Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-11-2010) 23-02-2011, n. 7095 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con decreto in data 16 settembre 2009 la Corte d’Appello di Palermo, confermando analogo provvedimento emesso dal locale Tribunale, ha disposto che T.S. rimanesse sottoposto alla misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per anni tre e di versare la cauzione di Euro 1.000,00; ha confermato, altresì, la confisca di beni immobili siti in (OMISSIS), a lui formalmente intestati, e di quote di partecipazione nelle società Tosto Costruzioni s.r.l. e Siciliana Impianti s.r.l..

Ha ritenuto quel collegio che il T. fosse socialmente pericoloso, in ciò basandosi sui fatti accertati con una sentenza di condanna, passata in giudicato, emessa a suo carico per concorso esterno all’associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra"; ha osservato, al riguardo, che l’attualità della pericolosità non richiedeva specifica dimostrazione, stante il principio giurisprudenziale per cui l’indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa è connotato per ciò stesso da pericolosità sociale, se non constino atti positivi di recesso dall’organizzazione; circa la durata della misura, ne ha ravvisato la congruità in rapporto alla consistenza del contributo fornito dal proposto al sodalizio mafioso.

Quanto ai beni confiscati, ha ritenuto che le quote societarie fossero state oggetto di una duplice simulata alienazione, dapprima alla moglie del T., I.M., e poi da questa alla sorella I.A.; di ciò ha ravvisato la prova in una serie di elementi analiticamente considerati: la scarsa credibilità di una cessione ispirata a liberalità; la prossimità temporale all’applicazione della misura cautelare nei confronti del proposto;

la sproporzione, insita nella seconda cessione, tra l’importanza e redditività delle partecipazioni cedute e l’entità del corrispettivo; il rapporto fiduciario tra le parti contrattuali, legate da stretti vincoli di parentela; l’impossibilità di ritenere I.A. espressione dell’altro gruppo d’interessi coinvolto nelle compagini sociali. L’illiceità della provenienza dei beni sottoposti a confisca era sorretta da prova, secondo la Corte territoriale, in virtù delle condanne riportate dal proposto non soltanto – come già rilevato – per associazione mafiosa, ma altresì per fatti di turbativa di gare d’appalto.

Ha proposto ricorso per Cassazione il T., per il tramite dei difensori, affidandolo a due motivi.

Col primo motivo, articolato in più censure, il ricorrente si duole anzitutto che i giudici di merito siano pervenuti alla formulazione del giudizio recependo in modo del tutto acritico le risultanze del giudizio penale, senza procedere ad una nuova ed autonoma verifica dei fatti; denuncia, quale forzatura del dato normativo, la pretesa che l’abbandono del sodalizio criminoso sia necessariamente dimostrato attraverso un comportamento positivo. Quanto alle statuizioni di carattere patrimoniale, lamenta non essersi considerato che la documentazione resa disponibile dimostrava che le società Tosto Costruzioni s.r.l. e Siciliana Impianti s.r.l. rappresentavano la veste imprenditoriale assunta dalla propria famiglia: esse, afferma, avevano sempre agito secondo le leggi di mercato, senza giovarsi di illegittimi interventi sui meccanismi di aggiudicazione, e avevano regolarmente depositato i bilanci; nega che le cessioni di quote societarie siano state simulate; deduce carenza probatoria e motivazionale in ordine alla sussistenza di una effettiva disponibilità di fatto dei beni confiscati, in contrasto con la formale titolarità del terzo; quanto al patrimonio immobiliare, sostiene potersi riscontrare adeguata giustificazione probatoria della sua lecita provenienza nel flusso di redditi riconducale all’attività imprenditoriale di cui sopra.

Col secondo motivo il ricorrente impugna la durata del regime di sorveglianza speciale, fissata in tre anni – dunque in misura superiore al minimo di legge – senza adeguata motivazione.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per i motivi di seguito esposti.

Occorre premettere che, in materia di misure di prevenzione, il ricorso per Cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge in virtù di quanto disposto dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 11, la cui area di operatività è estesa ai casi di pericolosità qualificata ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3 ter, comma 2.

La giurisprudenza di legittimità, per vero, ha riconosciuto doversi ricondurre al vizio di violazione di legge quei casi in cui la motivazione sia del tutto carente (Cass. 8 marzo 2007 n. 35044) o caratterizzata da enunciazioni talmente apodittiche e prive di costrutto logico, da rivelarsi soltanto apparente (Cass. 17 dicembre 2003 n. 15107/04). Ma le cerniate ipotesi non trovano riscontro nel caso di specie, in cui la motivazione del provvedimento impugnato si è soffermata su tutti i temi prospettati dalla difesa, trattandoli con argomentazioni articolate e di immediata comprensibilità.

Il controllo di legittimità cui la Corte di Cassazione è chiamata deve perciò limitarsi a quelle, tra le censure mosse dal ricorrente, che attengono a questioni di puro diritto; e consistere nella verifica del rispetto dei canoni giuridici da applicarsi a situazioni di fatto, il cui accertamento scaturito dal giudizio di merito deve tenersi per intangibile.

In tale proiezione va subito rilevata la manifesta infondatezza dell’assunto a tenore del quale, pur in presenza di una condanna passata in giudicato per il delitto di associazione di tipo mafioso, il giudice della sorveglianza speciale si sarebbe dovuto dedicare a una rinnovata valutazione dei fatti, onde verificare la sussistenza di indizi utili a sorreggere il giudizio di pericolosità qualificata. Ed invero, pur essendo noto e condiviso il principio dell’autonomia del procedimento di sorveglianza speciale rispetto al giudizio penale di cognizione, nondimeno anche in subiecta materia non è dato prescindere dall’autorità del giudicato penale di condanna, in forza del quale alla posizione dei soggetti "indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso", secondo il lessico della citata L. n. 575 del 1965, art. 1, viene a giustapporsi quella del soggetto irrevocabilmente riconosciuto colpevole di concorso esterno in quel reato (stante l’estensione al concorrente esterno della nozione di "appartenenza": v. Cass. 16 dicembre 2005 n. 1023/06): con tutte le implicazioni che ne derivano dal punto di vista dell’accertamento della pericolosità sociale (in tal caso presunta: Cass. 16 dicembre 2005 n. 1014/06).

Del pari manifestamente infondata è la censura rivolta al passaggio motivazionale in cui la Corte d’Appello, nel trattare del requisito di attualità della pericolosità, rileva la mancanza di qualsiasi atto di dissociazione da cui possa dedursi il definitivo distacco del T. dall’associazione mafiosa, l’appartenenza alla quale è stata accertata nei modi ora visti. La valutazione così espressa, infatti, lungi dal dare luogo a una forzatura del dato normativo, come sostenuto dal ricorrente, si fonda invece su un principio giuridico di indiscussa acquisizione, a tenore del quale "ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, una volta che detta appartenenza risulti adeguatamente dimostrata, non è necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di attuale pericolosità, che potrebbe essere esclusa solo nel caso di recesso dall’associazione, del quale occorrerebbe acquisire positivamente la prova, non bastando a tal fine eventuali riferimenti al tempo trascorso dall’adesione o dalla concreta partecipazione ad attività associative" (così Cass. 21 novembre 2008 n. 499/09; v. anche Cass. 11 ottobre 2005 n. 44326; Cass. 23 novembre 2004 n. 114/05; e molte altre conformi).

Le restanti critiche mosse al decreto della Corte d’Appello nella parte confermativa della misura di prevenzione personale (con particolare riguardo a quelle che ne investono la durata), e nella loro totalità quelle riguardanti le statuizioni di carattere patrimoniale, esulano dal perimetro dei vizi deducibili in questa sede, siccome volte a contestare la congruità della motivazione e la sua correttezza in rapporto ai dati processuali. Su di esse, pertanto, non occorre soffermarsi se non per ribadire, anche in parte qua, il complessivo giudizio di inammissibilità del ricorso.

Ne conseguono le statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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