Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-02-2011) 24-02-2011, n. 7197

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 15 dicembre 2009 la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza emessa il 15 giugno 2007, all’esito di giudizio abbreviato, dal locale Tribunale, in composizione monocratica, che aveva dichiarato G.G. colpevole del reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, per avere fatto rientro in Italia senza la prescritta autorizzazione ministeriale, dopo essere stato espulso con decreto prefettizio del 19 ottobre 2006, eseguito mediante imbarco su un volo aereo diretto da Milano – Malpensa a Tirana, e, con la riduzione per il rito, lo aveva condannato alla pena di otto mesi di reclusione.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato, il quale formula le seguenti censure.

Innanzitutto lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto, atteso che la condotta contestata nell’ambito del processo dinanzi al Tribunale di Milano (instaurato a seguito dell’arresto dell’imputato in territorio italiano in data 30 maggio 2007) doveva ritenersi compresa nella più ampia contestazione effettuata nel procedimento trattato dal Tribunale di Monza, in conseguenza dell’arresto di G.G., avvenuto il 23 gennaio 2009 in quel territorio, e definito con sentenza di applicazione concordata della pena di sei mesi di reclusione, subordinata alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

In secondo luogo deduce mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso, avente carattere pregiudiziale rispetto all’altro, è fondato.

1. Il principio del ne bis in idem permea l’intero ordinamento giuridico e fonda il preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va, pertanto, attribuito, il ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, ai norma dell’art. 12 preleggi, comma 2, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione logico-sistematica. La sua matrice deve essere identificata nella categoria della preclusione processuale, ben nota alla teoria generale del processo, sia civile che penale. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del legislatore. Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di determinati criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le esigenze di giustizia, di certezza e di economia.

Questa impostazione teorica rende evidente che la preclusione costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra loro, ciascuno dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere. In quest’ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere. Nel perimetro della preclusione-consumazione ricade, oltre all’esercizio dell’azione penale, anche il potere di ius dicere ad opera del giudice, secondo quanto costantemente affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr.

Cass., Sez. Un. 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799; Cass., Sez. Un. 14 luglio 2004, rv. 228666; Cass., Sez. Un. 31 marzo 2004, rv.

227358; Cass., Sez. Un. 18 maggio 1994, r. 198543; Cass., Sez. Un. 29 maggio 2002, rv. 221999; Cass., Sez. Un. 22 marzo 2000, rv. 216004;

Cass., Sez. Un. 19 gennaio 2000, rv. 216239; Cass., Sez. Un. 23 febbraio 2000, rv. 215411; Cass, Sez. Un., 10 dicembre 1997, rv.

209603; Cass., Sez. Un. 31 luglio 1997, rv. 208220; Cass., Sez. Un., 26 marzo 1997, rv. 207640; Cass., Sez. Un. 18 giugno 1993, rv.

194061; Cass., Sez. Un. 8 luglio 1994, rv. 198213; Cass., Sez. Un. 23 novembre 1990, rv. 186164; Corte Cost., sent. n. 318 del 2001, n. 144 del 1999, n. 27 del 1995).

2. Il ne bis in idem è, quindi, finalizzato ad evitare che per lo "stesso fatto" – inteso, ai fini della preclusione connessa al predetto principio, come corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi del reato (condotta, evento, nesso casuale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, (Cass., Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799; Cass., Sez. 1^, 21 aprile 2006, n. 19787, rv. 234176; Cass., Sez. 2^, 18 aprile 2008, n. 21035, rv. 240106) – si svolgano più procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, e trova la sua espressione in rapporto alle diverse scansioni procedimentali disegnate dal legislatore.

In primis l’art. 28 c.p.p. appresta il rimedio atto a risolvere le ipotesi di litispendenza risultanti dalla simultanea instaurazione dinanzi a giudici diversi di due processi contro la stessa persona per il medesimo fatto, dato che la contemporanea cognizione dell’identica regiudicanda ad opera di giudici differenti, uno dei quali è certamente incompetente, integra un conflitto positivo, risolubile proprio con l’applicazione delle disposizioni degli artt. 28 e ss. c.p.p.. In simili casi, il criterio di risoluzione della litispendenza è costituito dall’applicazione delle disposizioni del codice che regolano la competenza, che devono sempre prevalere sui parametri empirici della progressione (Cass., Sez. 1^, 23 novembre 2004, Murati; Cass., Sez. 3^, 23 aprile 1995, rv. 204728) o della maggiore ampiezza della regiudicanda (Cass., Sez. 1, 20 giugno 1997, rv. 208240; Cass., Sez. 1^, 10 novembre 1989, rv. 18255), il cui impiego è consentito a condizione che la concentrazione dei procedimenti si realizzi dinanzi al giudice precostituito per legge in base alle norme sulla competenza.

L’art. 649 c.p.p., a sua volta, collega il divieto in questione alla pronuncia di una sentenza o di un decreto penale divenuti irrevocabili, ma, come sottolineato dalla Corte Costituzionale (cfr. sent. n. 27 del 1995, n. 318 del 2001, n. 39 del 2002), ha in realtà una dimensione applicativa più ampia di quella che traspare dall’enunciazione letterale, essendo la disposizione strettamente correlata al principio generale dell’ordinamento processuale che vieta la duplicazione del processo contro la stessa persona per il medesimo fatto (Cass., Sez. 3^ 5 aprile 2005, P.G. in proc. Chiarolini; Cass., Sez. 6^, 18 novembre 2004, rv. 230760; Cass., Sez. 1^, 30 aprile 2003, Morteo, rv. 225004; v.). Coerentemente con tale impostazione le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato il seguente principio di diritto: "le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, semprechè i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria" (Cass., Sez. Un. 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799).

Infine, in fase esecutiva trova applicazione l’art. 669 c.p.p..

3. I giudici d’appello, investiti dalla difesa dell’imputato della questione concernente la possibile violazione del principio del ne bis in idem, hanno proceduto alla riapertura dell’istruttoria dibattimentale, volta all’acquisizione della sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza ai sensi dell’art. 444 c.p.p., avente ad oggetto un’analoga violazione di inosservanza del medesimo decreto prefettizio di espulsione posta in essere dall’imputato. All’esito di tale attività, però, non hanno fornito alcuna compiuta risposta alle censure mosse dall’imputato, limitandosi ad affermare, in modo apodittico, l’inconferenza della documentazione acquisita ai "fini difensivi".

Si verte, all’evidenza, in un’ipotesi di mancanza di motivazione. In tale vizio devono essere ricondotti tutti i casi nei quali (come nella fattispecie sottoposta all’esame della Corte) la motivazione risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito ovvero le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 25080; Sez. Un. 28 gennaio 2004, n. 5876).

Per tutte queste ragioni s’impone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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