Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-12-2010) 23-02-2011, n. 7029 Armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.N., assieme ad altri imputati, era chiamato a rispondere, innanzi alla Corte di Assise di Bari, dei reati di omicidio premeditato plurimo, lesioni plurime gravi – ed aggravate anche dall’uso di armi ed ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 – nonchè di detenzione e porto illegale di armi e munizioni da guerra, pur essi aggravati ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 2 e L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il D. era ritenuto mandante dell’attentato del (OMISSIS), nel corso del quale un commando, composto da tre persone, all’interno di un’autovettura in corsa, aveva esploso numerosi colpi di arma da fuoco all’indirizzo di un gruppo di persone intente a conversare sul marciapiedi di detto lungomare. Nell’occasione, erano rimasti uccisi C.N. e M.V. e gravemente feriti M. T., A.F. e Co.Ni..

La svolta nelle indagini di polizia giudiziaria fu segnata dal ritrovamento, il giorno successivo, dell’autovettura Opel Vectra, di colore bianco, usata dagli assassini e lasciata abbandonata sotto un ponte della circonvallazione, con a bordo una mitraglietta Skorpion cal. 7,65 ed un fucile Kalashnikov cal. 7,62, armi da guerra entrambe private del calciolo, accorgimento questo che, come riferito in rubrica, le rendeva assolutamente incontrollabili nel fuoco a raffica, in quanto la forza del rinculo, anzichè scaricarsi sulla spalla del tiratore, provocava di fatto l’incontenibile impennata delle armi, con conseguente dispersione dei colpi esplosi senza alcuna possibilità di tiro mirato…..Gli accertamenti della scientifica rilevarono impronte papillari sul vetro di uno sportello dell’auto, che risultarono appartenenti al pregiudicato V. G.. Sottoposto a fermo di p.g., il V. confessò subito di essere l’autore dell’attentato, in qualità di sparatore, chiamando in correità R.L. ( E. il (OMISSIS)), con il ruolo di autista, L.L., con il ruolo anch’egli di sparatore, e B.V., quale mandante. Prima ancora che si procedesse all’arresto delle persone chiamate in correità dal V., si presentava spontaneamente, innanzi ai Carabinieri di Bari-San Paolo, il B. che – premesso di essere il braccio destro di D.G. e di D.N., rispettivamente zio e nipote, capi indiscussi dell’omonimo clan – confessava di essere, al pari dei D., tra i mandanti della strage di San Valentino, indicando come componenti del commando, V., L. e R.. Tratti in arresto, anche questi ultimi confessarono di aver partecipato all’azione omicidiaria, indicando tra i mandanti D.N..

In esito alle compite indagini, dunque, V., L. e R., che avevano optato per il rito abbreviato, vennero processati e condannati alle pene di giustizia. I due D., invece, preferirono sottoporsi al giudizio ordinario.

Con sentenza del 19 novembre 2007, la Corte di Assise di Bari riconobbe entrambi colpevoli dei reati loro ascritti e, unificati questi con il vincolo della continuazione, li condannò alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per la durata di un anno, oltre consequenziali statuizioni.

Avverso la pronuncia anzidetto, i due D. interposero appello.

Sennonchè, D.G. rinunciò ai motivi di gravame diversi da quello inerente al contestato trattamento sanzionatorio, confessando di essere il mandante dell’agguato, per avere affidato a B.V., L.L., R.L. (oltre a tale I.C. con il ruolo di staffettista) l’incarico di uccidere S.F., capo di un clan avverso, che si riteneva presente sul lungomare al momento dell’attentato, assieme alle persone poi colpite.

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Assise di Appello di Bari, in parziale riforma della decisione impugnata, ha dichiarato inammissibili, per intervenuta rinuncia, tutti i motivi di impugnazione ad eccezione di quelli relativi al trattamento sanzionatorio, proposti in favore di D.G. e, riconosciute le attenuanti genetiche ad entrambi gli imputati, in rapporto di equivalenza alle contestate aggravanti ed alla recidiva, ritenuta la continuazione tra i reati in contestazione e quelli già giudicati con sentenza resa dalla Corte di Appello di Bari in data 21 febbraio 2002 (irrevocabile il 22 giugno 2004), ha rideterminato la pena inflitta in primo grado a ciascun imputato nella misura di anni trenta di reclusione, oltre ulteriori statuizioni di legge.

Avverso la pronuncia anzidetta, il difensore di D.N. ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Motivi della decisione

1 – Con unico articolato motivo d’impugnazione parte ricorrente eccepisce violazione dell’art. 606, lett. c) ed e) in relazione agli artt. 125 e 192 c.p.p.. Lamenta, in particolare, l’inosservanza, da parte dei giudici di appello, dei canoni di giudizio che, per pacifica interpretazione giurisprudenziale, devono presiedere all’esame delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e, ad ogni modo, il difetto di motivazione sul punto. Al riguardo, il giudice di appello si sarebbe limitato a ripetere acriticamente le argomentazioni del primo giudice, senza dare alcuna risposta agli specifici motivi del gravame con i quali era stata, puntualmente, censurata la decisione appellata. In particolare, con riferimento alle accuse di B.V., la sentenza di primo grado era stata censurata sul punto che il propalante avesse mosso tale accusa in danno del N. (avere impartito a R. l’ordine di guidare l’autovettura) ed in riferimento a questa sola accusa, fosse stato smentito dallo stesso R. (che riferì di avere ricevuto l’ordine non da D.N., ma da tali V., G. e G., identificabili rispettivamente in B.V., L. L. e V.G.. Con riferimento alle accuse del V., la sentenza di primo grado era stata censurata sul punto che il propalante potesse nutrire rancore nei confronti di D. N., al quale addebitava di non avergli dato neanche una lira a titolo di spartenza, ragione per cui 7-8 mesi prima del fatti si era allontanato da lui per legarsi al solo D.G.. Inoltre, anche in riferimento alle anzidette propalazioni l’accusa mossa all’imputato era una ed una sola: l’ordine di partecipare all’azione di fuoco sarebbe stato impartito da D.N.. Sennonchè, tale accusa era stata smentita da L.L., secondo cui l’ordine anzidetto era stato impartito al V. non da D.N., ma solo da B.V..

Anche con riferimento alle dichiarazioni accusatone di L.L., l’accusa nei confronti dell’odierno ricorrente era soltanto una:

avere deliberato assieme a D.G. l’azione di fuoco, ma tale accusa era affidata a mere congetture, fondate sull’erroneo convincimento che D.N. fosse uno dei capi dell’omonimo clan, circostanza processualmente smentita dagli atti di causa.

In relazione alle accuse del R., la sentenza impugnata era stata censurata sul punto che il propalante, nel riferire di essere stato indotto D.N. a concorrere all’agguato quando egli aveva detto ai sodali di non conoscere affatto le vittime designate, non poteva essere ritenuto credibile, in quanto, in precedenza, aveva dichiarato di essere stato spinto a concorrere all’agguato non da D.N., ma da V.G., allorquando egli (il R.) aveva detto di non conoscere le vittime designate.

Ancora in riferimento alle accuse anzidette la dichiarazione era stata censurata sul punto che il propalante – nell’affermare di essere stato rimproverato da D.N. per il fatto di non aver incendiato l’autovettura utilizzata per l’agguato – era stato l’unico a muovere una tale accusa, mai riferita da altri.

A tali specifici rilievi il giudice a quo non aveva dato alcuna risposta.

Ma indipendentemente dall’omessa risposta, la sentenza impugnata era affetta da difetto motivazionale per evidente discrasia tra i suoi contenuti e le risultanze probatorie. Il contrasto emergerebbe dal testo della stessa sentenza, posto che il giudice di appello aveva omesso di specificare i fatti sui quali sarebbero convergenti le dichiarazioni accusatone a carico di D.N.. Ed infatti, quanto al mandato asseritamente conferito al V., non era stato indicato quale altro collaboratore avesse confermato tale circostanza. Le accuse del B. erano state, poi, amplificate, giacchè il giudice di appello aveva ritenuto che quest’ultimo avesse attribuito al D. l’ideazione e l’organizzazione dell’agguato (pag. 36). In realtà, il propalante aveva mosso una sola accusa, nei termini seguenti: nel pomeriggio del (OMISSIS), l’azione di fuoco era stata decisa in esito ad un lungo colloquio intercorso solo ed esclusivamente tra lo stesso propalante e P. da identificarsi in D.G.. Quando Pa.Gi. annunciò la presenza di S.F. sul luogo del delitto, D. G. diede immediatamente ordine a V.G. di uccidere lo stesso S.; D.N. avrebbe chiamato E. il (OMISSIS) (da identificarsi in R.L.) per impartigli l’ordine di guidare l’autovettura scelta per commettere l’agguato.

L’accusa del B. non era, però, stata confermata nè da V. nè da L., i quali non avevano mai accusato D. N. di aver impartito ordini a R.. Peraltro, la stessa accusa era stata smentita proprio da quest’ultimo, il quale aveva riferito di aver ricevuto l’ordine di guidare l’autovettura non da D.N., ma da tali V., G. e G.. Sul punto, non era stata data alcuna risposta dal giudice di appello.

2. – La diffusa esposizione delle articolate doglianze di parte ricorrente consente, già in sè, di cogliere vistosi profili di inammissibilità nella misura in cui, pur sotto la species del vizio di legittimità, sono di fatto intese a sollecitare a questa Corte un’improponibile rilettura delle risultanze di causa, segnatamente delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, di cui il voluminoso ricorso riporta ampi stralci. Sennonchè, la rivisitazione del dictum dei propalanti non è compito di questo Giudice di legittimità, che, notoriamente, è chiamato solo al collaudo esterno della motivazione del giudice a quo, onde verificare se l’approccio alle propalazioni dei collaboratori di giustizia sia stato rispettoso dei canoni di lettura scolpiti da granitico insegnamento di legittimità, perchè siano prudentemente valutate la credibilità soggettiva e poi l’attendibilità intrinseca ed estrinseca del dire accusatorio. A tale ultimo riguardo, è risaputo che le conferme della propalazione accusatoria possono provenire anche da altre dichiarazioni di accusa, a loro volta verificate nel loro coefficiente di attendibilità, in attuazione del principio della c.d. convergenza del molteplice.

E’ pure pacifico che, nell’economia di siffatta valutazione, marginali discrasie nel narrato dei plurimi collaboratori, che risultino tali da non inficiare il nucleo fondamentale del racconto, ben possono essere trascurate, ponendosi, per converso, come elemento sintomatico della genuinità delle stesse, tanto da far escludere che esse possano essere state preordinate o preconfezionate, di concerto tra gli stessi collaboratori.

Ovviamente, dopo tale specifica verifica questo Giudice deve, poi, procedere all’esame del percorso motivazionale, al fine di accertare se il giudice a quo abbia correttamente rivisitato il compendio di prova e dato, poi, adeguata risposta ai motivi di gravame, rendendo, infine, una giustificazione plausibile e congrua nel giudizio confermativo della penale responsabilità dell’imputato.

2.1. – La doppia indagine cui è chiamato il Collegio ha esito ampiamente positivo. Ed invero, le diverse collaborazioni, acquisite con singolare effetto a catena (dapprima V.G., dopo che gli inquirenti erano risaliti a lui sulla base delle impronte papillari rinvenute sul vetro dell’autovettura usata per l’attentato;

poi, spontaneamente, B.V.; ancora, a seguire, L. L. e R.L.; e da ultimo, in sede di appello, lo stesso D.G., dopo aver rinunciato ai motivi diversi da quelli relativi al regime sanzionatorio), sono state apprezzate nel pieno rispetto dei criteri di lettura delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e, in genere, dei canoni di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3. Vagliate sotto tutti i profili di delibazione, sono state tutte ritenute pienamente attendibili, anche perchè provenienti da persone direttamente coinvolte nel plurimo omicidio e legate tra loro – e con i D. – da vincoli di appartenenza delinquenziale. Verificata la credibilità soggettiva dei dichiaranti, è stata poi vagliata la loro attendibilità intrinseca, positivamente apprezzata in ragione della convergenza del loro dire sulla storia criminale del gruppo Diomede e sulla genesi dell’agguato mortale, concordemente inquadrata in una logica di scontro tra clan malavitosi dediti al contrabbando di t.l.e. per il controllo di determinate aeree territoriali. Non solo, ma dal racconto dei dichiaranti è emerso anche che l’impresa omicidiaria aveva avuto finalità di prevenzione, in quanto D.G., esponente di vertice del gruppo delinquenziale, paventava un agguato da parte dei rivali, segnatamente di S.F., proprio la persona, assieme ad altra, all’indirizzo della quale sarebbe stata, poi, rivolta la missione di morte.

Dal racconto degli stessi dichiaranti è venuta anche l’indicazione, tra i mandanti, dell’odierno ricorrente. Al riguardo, i giudici di appello hanno dato conto delle iniziali reticenze del Vi., che fece il nome dell’imputato solo in un secondo momento, fornendo in proposito spiegazione ritenuta plausibile e convincente.

Le divergenze segnalate in ricorso non attengono a profili sostanziali tali da alterare la complessiva tenuta del quadro accusatorio, che, a tutto concedere, manterrebbe integra la sua valenza ed idoneità a sostegno del ribadito giudizio di colpevolezza anche se, tenendo conto delle stesse, se ne facesse ideale elisione, in applicazione del c.d. principio di resistenza.

Positiva è stata, infine, la verifica dei riscontri esterni ravvisati sia nelle modalità dell’azione omicidiaria – con particolare riferimento alla tipologia e calibro delle armi impiegate – sia nelle risultanze di precedenti procedimenti, sia, ancora, nella convergenza dei plurimi riferimenti accusatori.

2.2 – Il complessivo impianto motivazionale reso dalla Corte distrettuale appare, poi, coerente e congruo nell’indicare le ragioni della riaffermata pronuncia di colpevolezza a carico di D. N..

Dall’insieme argomentativo risulta infatti:

– la riferibilità anche a lui della causale dell’omicidio, essendo pacificamente emerso che lo stesso imputato, nipote di D. G., faceva parte, in posizione di rilievo; del sodalizio facente capo al congiunto, anche sulla base di quanto emerso in altri procedimenti; e che fosse anch’egli dedito all’attività di contrabbando, peraltro direttamente gestita durante i periodi di detenzione dello zio G..

E’ stato ritenuto per certo che egli partecipò ad entrambe le riunioni organizzative del 14 febbraio: la prima, per deliberare la c.d. picchiata ossia la spedizione nel quartiere dei rivali per la loro ricerca e soppressione; la seconda, pomeridiana, per deliberare l’ennesimo agguato, poi risultato mortale. E’ stato, altresì, accertato che egli prese parte, per volere dello zio, alla spedizione del mattino, adeguatamente armato, convenendosi poi, per ragioni prudenziali, che nè lui nè lo stesso congiunto facessero parte del commando per la spedizione del pomeriggio, limitandosi nell’occasione a mandare altri.

Il coacervo di tale elementi di accusa è stato, ragionevolmente e plausibilmente, ritenuto idoneo al ribadito giudizio di colpevolezza.

3. – Per quanto sopra il ricorso, sante l’infondatezza, meriterebbe il rigetto, dunque un epilogo decisionale che non osta al rilievo della maturata prescrizione relativamente al reato di lesioni personali, per effetto della concessione in grado di appello delle attenuanti genetiche in rapporto di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti. Nel prenderne atto, può farsi senz’altro luogo alla relativa declaratoria. Per effetto della sopravvenuta estinzione dei relativi reati, deve ovviamente eliminarsi la corrispondente pena, pari ad anni due di reclusione.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di lesioni personali, perchè il reato è estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di anni due di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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