Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-01-2011) 23-02-2011, n. 6918 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Con sentenza del 6/04/2010, la Corte di Appello di Roma, pur riducendo la pena, confermava la sentenza pronunciata in data 7/05/2009 con la quale il g.u.p. del Tribunale di Latina aveva ritenuto R.A. responsabile del delitto di usura continuata. p. 2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. Contraddittorietà ed illogicità della sentenza per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilità del ricorrente valorizzando, da un lato, sotto il profilo probatorio, le dichiarazioni delle persone offese e, dall’altro, evidenziato, nella stessa motivazione, una evidente carenza di elementi fattuali ed una considerevole imprecisione delle dichiarazioni rilasciate dalle stesse parti lese, "salvo, poi, ritenerle sufficienti ad orientare il giudizio tecnico espresso dal consulente del p.m. in esito al quale è stato riscontrato il tasso usurario". Rileva, in proposito il ricorrente che "la ricostruzione di qualsivoglia rapporto finanziario, debba essere supportata da elementi certi, quali il nome dell’erogante ammontare erogato, ammontare da restituire, interesse effettivo annuo o mensile, data dell’erogazione, nome del richiedente il prestito, garanzia richiesta, nome del beneficiario, modalità di erogazione, modalità del rimborso e durata dello stesso". Poichè nel caso di specie, tutti i suddetti dati erano mancanti, non si poteva dar credito alla Ct del P.m. tanto più che la Corte non aveva sottoposto le dichiarazioni delle parti offese ad un particolare vaglio sulla loro attendibilità. 2. Violazione dell’art. 644 c.p. nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui al comma 5, n. 4 non avendo addotto alcuna motivazione circa l’asserita attività imprenditoriale dei soggetti passivi;

3. Violazione dell’art. 629 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto che nel comportamento tenuto dal ricorrente nei confronti delle parti offese L. e D. fosse ravvisabile il reato di estorsione e non quello di cui all’art. 610 c.p., attesa l’assoluta carenza dell’elemento costitutivo della finalità lucrativa essendo il suddetto comportamento finalizzato unicamente alla semplice restituzione di quanto in precedenza erogato sotto forma di prestito.
Motivi della decisione

p. 3. Contraddittorietà ed illogicità della sentenza (motivo sub 1): la censura è manifestamente infondata.

La questione dedotta nel presente ricorso, è stata oggetto di uno specifico motivo di gravame che la Corte territoriale ha, però, respinto osservando che le dichiarazioni rese dalle parti offese dovevano ritenersi pienamente attendibili sia intrinsecamente (essendo risultate "attente e precise circa i tempi e le modalità" di erogazione dei prestiti) sia estrinsecamente (essendo state confermate da riscontri documentali e dai risultati della Ct contabile). A tal ultimo proposito, la Corte territoriale, confutando la doglianza in ordine alla suddetta Ct, ha condiviso le conclusioni alle quali era giunto il Tribunale, il quale si era soffermato "con analitica precisione sull’entità del prestito, sulle modalità di restituzione e sui tassi praticati, fornendo quindi adeguata motivazione alla propria decisione. D’altra parte non può essere oggetto di doglianza il fatto che, per ricostruire la vicenda dal punto di vista contabile, il consulente si sia basato sulle dichiarazioni delle parti lese in quanto in tal tipo di reato quello e non altro può essere il dato di partenza; in ogni caso il calcolo degli interessi risulta effettuato con criteri matematico contabili assolutamente ineccepibili". In questa sede, il ricorrente ha riproposto, negli stessi termini, la questione, deducendo una pretesa illogicità e contraddittorietà della motivazione. Sennonchè si deve ribattere che: a) le dichiarazioni delle parti lese sono state ritenute attendibili dopo che le medesime erano state sottoposte al vaglio di attendibilità estrinseca ed intrinseca con ragionamento logico ed immune da censure; b) l’usuranetà dei prestiti era stata desunta dalla svolta Ct contabile che la Corte ha ritenuto attendibile non solo perchè basata su criteri matematico contabili ineccepibili, ma anche perchè fondata sulle dichiarazioni delle parti lese che, per quanto detto, dovevano ritenersi attendibili.

Tanto basta per ritenere manifestamente infondata la censura tanto più che la Corte territoriale ha chiarito e spiegato che alcune discrasie fra quanto riferito dalle parti offese e i dati della consulenza erano "ampiamente giustificate dall’indubbia complessità delle vicenda sul piano contabile e dal tempo trascorso tra i fatti e le deposizioni". D’altra parte, non ha spiegato il ricorrente in che misura la pretesa contraddittorietà minasse alla base la motivazione tanto da far ritenere che gli interessi richiesti non fossero usurari: il che rende la censura generica. p. 4. Violazione dell’art. 644 c.p. (motivo sub 2): da un controllo dell’atto di appello è risultato che l’appellante non aveva dedotto, sul punto, alcuno specifico motivo di gravame. Infatti, con il motivo sub 2 dell’atto di appello, l’appellante si doleva dell’aggravante di cui all’art. 644 c.p., comma 5, n. 3 (stato di bisogno) che la Corte territoriale ha preso in esame accogliendo il gravame. La Corte, quindi, correttamente, non si è pronunciata su un punto che non era stato oggetto di gravame. p. 5. Violazione dell’art. 629 c.p. (motivo sub 3): in ordine alla suddetta doglianza, la Corte territoriale ha scritto che il R., con l’atteggiamento intimidatorio, intendeva costringere le vittime "non genericamente a fare o tollerare qualcosa ma a restituire somme illegittimamente pretese in quanto consistenti in interessi usurari":

neh consiste l’ingiusto profitto di cui al reato di estorsione. Sul punto va, infatti, osservato quanto segue. L’estorsione e l’usura, essendo reati ontologicamente diversi ben possono concorrere, ove ne sussistano i presupposti di fatto, con la seguente precisazione. Ove la violenza o minaccia venga commessa al momento della "prestazione di denaro o altra utilità" al fine di ottenere "interessi o altri vantaggi usurari", è del tutto intuitivo che l’unico reato ipotizzatale è quello di estorsione per la semplice ragione che la legge non prevede come reato la dazione della "prestazione di denaro o altra utilità" ma solo la dazione o promessa, del tutto "spontanea" (quindi senza alcuna coercizione) di "interessi o altri vantaggi usurari". Di conseguenza, ove la suddetta dazione o promessa venga ottenuta con violenza o minaccia, l’agente compie solo delitto di estorsione perchè procura a sè un ingiusto profitto consistente nell’ottenere un vantaggio (interessi usurari) vietato dalla legge.

Il che impedisce di ravvisare nella suddetta condotta sia il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (non potendo, chiaramente, l’agente ricorrere al giudice per esercitare l’inesistente diritto ad ottenere interessi o vantaggi usurari), sia il semplice reato di minaccia (in quanto l’agente non si limita a minacciare un danno ingiusto ma esercita la minaccia per ottenere un ingiusto profitto), sia il reato di violenza privata (secondo costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, il delitto di estorsione costituisce ipotesi speciale rispetto al delitto di violenza privata, fungendo da elementi specializzanti, oltre al conseguimento di un ingiusto profitto, il correlativo danno per la persona offesa: ex plurimis Cass. 1, 10/6/1997, Nicosia – Cass. 1, 3/11/2005, Calabrese). Ove, invece, la violenza o minaccia venga esercitata in un momento successivo al patto, al fine di ottenere i pattuiti "interessi o altri vantaggi usurari" che il soggetto passivo non può o non vuole più corrispondere, i reati che l’agente commette sono due e concorrono: il primo, quello di usura che è in itinere (essendo già iniziato nel momento della stipula del patto usurario), il secondo, quello di estorsione, che si consuma nel momento in cui l’agente esercita nei confronti del soggetto passivo, violenza o minaccia per conseguire, appunto, "interessi o altri vantaggi usurari", ossia un ingiusto profitto. Deve, quindi, sul punto, darsi continuità alla giurisprudenza di questa Corte che, con sentenza n. 41045/2000, ha appunto, ritenuto l’ammissibilità giuridica del concorso fra usura ed estorsione: in terminis Cass. Sez. 2, 14/01/2009, Durdevic. p. 6. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

DICHIARA Inammissibile il ricorso e CONDANNA Il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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