Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-01-2011) 23-02-2011, n. 6958 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con decreto in data 2.5.2007, il G.I.P. del Tribunale di Palermo disponeva il sequestro preventivo dei beni nei confronti, fra gli altri, di G.U. fino all’equivalente di Euro 545.217.86, di D.G. fino all’equivalente di Euro 93.094.33, di S.C. fino all’equivalente di Euro 30.286.84, di P.F. fino all’equivalente di Euro 50.789.37, in misura corrispondente all’ammontare dei tributi oggetto degli sgravi a ciascuno contestati sub specie del delitto di frode informatica, "in considerazione dell’avvenuta contestazione a tutti gli indagati della fattispecie di cui all’art. 640 ter c.p., nonchè dell’espresso richiamo formulato dall’art. 640 quater c.p. all’art. 322 ter".

Con sentenza del 21.4.2008, il Tribunale di Palermo applicava ai predetti imputati la pena concordata e disponeva il dissequestro degli immobili sequestrati nei confronti dei predetti con il richiamato decreto del g.i.p. in data 2.5.2007 sul rilievo che, "come si desumeva dalla motivazione del decreto di sequestro emesso dal G.I.P. e dai limiti di valore per equivalente di volta in volta indicati per l’imposizione del vincolo reale, il detto provvedimento di sequestro preventivo era stato adottato con esclusivo riferimento al reato di cui all’art. 640 ter c.p. (frode informatica);

che era sufficiente osservare che a norma dell’art. 640 quater c.p., la confisca prevista dall’art. 322 ter c.p. si applicava – per quanto qui interessa – nel caso di condanna o di applicazione della pena per il delitto di cui all’art. 649 ter c.p., comma 2 ad eccezione tuttavia della ipotesi in cui, come nel caso di specie, forma oggetto della contestazione anche la circostanza aggravante dell’avere commesso il fatto con abuso della qualità di operatore di sistema".

Avverso la statuizione di restituzione dei beni il P.M. proponeva ricorso per cassazione.

Questa Corte, con sentenza n. 8755/2009 riv 243238, annullava la sentenza nella parte in cui non aveva disposto la confisca del profitto, rinviando per nuovo esame al Tribunale, ed affermando il principio di diritto secondo cui la confisca doveva essere obbligatoriamente disposta con riferimento al prezzo e al profitto del reato, "in costanza della contestata e ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1 (in danno di ente pubblico-Agenzia delle Entrate)" ferma restando la necessità per il giudice del rinvio di quantificarne l’ammontare "in rapporto a soggetti interessati alla vicenda e raggiunti dalla impugnata decisione del Tribunale palermitano ex art. 444 c.p.p.".

All’esito del giudizio di rinvio, il Tribunale di Palermo, con sentenza del 14/04/2010, disponeva la confisca dei beni sequestrati nei confronti dei suddetti imputati per un valore pari ad Euro 134.000,00 per G. – Euro 30.286,84 per la S. – Euro 93.094,33 per il D. – Euro 50.789,37 per il P..

Rilevava il Tribunale che, stante il limitato oggetto del giudizio di rinvio, in aderenza al principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione, la confisca doveva essere obbligatoriamente disposta con riferimento al prezzo ed al profitto atteso che il reato di cui all’art. 640 ter c.p. contestato agli imputati, era aggravato non solo ai sensi del capoverso dello stesso art. 640 ter (in quanto commesso con abuso della qualità di operatore di sistema, circostanza che avrebbe impedito la confisca per equivalente ai sensi dell’art. 640 quater c.p.) ma anche ai sensi del capoverso dell’art. 640 c.p..

Infatti, laddove il reato di frode informatica sia commesso ai danni dello Stato o di altro ente pubblico "scatta il coinvolgimento dell’intero richiamo all’art. 640 c.p., comma 2 come operato dal tenore dell’art. 640 ter c.p., comma 2".

Quanto alle singole posizioni degli imputati, il Tribunale, osservava quanto segue.

G., rispondeva di due episodi di corruzione per i quali aveva ricevuto una somma complessiva di Euro 134.000,00.

Essendo emerso che le condotte illecite furono "ricompensate con le sole dazioni di denaro da qualificare come prezzo del reato" a quest’ultimo, pari ad Euro 134.000,00 andava ragguagliata la confisca per equivalente.

Quindi, in sostanza, per il G., la confisca veniva disposta, per equivalente, solo per il prezzo del reato di corruzione e non invece anche per il profitto derivante dal concorso nei reati di truffa in quanto le indagini non avevano evidenziato "la realizzazione in capo al G. di un profitto dipendente dal concorso nei reati di truffa".

Nei confronti degli altri imputati ( S. – D. – P.), invece, la confisca per equivalente andava ragguagliata all’ammontare degli sgravi illecitamente conseguiti.

Infatti, la circostanza "che la Amministrazione abbia, dopo la consumazione dei reati, cercato di "correre ai ripari", provvedendo alla reiscrizione dei tributi illegittimamente oggetto di sgravio, non può esplicare alcuna influenza sulla configurazione dei reati e, correlativamente, sulla quantificazione del danno e del profitto da reato, che va identificato con riferimento al momento consumativo".

Nessuna influenza, poteva avere la pronuncia assolutoria della Corte dei Conti nei confronti di altro imputato per fatti analoghi, per mancanza del danno erariale, trattandosi di pronuncia basata su parametri diversi da quelli che operano in sede penale.

Pertanto, nei confronti degli altri imputati, la confisca – per equivalente – veniva disposta relativamente al profitto conseguito dai medesimi in ordine ai reati di truffa e frode informatica ex combinato disposto degli artt. 640 ter – 640 quater – 322 ter c.p..

In ordine al quantum il Tribunale osservava che, non essendo state accertate le modalità di ripartizione del profitto corrispondente all’ammontare complessivo degli sgravi tra il consulente ed il gruppo di contribuenti (non indagati) beneficiari finali degli sgravi, l’ammontare del profitto del reato attribuito a ciascuno dei consulenti fiscali doveva corrispondere all’ammontare complessivo degli sgravi che per il tramite di ciascuno di essi il rispettivo gruppo di contribuenti aveva ottenuto: sul punto, andavano, infatti, condivise le osservazioni di cui alla sentenza n 16669/2009 della Corte di Cassazione che, pronunciata nell’ambito dello stesso procedimento (nei confronti della S.), aveva stabilito che la confisca per equivalente andava commisurata anche al profitto conseguito da terzi.

Di conseguenza, la S., il D. ed il P. dovevano rispondere per avere fatto ottenere sgravi ai propri clienti/contribuenti rispettivamente per complessivi Euro 30.286,84, Euro 93.094,33, Euro 50.789,37. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

2.1. G., in proprio, ha dedotto i seguenti motivi:

1. mancanza di motivazione in ordine alla disposta confisca nonchè alla tesi difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni.

Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata, nonostante fosse stata provata la legittima provenienza dei beni sottoposti a sequestro, non aveva motivato sulle ragioni per le quali i suddetti beni andavano confiscati.

2. Erronea applicazione degli artt. 322 ter e 240 c.p., atteso che il Tribunale aveva erroneamente interpretato "l’art. 322 ter c.p. riguardo l’effettivo profitto e prezzo del reato cui ero chiamato a rispondere giudizialmente, visto e considerato che gli stessi non sono mai stati rinvenuti nella loro materialità".

Secondo il ricorrente il Tribunale non aveva accertato e stabilito "quando il bene ottenuto merce l’immediato reimpiego del vantaggio ottenuto, sia a sua volta qualificabile come profitto e, quindi, confiscabile".

Ad avviso del ricorrente "qualora il prezzo del reato non venga rinvenuto nella sua materialità, come nel caso di specie, non si potrà mai ottenere la relativa pronuncia di confisca per equivalente". 2.2. P., a mezzo del proprio difensore, ha dedotto Mancanza di motivazione in ordine alla tesi difensiva secondo la quale "gli importi da considerare con riferimento alla posizione dell’imputato si erano sensibilmente ridotti a seguito dell’avvenuto pagamento degli importi illegittimamente sgravati a L.S. (Euro 9.220,73), Pa.St. (Euro 2.096,87), Pa.

M. (Euro 9.942,81) come risulta dalla documentazione allegata".

Il Tribunale, inoltre, non aveva considerato che l’intero importo del danno/profitto del reato era in riscossione coattiva da parte dell’Agenzia delle Entrate a seguito della reiscrizione a ruolo delle voci sgravate.

Secondo il ricorrente "la scelta di utilizzare la voce di danno come parametro del profitto sulla cui base determinare il valore "equivalente" dei beni da sequestrare e confiscare all’imputato" ha determinato "l’incertezza assoluta sul quantum della confisca che invece richiede parametri più concreti e certi". 2.3. S., in proprio, ha dedotto motivazione Contraddittoria ed erronea applicazione della legge penale.

Ad avviso della ricorrente non è condivisibile la tesi del Tribunale, secondo il quale per disporre la confisca era sufficiente la condotta di chi procura illecitamente ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, in quanto elemento costitutivo del reato di cui all’art. 640 ter c.p. è il profitto altrui.

Con la conseguenza che andavano confiscati i beni che costituivano il profitto del delitto anche se appartenenti all’imputato che non aveva perseguito e conseguito alcun profitto essendo stato lo stesso percepito direttamente e materialmente dal terzo non transitando neppure attraverso l’imputato.

Doveva ritenersi, invece, preferibile la tesi secondo la quale non poteva essere disposta a confisca il bene di chi, pur avendo partecipato al reato, non avesse conseguito dalla sua condotta illecita, alcuna profitto o alcun beneficio di qualsiasi carattere.

Nel caso di specie, poi, era stato dimostrato come neppure i terzi avessero conseguito alcun profitto atteso che l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto a reiscrivere al ruolo le somme corrispondenti agli sgravi falsamente disposti.

La tesi del Tribunale secondo il quale ci si trovava di fronte ad post factum come tale irrilevante, non poteva essere condivisa dal momento che, non essendosi mai estinta l’obbligazione ed avendo potuto l’Agenzia dell’Entrate reiscrivere a ruolo le somme dovute, la medesima non aveva mai perso il diritto alla esazione del credito.

Inoltre, il Tribunale non aveva considerato che, con il disporre la confisca, si era verificato un illecito arricchimento da parte dello Stato che verrebbe a percepire le somme che erano oggetto del fittizio sgravio fiscale e dall’imputata e dal contribuente effettivamente tenuto al pagamento e dal soggetto dipendente dell’Agenzia delle Entrate che, con la manomissione del sistema informatico, aveva provveduto ad operare i falsi sgravi.

Il Tribunale, poi, non aveva tenuto conto che la Corte dei Conti, in un caso analogo, aveva ritenuto l’insussistenza di alcun danno erariale proprio perchè era stato possibile, da parte dell’Agenzia delle Entrate, emettere le cartelle esattoriali.

Neppure condivisibile poteva ritenersi la conclusione del Tribunale secondo il quale il danno ed il profitto del reato coincidono con il momento consumativo atteso che nei reati di truffa e frode informatica i momenti consumativi sono diversi e si realizzano in ogni caso laddove viene ad accertarsi l’effettivo verificarsi dell’altrui danno con l’ingiusto profitto o dell’agente o del beneficiario, momenti che non possono essere coincidenti in quanto il momento consumativo coincide con il danno altrui che, nella fattispecie, non si è mai verificato.

La sentenza, inoltre, non era condivisibile nella parte in cui aveva affermato che gli imputati non avevano messo in discussione l’elemento strutturale del reato: infatti, la sentenza di applicazione della pena non deve considerarsi sentenza di condanna ma mezzo per la sollecita definizione di un procedimento nel quale le parti non hanno alcun potere di entrare nel merito.

2.4. D., in proprio, ha dedotto Violazione di legge e mancanza di motivazione.

Sostiene il ricorrente che "la mera contestazione di reato che individua l’ingiusto profitto nella cifra di Euro 93.094,33 non può pregiudicare una concreta verifica che accerti la sussistenza di un effettivo conseguimento da parte dei contribuenti o dell’autore del reato del profitto stesso".

Ad avviso del ricorrente "la valutazione che la sentenza avrebbe dovuto compiere attiene alla individuazione di un effettivo profitto economico che, costituisce presupposto indispensabile e necessario per procedere alla confisca per equivalente".

Sennonchè la sentenza aveva "omesso di valutare come la circostanza inerente la reiscrizione a ruolo da parte della P.A. delle somme dovute, ha escluso la sussistenza del presupposto giuridico per potere procedere a confisca ovvero l’effettivo realizzarsi di un illecito profitto", proprio perchè la reiscrizione a ruolo aveva impedito che si concretizzasse alcun danno nei confronti della P.A. come ritenuto anche dalla Corte dei Conti in un caso simile.

Opinando diversamente si realizzerebbe un ingiustificato arricchimento senza causa della P.A. che vedrebbe recuperata la somma equivalente allo sgravio per tre volte: una prima volta nei confronti dei singoli debitori a seguito della reiscrizione a ruolo; una seconda volta attraverso la confisca dei beni del consulente fiscale ( D.) per un importo equivalente agli sgravi illecitamente ottenuti; una terza volta con la confisca dei beni del dipendente dell’Agenzia delle Entrate che aveva operato materialmente i suddetti sgravi.
Motivi della decisione

3. G..

Il ricorso proposto dal G. è infondato.

Il ricorrente, infatti, con due motivi in pratica sovrapponibili, deduce una doglianza decisamente fuorviante rispetto alla ratio decidendi.

Il Tribunale, come si è detto, ha disposto la confisca per equivalente, di beni il cui importo ammonta al prezzo della corruzione quantificato in Euro 134.000,00.

La ratio delle disposizioni normative che hanno previsto la confisca per equivalente consiste proprio nel colpire comunque il pubblico dipendente infedele che, compiendo un atto contrario ai propri doveri di ufficio, ne abbia tratto un lucro.

E’ ovvio, infatti, che se il prezzo della corruzione viene rintracciato, è questo che è sottoposto a sequestro e a confisca.

Ma, se, come nel caso di specie, il prezzo non viene rinvenuto (non peraltro perchè il denaro è un bene facilmente occultabile) allora la legge ha previsto, appunto, la confisca per equivalente ossia la confisca di beni pari al valore del prezzo della corruzione essendo del tutto irrilevante che quei beni siano stati legittimamente acquisiti proprio perchè la ratio legis è quella di privare l’imputato di beni che abbiano il valore del prezzo della corruzione in conformità al principio secondo il quale "il crimine non paga".

Si tratta di un meccanismo il cui scopo è proprio quello di dissuadere i pubblici dipendenti dal commettere il reato di corruzione proprio perchè, anche se riescono ad occultare il prezzo ricevuto dal corruttore, il loro patrimonio sarà comunque privato di quel valore frustrando, quindi, il motivo (vantaggio economico) che li aveva spinti a delinquere.

4. P..

Con istanza depositata il 18/01/2011, il suddetto imputato, ha dichiarato di rinunciare al ricorso che, pertanto, ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d), va dichiarato inammissibile.

5. S. – D..

Come risulta dai motivi di ricorsi, tutti e due gli imputati, sostanzialmente sviluppano la stessa linea difensiva consistente nell’osservazione secondo la quale, poichè la P.A., non avrebbe subito alcun danno dal loro comportamento, allora la disposta confisca sarebbe illegittima.

Sul punto, occorre premettere i principi di diritto ai quali attenersi.

5.1. Innanzitutto, "il sequestro preventivo funzionale alla confisca, prevista dal combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater c.p., è applicabile anche al reato di frode informatica aggravato per essere stato il fatto commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, se tale aggravante concorre con quella prevista dall’art. 640 c.p., comma 2, n. 1)": tale principio di diritto è stato pronunciato proprio da questa Corte nella citata sentenza di annullamento n. 8755/2009 e, pertanto, non può più essere rimesso in discussione.

5.2. In secondo luogo, la confisca è stata disposta relativamente al profitto che i ricorrenti hanno tratto dalla consumazione del reato di cui all’art. 640 ter c.p..

A tal proposito, premesso che per profitto deve intendersi il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato (ex plurimis SSUU 26654/2008), la questione giuridica più rilevante consiste nello stabilire se il profitto del reato sia solo quello di cui si sia giovato uno dei concorrenti del reato ovvero anche uno qualsiasi dei concorrenti che, in ipotesi, non abbia tratto alcun vantaggio diretto ed immediato dalla commissione del reato.

La questione è importante perchè, ove si propendesse per la prima soluzione, i ricorrenti – benchè concorrenti nel reato di frode informatica – sfuggirebbero alla confisca in quanto ad essersi avvantaggiati del reato furono i loro clienti e, quindi, solo nei confronti di costoro andrebbe disposta la confisca.

Sennonchè, tale tesi – riproposta variamente da tutti i ricorrenti – dev’essere disattesa.

Sul punto, infatti, questa Corte – con sentenza n. 16669/2009 riv 243534 – si è già pronunciata proprio nella vicenda per cui è processo (ed esattamente su ricorso della S. avverso l’ordinanza del 22/09/2008 del Tribunale di Palermo) ed ha affermato il seguente principio di diritto: "deve ritenersi sempre legittima la confisca dei beni di cui ha disponibilità l’autore di condotte sussumibili nell’art. 640 ter c.p. (e quindi legittimo il sequestro preventivo di tali beni, ad essa finalizzata) fino a concorrenza di un valore corrispondente al profitto, proprio, di concorrenti o di terzi, conseguito con tali condotte".

Alla suddetta decisione va data continuità in quanto, nella struttura materiale del reato di truffa (e di quello di frode informatica che ha la stessa struttura normativa e semantica), l’elemento dell’ingiusto profitto si realizza in capo a "chiunque" lo "procura a sè o ad altri con altrui danno": quindi, l’agente ("chiunque") risponde del profitto non solo quando lo procuri a sè ma anche quando lo procuri ad altri, restando del tutto irrilevante che "l’altro" sia stato o meno partecipe del reato.

In secondo luogo, poichè la struttura della fattispecie ex art. 640 ter c.p. è del tutto diversa da quella dei reati considerati nell’art. 322 ter c.p., comma 1, il richiamo che l’art. 640 quater opera all’art. 322 ter c.p., deve intendersi riferito all’ipotesi del capoverso, nella quale l’autore del reato risponde comunque con i propri beni per un valore corrispondente a quello del profitto, prescindendo dall’estraneità dei terzi al reato.

Sulla base di quanto detto, ne consegue che i ricorrenti rispondono del profitto procurato ad altri (nella specie i loro clienti) anche se, in ipotesi, come sostengono, non abbiano tratto alcun profitto diretto ed immediato dal reato perpetrato a vantaggio dei loro clienti.

5.3. Quanto al danno, ossia l’ulteriore elemento materiale richiesto dalla norma incriminatrice, va osservato quanto segue.

Il reato di frode informatica si consuma nel momento in cui il pubblico dipendente infedele interviene, senza averne alcun titolo, sui dati del sistema informatico alterandone, quindi, il funzionamento.

Ciò significa che, nel caso di specie, il reato si consumò nel momento in cui il G., accedendo illegittimamente al sistema informatico, vi inserì sgravi fiscali inesistenti che, traendo in inganno la P.A., comportarono un ingiusto profitto nei confronti dei contribuenti (rectius: clienti dei ricorrenti).

Fu in quel momento, quindi, che si verificò il danno alla P.A..

La circostanza che, successivamente, la frode venne scoperta e, quindi, la P.A., potette ricorrere ai ripari reiscrivendo a ruolo le somme dovute, è null’altro che un post factum che non sposta minimamente i termini della questione nel senso che non è un elemento che può far venir meno il reato commesso (relegandolo a mero tentativo) e, quindi, il danno provocato.

Altrettanto irrilevante è la circostanza che la Corte dei Conti, in un caso simile, abbia ritenuto che non vi sia stato danno erariale perchè si tratta di una decisione che risponde ad una logica giuridica e fattuale del tutto diversa da quella penalistica, senza contare il fatto che, come ha rilevato il Tribunale "la suddetta sentenza individua comunque un danno nei costi amministrativi di reiscrizione dei tributi oggetto di sgravi illegittimi (non considerando peraltro il danno conseguente alla eventuale dispersione delle garanzie patrimoniali dei soggetti debitori) e rileva tuttavia un difetto di contestazione di tale voce di danno".

Fuorviante, infine, è l’osservazione secondo la quale opinando diversamente si realizzerebbe un ingiustificato arricchimento senza causa della P.A. che vedrebbe recuperata la somma equivalente allo sgravio per tre volte: una prima volta nei confronti dei singoli debitori a seguito della reiscrizione a ruolo; una seconda volta attraverso la confisca dei beni del consulente fiscale ( D.) per un importo equivalente agli sgravi illecitamente ottenuti; una terza volta con la confisca dei beni del dipendente dell’Agenzia delle Entrate che aveva operato materialmente i suddetti sgravi.

In realtà così non è perchè:

– la confisca nei confronti del G. va disposta in quanto prezzo del reato: quindi, è una confisca che non ha nulla a che vedere con il danno derivante dagli sgravi;

– la confisca nei confronti dei restanti ricorrenti, va disposta per il semplice fatto che dalla condotta criminosa è derivato un "profitto".

L’art. 322 ter c.p., infatti, richiede solo la configurabilità del profitto e non anche del danno del soggetto passivo (nella specie la P.A.) che, pertanto resta un elemento del tutto estraneo alla struttura della confisca, non peraltro perchè la medesima è, dal punto di vista dogmatico, una vera e propria sanzione accessoria (in terminis SSUU 26654/2008 – SSUU 38691/2009) che l’ordinamento commina al reo per il semplice fatto di avere commesso un determinato reato dal quale sia conseguito un profitto, sanzione che trova la sua giustificazione nell’esigenza di privare il reo dell’utilità ricavata dal reato.

5.4. Problema diverso è la quantificazione del profitto.

Il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato, una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito.

A tal proposito, utili indicazioni possono trarsi dalla giurisprudenza di questa Corte (SSUU 26654/2008) che ha distinto fra reato contratto (ipotesi che si verifica quando la legge qualifica come reato unicamente la stipula del contratto) e reati in contratto (fattispecie che si verifica quando il comportamento penalmente rilevante si attua non nella fase della stipula del contratto ma durante l’esecuzione del programma negoziale).

Nel primo caso (reato contratto) si verifica una immedesimazione del reato con il negozio giuridico sicchè, essendo quest’ultimo integralmente illecito, il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della illiceità ed è pertanto assoggettabile a confisca.

Nel secondo caso (reato in contratto), invece, si devono enucleare gli aspetti leciti (vantaggi non confiscabili) da quelli illeciti (vantaggi confiscabili).

Ora, volendo sfruttare la suddetta giurisprudenza, è chiaro che la decisione del Tribunale sarebbe censurabile ove fosse ipotizzabile e provato che una parte o addirittura tutto il profitto conseguito a seguito del reato di frode informatica, fosse lecito.

Sennonchè, nel caso di specie, è del tutto evidente che, vertendosi in un’ipotesi di pactum sceleris (fra G. ed i restanti ricorrenti) radicalmente illecito a monte, il profitto non può che coincidere, come correttamente rilevato dal Tribunale, con il vantaggio che i clienti dei ricorrenti conseguirono a seguito degli illeciti sgravi, profitto però, che va ritenuto, proprio perchè derivante da un comportamento radicalmente delittuoso, totalmente illecito.

Il fatto che, sotto il profilo fattuale, l’importo dei suddetti sgravi coincida con il danno subito dalla P.A. è circostanza casuale ed irrilevante proprio perchè, come si è detto, ai fini della confisca, ciò che rileva è solo il profitto illecito e non anche il danno.

Pertanto, la decisione del Tribunale, di parametrare il vantaggio ("l’ingiusto profitto") al danno subito dalla P.A., non si presta ad alcuna censura avendo correttamente individuato, sotto il profilo fattuale e giuridico, l’illecito profitto nell’importo degli sgravi illecitamente ottenuti, sicchè diventa del tutto ininfluente, ai fini del quantum, accertare se quell’importo coincida – in più o in meno – anche con "l’altrui danno".

D’altra parte, non è neppure proponibile distinguere, all’interno di quell’illecito profitto, una parte lecita e, quindi, non confiscabile, non peraltro perchè nessuno dei ricorrenti, anche sotto il solo profilo fattuale, ha lontanamente prospettato che una parte del profitto conseguito dai propri clienti fosse lecito e, quindi non confiscabile, avendo, al contrario, come si è detto, concentrato la critica sul danno che la P.A. non avrebbe subito, elemento però estraneo alla configurabilità della confisca.

6. In conclusione, l’impugnazione del P. deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 500,00.

Le impugnazioni di G., D. e S. vanno, invece, rigettate con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

RIGETTA i ricorsi di G.U., S.C. e D.G. che condanna al pagamento delle spese processuali.

DICHIARA Inammissibile il ricorso di P.F. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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