Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 18-04-2011, n. 8806 Illeciti disciplinari Procedimento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Sezione disciplinare del CSM, con sentenza n. 67 del 2005, depositata il 20 settembre 2005, ha condannato la Dott.ssa D. G.A. alla sanzione dell’ammonimento per inosservanza del R.D.Lgs. 31 maggio 1946 n. 511, art. 18, per aver gravemente violato, con una intervista rilasciata ad un quotidiano in data 23 maggio 2003, il dovere di riserbo, correttezza e rispetto nei confronti di un collega noto, accreditando l’insinuazione che questi fosse l’ispiratore (e beneficiario nell’interesse della figlia) delle manovre fraudolente poste in essere da un componente della commissione esaminatrice nel concorso per uditore giudiziario. La decisione è stata poi confermata dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 16 giugno 2006 n. 13532).

Con istanza del 7 gennaio 2010 la Dott.ssa D.G. ha chiesto alla Sezione disciplinare del C.S.M. la revoca della condanna ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., invocando l’applicazione del principio di retroattività delle disposizioni più favorevoli di cui all’art. 2 cod. pen. sull’assunto che, a seguito della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 109 del 2006, la condotta per la quale aveva subito la sanzione non costituisse più illecito disciplinare.

Con ordinanza depositata il 27 aprile 2010 la Sezione disciplinare ha rigettato il ricorso sottolineando l’inapplicabilità al sistema disciplinare del principio di retroattività della disciplina più favorevole regolato dall’art. 2 cod. pen., attesa la natura amministrativa delle relative sanzioni e, comunque, l’esistenza di una specifica autonoma regolamentazione nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis. Rilevava, in ogni caso, che la condotta contestata non poteva ritenersi scriminata, restando, in ipotesi, sussumibile nelle fattispecie di cui all’art. 2, comma 1 lett. d) e art. 4, comma 1, lett. d) del suddetto D.Lgs..

La Dott.ssa D.G. ha impugnato la suddetta ordinanza con ricorso fondato su quattro distinti motivi. Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2 cod. pen., con riferimento alla statuizione con la quale la Sezione Disciplinare del CSM ha rigettato l’istanza proposta dalla ricorrente ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.. Deduce l’erroneità dell’assunto, su cui è basata la decisione impugnata, secondo cui, in tema di procedimento disciplinare, non è possibile applicare il principio, proprio del diritto penale, della retroattività della disposizione più favorevole. Ad avviso della ricorrente il suddetto assunto troverebbe smentita nella norma transitoria contenuta nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, che prevede, secondo la tesi svolta nel motivo di ricorso, l’applicazione agli illeciti disciplinari del principio di retroattività della norma più favorevole.

Col secondo motivo la ricorrente deduce la sussistenza di un profilo di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis (in riferimento all’art. 3 Cost.) come interpretato dalla Sezione Disciplinare. Sostiene, infatti, che la corretta applicazione del principio della legge più favorevole non può essere sacrificato dall’ingiustificato sbarramento temporale introdotto dal citato art. 32 bis nella parte in cui stabilisce che Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla data della sua entrata in vigore. Tale sbarramento, ad avviso della ricorrente, non appare sorretto da giustificazioni logico-giuridiche nè ispirato a finalità tali da giustificare il diverso trattamento riservato ai destinatari della normativa suddetta.

Col terzo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 2 cod. pen., comma 2, e del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, nonchè vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento, da parte della decisione impugnata, dell’intervenuta abolitio criminis.

Premesso che l’addebito disciplinare di cui è stata ritenuta responsabile (aver gravemente violato, con una intervista rilasciata ad un quotidiano in data 23 maggio 2005, il dovere di riserbo, correttezza e rispetto nei confronti di un collega) era inquadrato nella fattispecie prevista dal R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, deduce che tale fattispecie deve ritenersi non più disciplinarmente rilevante a seguito dell’abrogazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, comma 2, lett. bb), ad opera della L. n. 269 del 2006. Pertanto i comportamenti che erano stati posti alla base della sanzione comminatale non sono più sanzionabili non essendo riconducibili ad alcuna delle fattispecie previste dal citato D.Lgs. come modificato dalla L. n. 269 del 2006.

Sotto altro profilo, nell’ambito dello stesso motivo di ricorso, viene denunciata violazione dell’art. 2 cod. pen., comma 4, e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) e art. 4, nonchè vizio di motivazione in relazione alla ritenuta continuità normativa tra l’ipotesi di illecito di cui al R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18 e quelle previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006. Deduce in particolare che l’intervista non è riconducibile nell’ambito dei comportamenti abituali di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d).

Col quarto motivo la ricorrente deduce un profilo di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis e dell’art. 2 cod. pen., in riferimento all’art. 117 Cost., per contrasto con gli artt. 6 e 7 della CEDU ove interpretati nel senso che escludono l’applicazione della disciplina successiva più favorevole al procedimento disciplinare.

Deve preliminarmente osservarsi che l’ordinanza della Sezione Disciplinare del CSM, ha posto a fondamento della propria decisione due distinte rationes decidendi, ciascuna delle quali è sufficiente da sola a sorreggere la decisione impugnata; ed infatti, sotto un primo profilo, ha affermato l’inapplicabilità al sistema disciplinare del principio di retroattività della disciplina più favorevole regolato dall’art. 2 cod. pen., attesa la natura amministrativa delle relative sanzioni e, comunque, l’esistenza di una specifica autonoma regolamentazione nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis. Sotto altro profilo ha ritenuto che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la condotta per la quale la stessa aveva subito la sanzione disciplinare non era divenuta disciplinarmente irrilevante atteso che essa era sussumibile nelle fattispecie previste, in particolare, dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d).

Secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità, nell’ipotesi di decisione basata su distinte rationes decidendi, è sufficiente che una sola di esse resista alle censure svolte nei suoi confronti perchè il ricorso debba essere rigettato; in questi termini si è espressa, in particolare, Cass. 24 maggio 2006 n. 12372, secondo la quale, infatti, quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi, ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate; con la conseguenza che, ove venga rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta. (In argomento cfr. pure Cass. 20 novembre 2009 n. 24540).

Nel caso di specie il terzo motivo di ricorso, col quale viene censurata la seconda delle rationes decidendi sopra indicate, deve essere esaminato per primo in quanto logicamente preliminare.

Come si è in precedenza accennato la ricorrente sostiene che l’addebito del quale è stata ritenuta disciplinarmente responsabile ai sensi del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18 – consistito nell’aver rilasciato ad un quotidiano un’intervista con la quale era stato violato il diritto di riserbo, correttezza e rispetto nei confronti di un collega – non sarebbe più rilevante a seguito dell’abrogazione della fattispecie disciplinare prevista dall’art. 2, comma 1, lett. bb) (rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura), del D.Lgs. n. 109 del 2006, abrogazione disposta dalla L. n. 269 del 2006. Nè gioverebbe, secondo la ricorrente, trarre argomenti in contrario dal fatto che in base al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. v), viene considerata disciplinarmente rilevante il comportamento costituito da pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo, riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, atteso si tratterebbe di fattispecie affatto diversa da quella per la quale la Dott.ssa D. G. ha subito la sanzione disciplinare. Infine il richiamo alla fattispecie prevista dall’art. 2, comma 1, lett. d) mal si concilierebbe con la condotta contestata (una intervista), priva del requisito dell’abitualità previsto dalla norma citata.

La tesi della ricorrente non può essere condivisa.

Con riferimento all’ipotesi di successione di leggi penali le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU. Pen. 26 febbraio 2009 n. 24468) hanno enunciato il principio per cui in caso di modifica della norma incriminatrice, per accertare se ricorra, o meno, un’ipotesi di abolitio criminis è sufficiente procedere al confronto strutturale fra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, quella precedente e quella successiva all’intervento del legislatore, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune alle dette fattispecie, senza la necessità di ricercare conferme della continuità, facendo ricorso ad altri criteri, ed in particolare a quello delle modalità dell’offesa, ritenuto inidoneo ad assicurare approdi interpretativi sicuri. Solo quando l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis nel senso che il fatto già penalmente rilevante diventa penalmente irrilevante.

Premesso che la logica sottesa a tale principio può essere applicata, mutatis mutandis, anche all’ipotesi, che ricorre nella fattispecie in esame, di successione di norme che individuano condotte disciplinarmente rilevanti con riferimento alla disciplina degli illeciti dei magistrati, deve escludersi, sulla base di un confronto strutturale fra le fattispecie legali astratte che si sono succedute nel tempo, la sussistenza di una abolitio criminis.

Ed infatti il comportamento ritenuto disciplinarmente rilevante a norma dell’abrogato R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 (ai sensi del quale il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari …) è costituito, nel caso di specie, dalla violazione del dovere di riserbo, correttezza e rispetto nei confronti di un collega, attuata mediante un’intervista rilasciata ad un giornale nella quale si accreditava che questi fosse l’ispiratore di manovre fraudolente per favorire la propria figlia.

Tale violazione, come correttamente rilevato nell’ordinanza della Sezione Disciplinare oggetto del presente ricorso, ricade certamente nella previsione di cui al citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), che prevede come separata ed autonoma ipotesi (come si desume chiaramente dall’uso, nel testo normativo, della congiunzione disgiuntiva), rispetto ai comportamenti abitualmente scorretti, quella dei comportamenti gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati; e tale conclusione trova conferma nel rilievo che, come recentemente affermato da Cass. SU. civ. 24 giugno 2010 n. 15314 (in motivazione) la realizzazione dei fatti materiali elencati nel citato art. 2 costituisce, in sostanza, violazione dei doveri che il magistrato deve rispettare ai sensi dell’art. 1 del medesimo D.Lgs., e cioè quello di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona. Con l’ulteriore conseguenza che l’area dell’illecito disciplinare non risulta ristretta rispetto a quanto previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 (così la sentenza da ultimo citata).

Dall’infondatezza delle censure attinenti questa autonoma ratio decidendi deriva, in base ai principi prima enunciati, l’inammissibilità delle censura concernenti l’altra.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese di questo giudizio di cassazione, in difetto di costituzione delle parti intimate.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *