Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-01-2011) 23-02-2011, n. 6907

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza dell’11 marzo 2010, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza emessa il 14 febbraio 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con la quale T. A. era stato condannato alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione ed Euro 400,00 di multa, quale imputato del delitto di tentata estorsione.

Propone ricorso per Cassazione l’imputato il quale lamenta che la Corte avrebbe trascurato di valutare le doglianze relative alla carenza di elementi atti ad asseverare la consapevolezza della ingiustizia del profitto perseguito dal mandante D. e, conseguentemente, anche la possibilità di ricondurre il fatto nel perimetro dell’art. 393 c.p.. Si lamenta, poi, che la sentenza non abbia motivato in ordine alla richiesta – formulata nei motivi di appello – relativa alla applicazione della attenuante di cui all’art. 114 c.p., essendosi la Corte limitata a valutare la oggettiva gravità della condotta e la adeguatezza del trattamento sanzionatorio applicato in primo grado.

Il ricorso è infondato. Alla stregua della puntuale ricostruzione della vicenda dalla quale hanno tratto origine gli addebiti elevati nei confronti dell’odierno ricorrente, offerta dalle sentenze dei giudici del merito, emerge all’evidenza la ontologica implausibilità di una condotta riconducibile all’interno della sfera della fattispecie descritta dall’art. 393 c.p., non soltanto perchè, al di là di quanto soggettivamente assume il ricorrente, non è emersa in alcun modo nè la obiettiva sussistenza di un preteso diritto azionabile da parte del "committente" della condotta delittuosa, nè che all’imputato un siffatto quadro normativo fosse stato lumeggiato o quanto meno ragionevolmente lasciato supporre. In ogni caso, è dirimente rilevare che nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi, in tal caso, il delitto di estorsione. La punibilità della condotta a titolo di "ragion fattasi" sta, infatti – come è denotata, infatti, dalla collocazione della norma nel novero dei delitti contro l’amministrazione della giustizia – nella indebita surrogazione del privato nell’esercizio di una funzione giurisdizionale, operando, come mezzi antigiuridici, in luogo del giudice, così da offendere il principio di legalità che deve assistere l’esercizio di un diritto.

Ove, invece, l’uso dei mezzi antigiuridici risulti obiettivamente eccedente quel fine meramente "surrogatorio" di cui si è detto, risulta automaticamente eliso il nesso finalistico che sta alla base della ratio di minor punibilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, riconducendo il fatto -ove ne ricorrano i relativi presupposti – nell’alveo degli ordinari delitti contro il patrimonio commessi con violenza o minaccia (cfr. al riguardo, Cass., Sez. 2, 26 giugno 2007, n. 35610; Cass., Sez. 2, 15 febbraio 2007, n. 14440). Quanto, poi, la mancata concessione della attenuante di cui all’art. 114 c.p., la stessa è stata coerentemente esclusa dai giudici dell’appello, sia pure attraverso il riferimento alla obiettiva gravità della condotta ascritta all’imputato, ontologicamente incompatibile con le caratteristiche che la condotta stessa deve presentare agli effetti della attenuante invocata.

Questa Corte ha infatti in più occasioni avuto modo di affermare che in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza richiede che l’opera del concorrente, pur causalmente rilevante, rivesta obiettivamente un valore marginale rispetto a quella degli altri concorrenti, con la conseguenza che il giudice, ai fini della relativa valutazione, non può applicare un criterio condizionalistico assoluto e ritenere l’attenuante solo se il fatto-reato, senza l’opera marginale del compartecipe, si sarebbe verificato ugualmente, pur se con diverse modalità, ma deve comparare i contributi dei vari concorrenti, svolgendo una valutazione intersoggettiva delle condotte di ciascuno (Cass., Sez. 4, 9 ottobre 2008, n. 1218). Scrutinio, questo, che i giudici dell’appello – in una con i rilievi sul punto svolti nella richiamata pronuncia di primo grado – hanno, sia pure in termini succinti, operato, reputando la condotta ascritta all’imputato non soltanto non marginale nella globale economia della vicenda, ma connotata, in sè, da specifici elementi di gravità.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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