta il contenuto del ricorso introduttivo di primo grado, nella parte relativa, che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato un atto di messa in mora.

Il ricorso va, pertanto, respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della C..
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla C. le spese, liquidate in Euro 10,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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