T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 21-02-2011, n. 1589

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ricorso notificato in data 18 giugno 2010, depositato il successivo 23 giugno, l’associazione ricorrente impugna il provvedimento 11 maggio 2010 n. 52/2010/AE/AUT, con il quale la Commissione per le adozioni internazionali ha deliberato di revocare le autorizzazioni concessele, ai sensi dell’art. 39ter della legge sulle adozioni; di cancellarla dall’albo degli enti autorizzati e, infine, di prendere in carico direttamente le procedure di adozione pendenti relative alle coppie che le hanno conferito mandato.

La associazione premette di essere autorizzata fin dal 6 dicembre 1999 allo svolgimento delle pratiche d adozioni internazionali, di operare in quindici Paesi e di avere dal 2000 ad oggi concluso con esito positivo ben 853 procedure di adozione. Ciò nonosatante "dall’anno 2007 l’associazione ricorrente è oggetto di una moltitudine di contestazioni", fino alla emanazione di una comunicazione ex art. 10bis l. n. 241/1990, dalla quale si "evidenzia, nonostante l’atto sia molto generico, il chiaro intendimento della Commissione di revocare l’autorizzazione".

All’esito del procedimento è, infine, emanato il provvedimento impugnato con il presente ricorso, avverso il quale sono proposti i seguenti motivi:

violazione e falsa applicazione l. n. 184/1983 e DPR n. 492/1999; eccesso di potere per carenza dei presupposti di legge; per violazione del principio di proporzionalità; per ingiustizia manifesta; per manifesta illogicità; per contraddittorietà; per incongruità della motivazione; per difetto di istruttoria; per sviamento di potere;

ciò in quanto, preliminarmente, la "radiazione" dell’Associazione "per il suo carattere lesivo di diritti fondamentali garantiti dalla Carta Costituzionale… può essere giustificata soltanto laddove la condotta da sanzionare sia talmente grave da non poter essere punita in altro modo", di modo che le norme sanzionatorie applicate andrebbero interpretate in senso restrittivo e considerando il particolare e delicato contesto (nel caso di specie, quello delle adozioni internazionali), in cui il soggetto si trova ad operare. Peraltro, ai sensi dell’art. 39 l. n. 184/1983, l’autorizzazione può essere revocata solo "nei casi di gravi inadempienze, insufficienze e violazione delle norme della presente legge", laddove, nel caso di specie, i criteri di "gravità" e "pluralità" delle violazioni non sono in alcun modo riscontrabili.

In particolare, quanto ai nove profili su cui si fonda il provvedimento impugnato (che tutti insieme lo sorreggono, di modo che "la caduta di uno solo di essi (o, quantomeno, di qualcuno di essi) determina ex se la caduta dell’intero provvedimento", si osserva come "nessuno dei comportamenti contestati si ponga in contrasto con alcuno dei tre principi fondamentali sanciti dalla normativa", e cioè, quello del "superiore interesse del minore", quello di "sussidiarietà" (per il quale il minore non può essere avviato all’adozione se lo Stato d’origine non ha prima senza successo cercato un idoneo affidamento al proprio interno); infine quello della "cooperazione e competenza esclusiva delle Autorità centrali". Più specificamente, quanto ai predetti nove profili:

a) quanto ai due contratti stipulati con due direttori di istituti cambogiani, che prevedono l’esclusività della collaborazione e un numero minimo annuo di abbinamenti, "nessuna delle disposizioni che regolano la materia delle adozioni internazionali censura e sanziona… rapporti di esclusività o di previsione di un minimo garantito";

b) quanto al presunto contrasto della gestione patrimoniale dell’ente "sotto lo specifico profilo dell’assenza di scopo di lucro", va osservato che "le procedure di adozione sono fisiologicamente onerose per le spese materiali (che non costituiscono utile) che esse impongono"; né la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 4 marzo 2003 "ha portata precettiva, ma solo di indirizzo, pertanto non può ritenersi vincolante per l’ente", né ha portata retroattiva. In ogni caso, "i costi delle procedure sono sempre stati chiari e trasparenti", anche nei casi concreti considerati (v. pagg. 1720 ric. intr.);

c) quanto alle "presunte irregolarità, opacità e lacunosità della documentazione sociale e contabile dell’Ente", va rilevato che "l’associazione ha sempre puntualmente fornito tutti i bilanci", le "schede costi" mancati non sono circa 394, bensì solo 143 ("cosa ampiamente comprensibile, visto che esse riguardano oltre 10 anni di attività, 20002010, e che sono state richieste solo nel 2008"); né si può assumere, laddove vi sono costi inferiori alla tariffa, che di conseguenza vi sarebbero utili "in nero";

d) quanto al "presunto deterioramento del servizio offerto alle coppie della struttura professionale, dovuto anche al continuo avvicendamento dei collaboratori", si osserva che "nessuna norma impone agli enti autorizzati di essere vincolati a trattenere i collaboratori per un certo periodo di tempo";

e) quanto alla "presunta prassi dell’ente di operare numerosissimi e ricorrenti trasferimenti delle procedure da un Paese all’altro", tali trasferimenti "sono inferiori al 25% dei casi trattati, percentuale del tutto fisiologica in ragione delle particolari situazioni di difficoltà politicosociali di tali Paesi"; né è ammissibile un sindacato su quali siano i Paesi da "coltivare" più di altri;

f) quanto alla "presunta irregolarità e opacità del corpo sociale e degli organi direttivi, con accentramento dei poteri decisionali in capo ai familiari della Presidente", si rileva che "nessun requisito previsto dalla normativa impone una compagine sociale particolare o impone un necessario ricambio della carica apicale";

g) quanto al profilo contestato, di avere l’associazione "diffuso giudizi impropri su altri Enti e sull’operato della Commissione", non vi è "alcuna documentazione provante la diffusione di informazioni offensive", né sono documentati "i presunti giudizi negativi e le notizie diffamatorie diffuse dalla dott.ssa Azzacconi (presidente dell’associazione) sul conto della dirigenza della Commissione";

h) quanto alla "impropria strumentalizzazione delle coppie per forzare le decisioni della Commissione", si tratta di mere e generiche illazioni;

i) quanto alla inadeguatezza delle risposte alle richieste della Commissione, manifestata anche in occasione della verifica, si rileva la genericità della censura.

2. Con ricorso per motivi aggiunti (notificato il 30 settembre 2010, dep. il 1 ottobre 2010), l’Associazione impugna tutti i provvedimenti con i quali, successivamente all’emanazione del provvedimento di revoca dell’autorizzazione, la CAI ha disposto l’assegnazione delle coppie, già facenti carico all’Associazione ricorrente, ad altre associazioni operanti nel settore delle adozioni internazionali, deducendo:

a) illegittimità propria e diretta di tali provvedimenti, per violazione dei principi di buon andamento e imparzialità ( art. 3 e 97 Cost.); violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità; violazione dei principi di tutela della concorrenza; violazione art. 3 l. n. 241/1990; eccesso di potere per manifesta ingiustizia, per illogicità e contraddittorietà; per sviamento di potere; poiché "non aveva alcun senso… assegnare con urgenza le coppie ad altre associazioni", coppie che non potranno più tornare ad essere clienti dell’associazione, e così determinando "una lesione grave ed irreparabile anche alla regolarità (e celerità) delle procedure di adozione internazionale". Peraltro, violando i principi generali in materia di concorrenza, le nuove associazioni assegnatarie "sono state individuate in maniera del tutto arbitraria, senza alcuna motivazione sul criterio adottato";

b) illegittimità derivata dal primo provvedimento impugnato, per gli stessi motivi contro lo stesso proposti.

Si è costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Commissione per le adozioni internazionali, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Con ordinanza 15 luglio 2010 n. 3243, questo Tribunale ha rigettato la domanda di misure cautelari, e con successiva ordinanza 31 agosto 2010 n. 3962, il consiglio di Stato, sez. IV, ha rigettato l’appello contro la predetta ordinanza.

All’odierna udienza la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione

3. Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, respinto.

L’art. 39 della legge 4 maggio 1983 n. 184, nel disciplinare i compiti della Commissione per le adozioni internazionali, prevede che questa:

"autorizza l’attività degli enti di cui all’articolo 39ter, cura la tenuta del relativo albo, vigila sul loro operato, lo verifica almeno ogni tre anni, revoca l’autorizzazione concessa nei casi di gravi inadempienze, insufficienze o violazione delle norme della presente legge. Le medesime funzioni sono svolte dalla Commissione con riferimento all’attività svolta dai servizi per l’adozione internazionale, di cui all’articolo 39bis".

In attuazione della legge, il DPR 1 dicembre 1999 n. 492, prevedeva, nel Capo III, (dedicato alla "autorizzazione agli Enti": artt. 815), oltre ai requisiti che gli Enti devono possedere ed al procedimento di autorizzazione, anche la disciplina della "revoca e sospensione dell’autorizzazione". A tal fine, l’art. 13 disponeva:

" 1. Qualora venga accertato il venire meno di requisiti che hanno determinato il rilascio dell’autorizzazione, o qualora l’attività svolta dall’ente non sia rispondente ai princìpi e alle disposizioni della Convenzione, della legge sull’adozione e del regolamento, la Commissione dispone la revoca dell’autorizzazione, sentito l’ente interessato.

2. Nei casi meno gravi, la Commissione può sospendere l’autorizzazione per un periodo determinato, assegnando all’ente un termine entro il quale eliminare le irregolarità, trascorso detto termine senza che l’ente abbia provveduto, la Commissione procede alla revoca dell’autorizzazione.

3. I provvedimenti di revoca e di sospensione sono adottati nel rispetto delle norme sul procedimento amministrativo e previa contestazione dei fatti e delle ragioni per cui si intende procedere all’adozione di tali provvedimenti".

Tale regolamento è stato abrogato dal successivo DPR 8 giugno 2007 n. 108, che attualmente, all’art. 16, in tema di "sanzioni" dispone, tra l’altro

"1. A seguito delle verifiche di cui all’articolo 15, ovvero di accertamenti posti in essere in relazione a segnalazioni o eventi particolari, la Commissione può:

a) censurare l’ente responsabile di irregolarità;

b) prescrivere l’adeguamento delle modalità operative dell’ente alle previsioni della legge e del presente regolamento;

c) disporre la limitazione dell’assunzione di incarichi in relazione, tra l’altro, al numero di procedure adottive pendenti o a segnalazioni degli aspiranti genitori adottivi sulla qualità del servizio ricevuto;

d) disporre la modifica della estensione territoriale della operatività dell’ente autorizzato in ambito nazionale.

2. Nei casi più gravi, la Commissione può sospendere l’autorizzazione per un periodo determinato, assegnando all’ente un termine entro il quale eliminare le irregolarità; trascorso detto termine senza che l’ente abbia provveduto, la Commissione procede alla revoca dell’autorizzazione.

3. Qualora venga accertato il venire meno di requisiti che hanno determinato il rilascio dell’autorizzazione, o qualora l’attività svolta dall’ente non sia rispondente ai principi e alle disposizioni della Convenzione, della legge sull’adozione e del presente regolamento, la Commissione dispone la revoca dell’autorizzazione.".

Alla luce delle disposizioni vigenti (art. 39 l. n. 184/1983 e 16 DPR n. 108/2007), il legislatore ha previsto che la revoca dell’autorizzazione, già rilasciata agli Enti operanti nel settore delle adozioni internazionali, possa essere disposta allorchè sussistono "gravi inadempienze, insufficienze o violazione delle norme" della legge stessa.

Il successivo DPR n. 108/2007, modificando quanto in precedenza previsto sul punto dal DPR n. 492/1999, prevede una più ampia articolazione delle sanzioni irrogabili, tra le quali la sospensione della stessa per un periodo determinato nei "casi più gravi" di violazione, ed inoltre la revoca allorchè "l’attività dell’ente non sia rispondente ai principi e alle disposizioni della Convenzione, della legge sull’adozione e del presente regolamento".

Da quanto esposto, consegue che sicuramente la revoca dell’autorizzazione costituisce – così come sostenuto in ricorso – una extrema ratio, ponendosi essa (ancor più alla luce del nuovo regolamento), come una sanzione di estrema gravità, non irrogabile sulla base di una o più semplici violazioni di norme o prescrizioni (essendo per ciò previste le sanzioni di cui al comma 1 dell’art. 16, ovvero "nei casi più gravi", la sospensione).

La revoca, dunque, consegue all’accertamento di una attività che si pone in modo grave e pieno in contrasto con i principi informatori della disciplina delle adozioni, e delle adozioni internazionali in particolare, come indicati e/o desumibili dalle fonti regolanti la materia ed aventi rilevanza ed efficacia nel nostro ordinamento.

Tuttavia, proprio per il carattere del suo presupposto – che, come è ovvio, richiede un accertamento completo e svolto con le garanzie partecipative prescritte dalla legge, in particolare dalla l. n. 241/1990 – non è necessaria, ai fini della adozione del provvedimento di revoca, una "pluralità" di violazioni, posto che il contrasto sopra evidenziato ben può essere attestato da una sola violazione, la cui gravità consiste proprio nell’essere essa dimostrativa del detto contrasto con i principi in tema di adozione.

In altre parole, se il requisito della "gravità" dell’illecito deve essere parametrato non sulla violazione di una o più norme regolanti la materia, bensì sul (ben più grave) contrasto con i principi stessi della materia delle adozioni, allo stesso tempo (proprio alla luce di quanto ora affermato), non occorre che le violazioni siano necessariamente una pluralità, potendo l’elemento della gravità legittimante l’adozione del provvedimento di revoca essere desunto da una come da più violazioni, purchè essa o esse siano dimostrative della contrarietà al "sistema" delle adozioni, ai principi che lo regolano.

D’altra parte, anche sul piano letterale, l’art. 39 l. n. 184/1983, laddove si riferisce a "gravi inadempienze, insufficienze o violazioni" non consente una interpretazione volta ad asseverare una necessaria "pluralità" di violazioni, essendo la norma meramente descrittiva delle ipotesi che il legislatore considera come legittimo presupposto del’adozione del provvedimento di revoca.

Quest’ultimo, in definitiva, deve essere fondato su una o più violazioni che rendano l’attività dell’Ente "non rispondente" ai principi disciplinanti le adozioni; ed in questo senso il DPR n. 108/2007 interpreta il richiamo alle "gravi inadempienze", contenuto nella legge, in senso ancora più pregnante e restrittivo, rendendo dunque più "forte" il necessario presupposto della "gravità".

Perché possa essere adottato un provvedimento di revoca, per un verso, quindi, sicuramente sussiste (nei sensi ora esposti) il requisito della "gravità" delle violazioni, richiamato in ricorso (v. pag. 9) – e con profili anche più ampi di quanto ivi rappresentato – per altro verso, non trova fondamento il requisito della "pluralità" delle violazioni, pure indicato dalla ricorrente.

Né può trovare accoglimento, alla luce delle considerazioni espresse, la deduzione "preliminare" presente in ricorso (pagg. 910), circa il "carattere cumulativo delle nove violazioni contestate", cui si allega una "valenza collettiva e non autonoma",di modo che "la caduta di uno solo di essi (o quantomeno di qualcuno di essi) determina ex se la caduta dell’intero provvedimento".

Ed infatti, le violazioni nelle quali un ente autorizzato può essere incorso, per così dire "non si contano ma si pesano",e ciò proprio perché, come già affermato, occorre verificare la non rispondenza dell’attività dell’Ente ai principi regolanti il sistema delle adozioni, desumibile da una come da più violazioni o comportamenti comunque incoerenti, se idonea (o idonee) a giustificare, sul piano della ragionevolezza e del doveroso confronto con il sistema normativo, il giudizio negativo determinante la revoca.

Ne consegue che – contrariamente a quanto evidenziato in via preliminare dalla ricorrente – nella verifica del provvedimento impugnato, occorre procedere ad analizzare la motivazione del medesimo, le ragioni e presupposti sui quali la revoca si fonda, e (eventualmente) giungere ad un giudizio di legittimità del provvedimento adottato, sia nel caso in cui è la pluralità delle violazioni, complessivamente considerate, a sorreggere l’atto adottato, sia nel caso in cui anche uno solo dei profili evidenziati è tale da giustificare il citato giudizio di non rispondenza ai principi dell’attività svolta dall’Associazione.

4. Il primo "profilo" sul quale si fonda il provvedimento di revoca (sia in ordine di esposizione nel provvedimento impugnato, sia in ordine di trattazione nel ricorso), è rappresentato dall’avere l’Ente sottoscritto due "contratti" con istituti cambogiani, tendenti ad ottenere un numero minimo di proposte di abbinamento di bambini, con garanzia di esclusività della collaborazione. In particolare:

– il contratto con l’Istituto SFODA di Phnom Penh, prevede che detto Istituto si impegna "ad inviare proposte di abbinamento di bambini in età prescolare (0/7 anni d’età) per il raggiungimento di un numero pari ad almeno 20 annuali"; si impegna "a garantire l’esclusività della collaborazione… e pertanto si impegna a non stipulare altro accordo di cooperazione con altre associazioni italiane". A fronte di ciò, l’Associazione "si impegna a corrispondere a SFODA una somma annuale pari ad Euro 30.000 (trentamila) per l’acquisto di medicinali, vestiti (ed altro)… al fine di migliorare le condizioni di vita dei bambini all’interno dell’istituto", ed inoltre "si impegna a corrispondere una ulteriore donazione di Euro 500,00 (cinquecento) per il miglioramento della collaborazione, in base alle attività svolte e per ogni adozione che superi il numero annuale di 20, inizialmente concordato";

– il contratto con l’istituto KAOA di Phnom Penh, prevede pattuizioni non dissimili dalle precedenti, aggiungendosi che il numero di 20 proposte di abbinamento si riferisce al primo anno, e che "successivamente il numero verrà incrementato", e senza prevedere l’ulteriore donazione di Euro 500,00 per ogni adozione oltre le prime venti.

Orbene, il provvedimento impugnato giudica che tali iniziative "violano gravemente i principi di eticità e trasparenza delle adozioni internazionali sanciti dalla Convenzione dell’Aja e costituiscono un gravissimo fattore di rischio per la credibilità e l’immagine dell’Italia a livello internazionale"; inoltre, "tali pattuizioni, paragonabili a veri e propri contratti di somministrazione, costituiscono una gravissima violazione di basilari principi giuridici ed etici che informano il sistema delle adozioni internazionali".

Occorre osservare che, dalla lettura degli accordi intercorsi con due istituti cambogiani, si rileva l’assunzione di obbligazioni da parte degli stessi, il cui oggetto è la "messa a disposizione" di un numero di abbinamento di bambini, in via esclusiva e con minimo inderogabile. A sua volta, l’Associazione assume l’obbligazione di corrispondere una somma predeterminata (sia pure volta a "migliorare le condizioni di vita dei bambini all’interno dell’Istituto") e l’ulteriore obbligazione (eventuale) di una "donazione" suppletiva (nei confronti del solo Istituto SFODA) per ogni adozione che superi il numero pattuito.

Ai fini della valutazione di quanto ora riportato, non assume alcun rilievo se all’accordo sottoscritto possa o meno riconoscersi la natura di "contratto", dal quale discendono reciproche obbligazioni, ovvero se si tratti di due atti unilaterali di assunzione di obbligazioni. Né può avere alcun rilievo il nomen juris talora adoperato (come nel caso dell’uso del termine "donazione", riferito alla prestazione dell’Associazione), poiché ciò che rileva è il dato sostanziale, rappresentato da un istituto che si impegna, in pratica, a fornire un numero predeterminato di adottandi con vincolo di esclusiva ad una associazione italiana, la quale, a fronte di ciò (e solo per questo) si impegna ad una "donazione", il cui importo può variare qualora il numero minimo pattuito venga superato, secondo una somma predeterminata per ciascun abbinamento oltre il minimo garantito.

Occorre rilevare che oggetto dell’accordo intercorso tra l’associazione e i due istituti cambogiani sono esseri umani, qualificabili come bambini in ragione dell’età, e che il nostro ordinamento rifiuta categoricamente che esseri umani possano essere oggetto di quello che il provvedimento impugnato ha definito un "vero e proprio contratto di somministrazione".

Nel caso considerato, non vengono solo in discussione i principi, di diritto interno e di diritto internazionale, che regolano le adozioni, ma innanzi tutto la Costituzione italiana (artt. 2, 10, 13, 31) e la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con l. 4 agosto 1955 n. 848 (artt. 2, 4, 5).

E’ a questi principi e norme fondamentali del nostro ordinamento giuridico che si aggiungono gli specifici principi e norme in tema di adozioni internazionali – evocati dalla Commissione – di cui alla Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione internazionale in materia di adozioni stipulata a L’Aja il 29 maggio 1983, ed alla legge 4 maggio 1983 n. 184, ora titolata significativamente "Diritto del minore ad una famiglia". In particolare, dall’art. 31 della legge n. 184/1983, sulla attività degli Enti autorizzati, sono chiaramente desumibili i principi cui la legge si ispira – innanzi tutto l’interesse del minore, in generale ed a vivere nella famiglia di origine – ed ai quali gli enti stessi devono conformarsi.

Sulla base dell’esame di quanto finora esposto, il provvedimento impugnato parla di "un’inammissibile impostazione commerciale dell’adozione internazionale", ed afferma che non è tollerabile che "un soggetto italiano, un ente autorizzato… metta a repentaglio in modo così grave la credibilità e onorabilità dell’Italia e la trasparenza delle singole procedure adottive".

Tale motivazione attiene dunque ad un aspetto, quale quello ora oggetto di disamina, che si pone in tale evidente contrasto con l’ordinamento giuridico italiano ed internazionale, che è tale da sorreggere da solo l’adozione del provvedimento di revoca adottato; e ciò proprio alla luce degli artt. 39 l. n. 184/1983 e 16 DPR n. 108/2007.

A fronte di ciò, non assume rilevo affermare che: "nessuna delle disposizioni che regolano la materia delle adozioni internazionali censura e sanziona con provvedimenti disciplinari… rapporti di esclusività o di previsione di un minimo garantito" (pag. 12 ric.), ovvero che "la Cambogia non rientra tra gli Stati firmatari della Convenzione e pertanto non è in alcun modo vincolata ai principi ivi contenuti" (pag. 13).

Per tale ultimo aspetto, è sufficiente rilevare che la Convenzione è stata sottoscritta dall’Italia, perché essa debba essere ritenuta vincolante per l’associazione ricorrente

Quanto alla mancanza di un divieto espresso, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, non ricorre una violazione specifica di una singola norma di legge o di regolamento, ma una ben più grave violazione di principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, in tema di rispetto della persona, e di quello delle adozioni internazionali, principi tali da ricomprendere pienamente il divieto di specifiche pratiche ad essi contrarie.

Per le stesse ragioni, non può trovare considerazione l’affermazione secondo la quale il provvedimento "interpreta il divieto di scopo di lucro come un sostanziale divieto di avere rapporti commerciali", posto che non è in discussione la ovvia compatibilità di rapporti commerciali con un divieto di finalità di lucro in capo all’ente che tali rapporti intrattiene, quanto, ben diversamente, l’oggetto dei rapporti commerciali stessi, e cioè l’individuazione di un numero predefinito, con vincolo di esclusiva, di proposte di abbinamento di minori.

Per le ragioni esposte, il provvedimento, in relazione al primo profilo sul quale si fonda, è da ritenere immune dai vizi rappresentati con i motivi di ricorso proposti e legittimamente emanato anche sulla sola base di tale profilo, che, come si è evidenziato, è sufficiente a sorreggerlo.

5. Fermo quanto considerato al precedente punto 4), il ricorso è infondato anche in relazione agli ulteriori profili dell’atto impugnato. Ed infatti,

a) quanto al profilo della "assenza di lucro", il provvedimento espone diffusamente le concrete pratiche intrattenute dall’associazione con le coppie (pagg. 1224), a fronte delle quali – oggetto già di precedenti contestazioni della Commissione, anche per contrasto con la Direttiva 4 marzo 2003 – non è sufficiente argomentare circa la naturale onerosità delle procedure di adozione, posto che, da quanto esposto in provvedimento, non emerge una stretta interdipendenza tra costi sostenuti dall’associazione e somme versate dalle coppie. Né rilevano il valore (cogente o meno) della Direttiva ovvero la sua data di entrata in vigore, posto il chiaro disposto normativo (art. 39ter l. n. 184/1983) circa il divieto di finalità di lucro;

b) quanto al profilo della "irregolarità, opacità e lacunosità della documentazione sociale e contabile dell’ente", occorre osservare che il provvedimento evidenzia non solo la mancanza di un numero non esiguo di cd. "schede costi", ma anche il fatto (non compiutamente contestato) che "nella quasi totalità dei casi le schede riportano somme non corrispondenti (per difetto) alla realtà e in contraddizione con altri documenti provenienti dallo stesso Ente", il che giustifica sufficientemente il rilievo;

c) quanto al profilo del "deterioramento del servizio offerto alle coppie", occorre osservare come i rilevi esposti nel provvedimento impugnato, desunti da un servizio di ascolto telefonico e di corrispondenza telematica, siano più ampi (v. pagg. 2627 provv.), di quelli strettamente correlati al "continuo avvicendamento dei collaboratori", aspetto che, se pur non puntualmente sanzionato da norma, ben può essere tuttavia indice di una discontinuità ed incoerenza nel servizio offerto;

d) quanto al profilo della "prassi dell’ente di operare numerosissimi e ricorrenti trasferimenti delle procedure da un Paese all’altro", occorre osservare che tale profilo di contestazione è nel provvedimento impugnato di più ampia portata, afferendo esso non solo all’aspetto ora evidenziato, quanto anche ad "abbinamenti proposti con modalità repentine e senza una preventiva preparazione, con conseguente richiesta di risposte ad horas; mancato rispetto dell’ordine cronologico di conferimento dell’incarico; richieste di denaro ulteriori rispetto ai costi stabiliti e a fronte di non meglio precisati servizi" (con ampia indicazione dei casi: v. pagg. 2835 provv.);

e) quanto al profilo della "irregolarità e opacità nella composizione nel corpo sociale e degli organi direttivi", il provvedimento impugnato non contesta in sé la persistenza degli stessi soggetti al vertice dell’associazione, ma che tale circostanza – a fronte di una "varia, mutevole e inspiegabile" composizione e catalogazione dei soci, ha determinato "un accentramento verticistico dei poteri gestionali e decisionali, non soggetti ad alcun vero e credibile controllo di merito", tale da non fornire più "garanzie sulla complessiva professionalità e continuatività dello svolgimento di attività sensibili ed impegnative". Ciò che il provvedimento motivatamente contesta, dunque, non è la permanenza nelle cariche degli stessi soggetti, quanto il fatto che ciò, impedendo una vera dialettica (e quindi controllo) all’interno dell’associazione (aggravata dalla mutevolezza dei soci), rende meno garantito lo svolgimento della delicata funzione, e quindi il corretto perseguimento dell’interesse pubblico.

Anche in relazione agli ultimi tre profili presenti, sicuramente di minore rilevanza rispetto ai precedenti ("diffusione di notizie improprie su altri enti e sull’operato della Commissione"; "impropria strumentalizzazione delle coppie per forzare l’operato della Commissione"; "inadeguata risposta alle richieste della Commissione", il provvedimento (v. pagg. 3738) appare sufficientemente motivato, con riferimento ai dati esposti.

Per le ragioni sinora evidenziate, i motivi di ricorso proposti appaiono infondati anche in relazione agli ulteriori profili del provvedimento impugnato, ed il ricorso avverso il medesimo deve essere, anche per questa parte, pertanto respinto.

6. Anche il ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso i provvedimenti con i quali si è disposta l’assegnazione delle coppie, già facenti carico all’Associazione oggetto di revoca di autorizzazione, ad altre associazioni operanti nel settore, è infondato e deve essere, pertanto, respinto, potendosi quindi prescindere dal rilevarne l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse, a seguito del rigetto del ricorso introduttivo avverso il provvedimento di revoca dell’autorizzazione.

Ed infatti, così come rilevato anche dall’amministrazione costituita (v. memoria dep. il 28 ottobre 2010), l’art. 16, comma 5, DPR n. 108/2007, prevede che " in caso di revoca o sospensione dell’attività, le procedure di adozione in carico all’ente sono proseguite a cura della Commissione, che può avvalersi di esperti e consulenti, stipulare apposite convenzioni e concludere accordi con altri enti, nei limiti delle proprie disponibilita" di bilancio."

Appare del tutto evidente, e certamente rispondente all’interesse pubblico all’ordinato svolgimento dell’attività nel delicato settore delle adozioni internazionali, che la Commissione, adottato il provvedimento di revoca, dovesse disporre senza indugio in ordine alla prosecuzione del rapporto delle coppie con altri enti similari a quello oggetto di provvedimento sanzionatorio.

Né tale valutazione avrebbe dovuto attendere l’esito del giudizio instaurato, peraltro in difetto di provvedimenti cautelari del giudice.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso originario ed il ricorso per motivi aggiunti devono essere rigettati. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da Associazione famiglia e minori Onlus (n.5630/2010 r.g.), lo rigetta.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’amministrazione costituita, delle spese, diritti ed onorari di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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