Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-02-2011) 24-02-2011, n. 7198 Aggravanti comuni aggravamento delle conseguenze del delitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 17 febbraio 2010 la Corte d’assise d’appello di Ancona confermava la sentenza emessa il 29 dicembre 2008, all’esito di giudizio abbreviato, dal gup del locale Tribunale che aveva dichiarato M.R. colpevole del delitto di omicidio pluriaggravato in danno di Lo.Fr. e lo aveva condannato alla pena di trenta anni di reclusione, oltre alle pene accessorie e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

2. Da entrambe le sentenze di merito emergeva la seguente ricostruzione dei fatti.

Il 17 luglio 2008 l’imputato si recava, poco prima delle otto, dinanzi all’ufficio postale di (OMISSIS), ove prestava servizio la moglie separata, Lo.Fr.. La donna giungeva poco dopo sul posto di lavoro a bordo di uno scooter condotto dal convivente. Avendo visto M., entrava in ufficio a timbrare il cartellino e, subito dopo, usciva per parlare con lui.

L’imputato, armato di un coltello da cucina con lama monotagliente, della lunghezza di cm 17 circa e di larghezza pari a cm. 2,5, affrontava la Lo. pronunziando la frase :"mi hai rovinato la vita" e, contestualmente, le sferrava due colpi mortali. Uno di essi, inferto in regione sottomammaria sinistra mentre aggressore e vittima si fronteggiavano, causava la perforazione del diaframma, del lobo epatico sinistro e dell’aorta e risultava articolato in due tempi, atteso che alla prima infissione ne aveva fatto seguito una seconda dopo la parziale estrazione della lama. L’altro colpo, sferrato con notevole intensità, mentre la vittima volgeva le spalle all’aggressore, raggiungeva il dorso della donna in regione infrascapolare destra e determinava la lesione della pleura, del polmone destro, del pericardio e della parete posteriore del cuore.

Il movente dell’omicidio veniva individuato nei rapporti conflittuali da tempo esistenti tra M. e la Lo., sfociati anche in episodi di minacce da parte dell’uomo. Le tensioni si erano aggravate dopo la pronuncia della separazione giudiziale con addebito nei confronti di M. che, in ottemperanza alla sentenza, aveva dovuto cedere la casa coniugale alla moglie.

L’imputato, abbandonata la sua attività privata di fisioterapista, affidata alla figlia, cercava invano di rifarsi una vita a (OMISSIS), ma, in conseguenza dell’esito negativo dell’iniziativa commerciale ivi intrapresa, decideva di tornare in Italia a causa delle disastrose condizioni economiche in cui versava.

3. I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità dell’imputato sulla base delle testimonianze delle persone presenti sul luogo del fatto ( B.G., + ALTRI OMESSI ), delle risultanze della consulenza medico-legale, degli esiti degli accertamenti e dei rilievi tecnici e fotografici effettuati nell’immediatezza del fatto, delle caratteristiche del coltello sequestrato, delle stesse ammissioni dell’imputato, delle dichiarazioni acquisite ( Ma.Lu., M.D., L.G.) in ordine al comportamento violento serbato, nel corso degli anni, dall’imputato nei confronti della moglie, ritenuta responsabile del suo dissesto economico.

L’aggravante della premeditazione veniva ritenuta sussistente alla stregua delle testimonianze rese da L.G., M. L., M.D., i quali concordemente riferivano in merito ai comportamenti e alle dichiarazioni rese da M. nei giorni precedenti l’omicidio univocamente indicative dell’ apprezzabile lasso di tempo intercorso tra l’insorgenza del proposito criminoso e la attuazione di esso e della ferma risoluzione criminosa, perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine.

4. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato il quale lamenta: a) inosservanza, erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante della premeditazione, atteso l’evidente dolo d’impeto sotteso alla condotta dell’imputato; b) inosservanza, erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione, avuto riguardo al complessivo comportamento della vittima; c) inosservanza, erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione circa la configurabilità, pur in presenza di una separazione risalente nel tempo, dell’aggravante del rapporto di coniugio, che, ove ritenuta sussistente, porrebbe problemi di compatibilità con i precetti costituzionali; d) inosservanza, erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla complessiva dosimetria della pena; e) mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza del vizio parziale di mente, all’omesso apprezzamento della documentazione prodotta in proposito dalla difesa, all’omesso espletamento di un’ulteriore perizia medico legale, volta ad accertare l’effettiva capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto.
Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

La premeditazione, configurata come circostanza aggravante nel delitto di omicidio volontario ex art. 577 c.p., comma 1, n. 3, è contraddistinta da due elementi costitutivi: a) un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso (elemento di natura cronologica); 2) la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica).

La prova della premeditazione deve essere necessariamente tratta da fatti estrinseci e sintomatici, quali la causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la predisposizione del mezzo letifero, la ricerca dell’occasione propizia, la violenza e la reiterazione dei colpi inferii.

Nel caso di specie la sentenza impugnata appare conforme ai principi giuridici costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, laddove, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha valorizzato plurimi elementi univocamente indicativi della premeditazione.

Ha, innanzitutto, messo in luce la maturazione del proposito delittuoso in epoca precedente la commissione del fatto, sulla base dell’ esplicita ammissione, fatta da M. nel corso di un litigio familiare, di avere in animo da tempo di uccidere la moglie e dell’indicazione delle modalità con le quale aveva pensato di agire (cfr. deposizione di L.G.).

Ha, poi, richiamato gli specifici riferimenti fatti da M., nel corso di colloqui avuti il giorno antecedente l’omicidio con familiari (cfr. testimonianza di M.L.) e conoscenti (cfr. dichiarazioni rese da L.G.), a futuri impedimenti a seguire le terapie fisitioterapiche e le reiterate richieste di disponibilità sollecitate agli stessi a seguire in sua vece i pazienti.

Ha, quindi, evidenziato che M. aveva preventivamente organizzato il viaggio di rientro a (OMISSIS) della nuova compagna e dei figli – peraltro giunti in Italia da breve tempo – e, nel corso di diversi colloqui, aveva affermato di non essere sicuro di riuscire ad accompagnarli e a "metterli sull’aereo" (v. testimonianze di D.M., L.G., M.L.).

In questo contesto ha, infine, valorizzato il contenuto della testimonianza di Ma.Lu., da tempo sentimentalmente legato alla vittima, che, in plurime occasioni, aveva assistito agli insulti e alle aggressioni verbali del M. nei confronti della Lo. e alle sue manifestazioni violente, concretizzatesi nello sfondare con calci e pugni le porte della casa coniugale.

Dal complesso di questi elementi, sorretti da un’analisi razionale, i giudici di merito hanno desunto che la risoluzione criminosa, da inquadrare in un contesto di aspra conflittualità e di rancore progressivamente accumulato nei confronti della donna, era maturata, quanto meno, dal giorno precedente il fatto ed era rimasta inalterata fino all’incontro con la Lo. la mattina del 17 luglio 2008, giorno in cui l’imputato si era appostato, munito di un coltello di significative dimensioni, fuori dell’ufficio ove lavorava la Lo., aveva atteso il suo arrivo e l’aveva subito aggredita, colpendola reiteratamente in parti vitali del corpo, tanto da cagionare quasi immediatamente il suo decesso.

2. Non fondata è anche la seconda censura.

Ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d’ira", costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determina la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il "fatto ingiusto altrui", costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza, per cui possono rientrarvi, oltre ai comportamenti sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza, anche quelli sconvenienti o, nelle particolari circostanze, inappropriati; c) un rapporto di causalità psicologica tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Sez. 1^, 8 aprile 2008, n. 16790).

Alla luce di tali principi, la sentenza impugnata ha correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della provocazione, tenuto conto dell’assenza di elementi probatori obiettivi e univoci su cui fondare una ricostruzione della condotta della parte offesa, idonea a fondare il riconoscimento dell’attenuante in questione, non potendosi ritenere "fatto ingiusto" la cessazione di un rapporto affettivo e la conseguente separazione, pur se accompagnate da una forte conflittualità.

Nè, sotto altro profilo, può ravvisarsi la provocazione cosiddetta per "accumulo" che, per potere essere riconosciuta, necessita, in ogni caso, della prova dell’esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l’esplosione, in relazione e in occasione ad un ultimo episodio, anche apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si assume sedimentata nel tempo (cfr. Sez. 1^, 22 settembre 2004, n. 40550). Anche in presenza di questa peculiare forma di "provocazione", occorre, comunque, lo "stato d’ira", che ispira l’azione offensiva e rappresenta la ragione giustificatrice del riconoscimento di una minore gravità del fatto, ed è sempre necessario che l’azione dell’imputato costituisca una reazione posta in essere mentre permane lo "stato d’ira". Pur se la norma non richiama espressamente il requisito della simultaneità, della immediatezza, ciò che conta è che il colpevole, provocato, reagisca in stato d’ira (Sez. 1^, 2 marzo 2010, n. 13921; Sez. 1, 6 novembre 2008, n. 1214; Sez. 5^, 2 marzo 2004, n. 24693; Sez. 1^, 3 novembre 1997, n. 701; Sez. 1, 15 novembre 1993; Sez. 1^, 24 settembre 1992, n. 10330).

Nel caso di specie la sentenza impugnata ha argomentato, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, che l’azione omicida ha costituito l’espressione di un’ideazione maturata nella mente dell’imputato in assenza di fattori esterni scatenanti, considerato che la separazione era ormai risalente e che ciascuno dei due coniugi aveva avuto modo di ricostruire la propria sfera affettiva.

3. Priva di pregio è anche la terza doglianza.

Ai fini della sussistenza dell’aggravante del rapporto di coniugio, prevista dall’art. 577 c.p., u.c., è irrilevante l’intervenuta separazione legale tra i coniugi, poichè il regime di separazione attenua il complesso degli obblighi nascenti dal matrimonio, ma non toglie lo status di coniuge, che si perde solo con lo scioglimento del matrimonio stesso (Sez. 1, 9 gennaio 1985, n. 53; Sez. 1, 19 dicembre 2006, n. 42462).

Nel caso di specie, pertanto, sussiste la dedotta aggravante, atteso che l’imputato e la vittima erano separati legalmente.

La questione di legittimità costituzionale, prospettata in subordine dalla difesa in modo assolutamente generico, è, all’evidenza, manifestamente infondata, in quanto la previsione dell’aggravante prevista dall’art. 577 c.p., u.c. è pienamente coerente con quanto stabilito dall’art. 29 Cost..

4. Non fondato è anche il quarto motivo di ricorso relativo al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena.

I giudici di merito, con motivazione correttamente articolata, ha fondato il diniego delle circostanze attenuanti generiche sulla gravità del fatto, sull’intensità del dolo sotteso alla condotta omicidiaria, sul comportamento antecedente e susseguente al reato, caratterizzato da freddezza e grande determinazione.

5. Fondato, invece, nel senso di seguito precisato, è l’ultimo motivo di ricorso.

5.1. La difesa di M. aveva allegato all’atto di appello un parere pro veritate del Prof. V., corredato da documentazione diagnostica, attestante la sussistenza di un disturbo rilevante nella prospettiva di cui all’art. 89 c.p. e su tale produzione aveva fondato la richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale ( art. 603 c.p.p.) e di riconoscimento del vizio parziale di mente.

La sentenza impugnata, pur dando atto nella parte narrativa dello svolgimento della vicenda processuale (f. 8 della sentenza impugnata) dell’esistenza di tale parere, nella parte motiva ne ha omesso qualsiasi apprezzamento e valutazione critica in relazione alle conclusioni del consulente psichiatra dott. A., ai fini dell’esclusione della diminuente di cui all’art. 89 c.p.. Nè d’altra parte, si può ritenere che la questione sia stata affrontata in sede di verifica dei presupposti stabiliti dall’art. 603 c.p.p. (cfr. f.

13 sentenza impugnata), atteso che, in quella sede, la documentazione prodotta dalla difesa è stata esaminata esclusivamente per verificare la necessità o meno, ai fini della decisione, dell’ espletamento di ulteriori attività istruttorie (nella specie la perizia psichiatrica).

5.2. L’omessa valutazione del suddetto parere, da intendere quale memoria difensiva, integra una violazione di legge.

In attuazione della direttiva n. 3, L. n. 81 del 1987, art. 2, l’ art. 121 c.p.p. accorda a parti e difensori il diritto di presentare al giudice in ogni stato e grado del procedimento memorie e richieste scritte (cd. ius postulandi). Il comma 1 della disposizione in esame trova il proprio, pressochè identico precedente nell’art. 145 c.p.p. codice di rito 1930, mentre il comma 2 – di portata più ampia rispetto al previgente art. 305 dell’abrogato codice di procedura penale – è del tutto innovativo. La disposizione in esame è coerente con il principio della parità tra accusa e difesa, che permea il nuovo impianto processuale ed era assolutamente sconosciuta al codice previgente.

Il legislatore del 1988 ha inteso accordare il diritto di presentare memorie e richieste scritte al giudice in ogni stato e grado del procedimento. Come si desume dalla relazione al testo definitivo del codice, l’originario riferimento al processo è stato rimosso, al fine di consentire l’applicazione della norma anche nel corso delle indagini preliminari. Per quello che concerne l’udienza preliminare, la facoltà attribuita alle parti di utilizzare nella fase della discussione anche gli atti e i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della stessa ( art. 421 c.p.p., comma 3) è indicativa del fatto che le memorie e le richieste possono essere prodotte dalle parti e formare oggetto del contraddittorio (Corte Cost., 30 maggio 1991, n. 238).

L’esercizio del diritto di presentare memorie scritte, lungi dall’essere incompatibile con un processo ispirato al principio di oralità, si risolve in un’attività diretta a integrare o a puntualizzare elementi conoscitivi già emersi ed acquisiti e costituisce un’espressione della struttura dialettica del processo, costantemente permeato dalla regola del contraddittorio. La memoria ha, infatti, un contenuto argomentativo, volto a dimostrare e supportare le ragioni della parte circa questioni di fatto e/o di diritto oppure su aspetti tecnici. La peculiarità dell’art. 121 c.p.p., comma 2, consiste, quindi, nello stabilire come immediata l’insorgenza del dovere di provvedere da parte del giudice e nel definire l’ampiezza dello spatium deliberandi concesso prima di far scattare il meccanismo che tramuti tale dovere in obbligo di pronunciarsi su domande determinate delle parti (Sez. 1^, 14 ottobre 2005, n. 45104; Sez. 1^, 7 luglio 2009, n. 31245).

L’ampiezza e la portata della facoltà di presentare memorie è inversamente proporzionata agli spazi dialettici riservati alla difesa. Essa, pertanto, assume una maggiore pregnanza nelle situazioni processuali, quale, nella specie, il giudizio abbreviato, in cui gli spazi concessi alla difesa sono più contratti.

Il giudice al quale viene presentata una memoria deve, perciò, prendere in considerazione il contenuto della stessa e assumerlo a tema dell’indagine, facendolo (direttamente o indirettamente) oggetto della formulazione del proprio giudizio. Una conclusione del genere deriva dal principio generale secondo cui le esigenze di giustizia impongono il vaglio di tutte le ragioni delle parti e di tutti i fatti e le circostanze addotti e riferiti dall’imputato (o indagato).

La mancata valutazione da parte del giudice delle memorie presentate dalle parti o dai difensori si traduce in una carenza della motivazione della decisione, posto che la stessa può risultare indirettamente viziata per la mancata illustrazione di quanto illustrato nella memoria. In siffatta ipotesi si verifica la nullità prevista dall’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto l’omesso e ingiustificato esame delle deduzioni difensive impedisce all’imputato (o indagato) di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto- reato e si risolve nella violazione del diritto, riconosciuto dalla legge all’imputato, di difendersi provando. Negare tali conseguenze, invero, significherebbe ridurre le parti alla situazione di comparse eventuali, disconoscendone la funzione di protagoniste della dialettica processuale (Sez. 1^, 4 aprile 1990, n. 8573; Sez. 6^, 28 maggio 1995, Lajne in Giust. pen. 1996, 3^, 218, 97; Sez. 5^, 15 aprile 1996, Lemmi in Dir. pen. e proc. 1996, 1480; Sez. 1^, 6 maggio 2005, n. 23789; Sez. 1^, 7 luglio 2009, n. 31245).

Sotto questo profilo, dunque, s’impongono l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’assise d’appello di Perugia che dovrà affrontare la problematica della sussistenza o meno del vizio parziale di mente di M. al momento del fatto, tenendo conto anche del parere pro veritate del Prof. V., allegato all’atto di appello.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla capacità d’intendere o di volere e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’assise d’appello di Perugia. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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