Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-01-2011) 23-02-2011, n. 6991 Ignoranza della legge

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

iano che ha insistito nei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 24 novembre 2008, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza, emessa a seguito di giudizio abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città, con la quale S.P. e D.F.F. sono stati ritenuti responsabili del reato di concorso nella detenzione illecita di grammi 362,881 di marijuana (THC pari a mg.

2,177) e condannati, ritenuta l’ipotesi lieve, alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 1.600 di multa, con i benefici di legge.

Esponevano in fatto i giudici di merito che gli imputati erano stati sorpresi, nel luglio 2007, dagli operanti davanti al villino occupato dal S. nel tentativo di caricare su di una macchina dei sacchi neri, risultati poi contenere 13 piante di marijuana, notate qualche ora prima dagli stessi agenti sistemate in vasi del giardino del predetto villino.

2. Avverso la suddetta sentenza entrambi gli imputati propongono ricorso per cassazione con separati atti.

Per il S., si deduce l’erronea applicazione della legge penale, in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato la ignoranza legis, posto che all’epoca dei fatti, prima dell’intervento delle Sezioni unite, era diffuso l’orientamento giurisprudenziale che affermava la liceità della coltivazione domestica di cannabis, indirizzo ampiamente pubblicizzato dai media così da ingenerare nei giovani la convinzione che coltivare droghe leggere per uso personale non fosse reato.

Inoltre, i giudici di merito non avrebbero valutato l’offensività del reato, ovvero che le piante erano state estirpate prima della loro maturazione e – tenuto conto del valore di THC pari a gr. 2,1 – erano inidonee all’uso.

Nell’interesse di D.F., si deduce il vizio di motivazione, in relazione al mancato accoglimento della richiesta di assoluzione e del riconoscimento dell’ipotesi dell’art. 56 cod. pen. e dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7.

Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non avrebbe tenuto conto dell’inoffensività della condotta, inidonea a ledere o porre soltanto in pericolo il bene giuridico tutelato, posto che la coltivazione era destinata all’uso personale. Si evidenzia in ricorso come la soluzione interpretativa da ultimo adottata dalle Sezioni unite, presti il fianco a dubbi di costituzionalità per frizione con l’art. 3 della Carta costituzionale.

Si invoca inoltre l’applicazione dell’art. 5 cod. pen., per le stesse ragioni riportate nel ricorso del S..

Si sostiene ancora che erroneamente ed illogicamente la Corte di merito avrebbe escluso l’ipotesi della desistenza volontaria, posto che al momento in cui gli imputati erano stati sorpresi nell’intento di disfarsi delle piante, queste non erano giunte ad alcuna maturazione. In ogni caso, gli imputati hanno impedito l’evento e quindi il ricorrente dovrebbe soggiacere ad una pena ridotta.

Infine, si sostiene che illogicamente non è stata applicata la diminuzione ex art. 73, comma 7, T.U. stup., atteso che gli imputati si erano attivati per elidere le conseguenze dannose e pericolose del reato.
Motivi della decisione

1. I ricorsi sono infondati.

2. Quanto all’errore sul trattamento giuridico della condotta, invocato da entrambi i ricorrenti, va rilevato che, all’epoca dei fatti, vi era un’unica pronuncia nella giurisprudenza di legittimità nel senso della liceità della coltivazione per uso personale di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, a fronte di una giurisprudenza assolutamente costante di segno contrario.

Deve pertanto ribadirsi il principio di diritto, secondo cui l’esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa. In caso di giurisprudenza non conforme sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l’obbligo di astensione dall’intervento e dell’espletamento di qualsiasi, utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia (Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, dep. 24/06/2004, Giordano, Rv. 229060; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, dep. 21/04/2000, Del Cuore, Rv. 216561; Corte cost. n. 364 del 1988).

A ciò vai la pena aggiungere che sono stati gli stessi imputati nell’immediatezza dei fatti a giustificare l’estirpazione delle piante con il timore di essere "scoperti" a causa delle continue visite all’alloggio, dovute alla messa in vendita dell’immobile, così escludendo una loro incolpevole ignoranza della antigiuridicità della condotta di coltivazione in esame.

3. Del pari infondati sono i rilievi mossi da entrambi i ricorrenti con riferimento all’inoffensività della condotta. Deve a tal riguardo rilevarsi che dalle piante in sequestro è stata estratta sostanza stupefacente pari a grammi 2,177 di THC (il D.M. 11 aprile 2006 ha fissato la "dose media singola" di THC in 25 milligrammi).

Le Sezioni unite hanno ribadito che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti, che integra un tipico reato di pericolo presunto, può dirsi "inoffensiva" soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo, sicchè la "offensività" non ricorre se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, dep. 10/07/2008, Di Salvia, Rv.

239921).

4. Quanto alle dedotte frizioni della opzione ermeneutica seguita dalle Sezioni unite con la Carta costituzionale, deve ricordarsi che la Corte Costituzionale (sent. n. 360 del 1995) ha ritenuto non ravvisabile una disparità di trattamento nella scelta di incriminare penalmente la condotta di coltivazione cd. domestica, poichè detta condotta, diversamente dalla "detenzione", non è contraddistinta da un nesso di immediatezza con l’uso personale, "il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale" e che, inoltre, con riguardo alla coltivazione, la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi ("nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece nel caso della coltivazione non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicchè anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perchè come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione – l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili").

5. Infondato è anche il motivo di ricorso avanzato dal D.F. con cui si denuncia l’erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen..

Correttamente i giudici di merito hanno ritenuto il reato consumato al momento in cui i carabinieri accertarono l’esistenza di una piantagione di piante di marijuana nel giardino dell’abitazione in uso al S..

Pertanto, un volta consumato il reato, non può venire in considerazione la desistenza volontaria, che deve intervenire durante lo svolgimento del processo esecutivo del reato, quando cioè l’attività esecutiva non è ancora esaurita, così da impedirne il completamento.

Nè può essere ravvisato nel caso in esame il recesso attivo dell’agente, che – indipendentemente dalla quaestio iuris circa la sua compatibilità con un reato già compiutamente consumato – presuppone che l’agente si adoperi spontaneamente ed efficacemente per attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. Dalla sentenza impugnata si evince che la scelta dell’imputato di disfarsi delle piante fu dovuta a fattori esterni: come già detto in precedenza, lo stesso imputato ha dichiarato di essere stato avvisato dal coindagato della necessità di disfarsi delle piante a causa del rischio di essere scoperti in ragione delle continue visite all’abitazione.

6, Deve ritenersi infine infondato anche l’ultimo motivo di ricorso del D.F. relativo alla applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, T.U. stup..

Questa Suprema Corte ha più volte affermato che la norma di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 7, nel disporre che la pena è diminuita per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti, intende dire che il contributo dell’imputato deve avere una duplice valenza. L’agente si deve, cioè, attivare, dar da fare concretamente, svelando ad esempio dove, eventualmente, nasconda ulteriori quantitativi di sostanza stupefacente e il nome di eventuali correi che, in possesso della droga, si accingano a rivenderla, sollecitando, se del caso, le opportune indagini, qualora ritenga che gli elementi offerti non siano stati sfruttati, elaborati come ci si poteva attendere. L’imputato deve in più, avendo l’avverbio "anche" indubbio valore aggiuntivo, fare conoscere il nome del proprio o dei propri fornitori in modo tale che l’autorità sia in grado di rendere indisponibile per il mercato risorse, o di denaro o di sostanza stupefacente, necessarie per la commissione dei delitti.

In definitiva, rileva solo un comportamento che dia luogo ad un contributo proficuo e concreto che conduca a risultati apprezzabili per l’interruzione dell’attività delittuosa o per la sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

Alla stregua di tali principi, correttamente i giudici del merito hanno escluso tale attenuante, rilevando che il tentativo di disfacimento delle piante non aveva avuto alcun ruolo rilevante ai fini della neutralizzazione dell’attività criminosa, posto che la polizia giudiziaria avrebbe potuto interrompere l’attività criminosa indipendentemente dalla condotta dell’imputato.

7. Conclusivamente, per le ragioni esposte, i ricorsi devono essere rigettati e condannati i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *