Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-12-2010) 25-02-2011, n. 7547

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 15-2-2008 il Tribunale di Napoli ha dichiarato C.S., Ci.Al., D.L.C., Di.

L.C., D.L.M., E.F. e M. A. colpevoli del reato di cui all’art. 416 bis c.p. loro ascritto al capo A) della rubrica, con esclusione dell’aggravante di cui al comma 6, e C.S. anche del reato di estorsione di cui al capo O) e, riuniti sotto il vincolo della continuazione i reati ascritti al C., ha condannato quest’ultimo alla pena di anni dodici di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, il Ci. alla pena di anni cinque di reclusione, D. L.C. e D.L.M. alla pena di anni quattordici di reclusione ciascuno, Di.La.Co. alla pena di anni quindici di reclusione, l’ E. e il M. alla pena di anni dieci di reclusione ciascuno.

In particolare, al capo A) della rubrica agli imputati veniva contestata la partecipazione (dal gennaio del 2000 al dicembre del 2004, con condotta ancora in atto) ad un’associazione camorristica operante nei quartieri di Secondigliano e Scempia e nei Comuni di Melito, Mugnano, Arzano e Casavatore, finalizzata, anche allo scopo di mantenere il controllo del territorio, alla commissione di una pluralità di reati (omicidi, estorsioni, spaccio di sostanze stupefacenti, contrabbando di T.L.E., porto e detenzione di armi da guerra e comuni da sparo, riciclaggio); associazione che, dal settembre 2004, si è contrapposta in armi ad altro sodalizio criminoso, delineato al capo B), denominato degli Scissionisti e degli Spagnoli, composto da ex affiliati. Nello specifico, a Di.

L.C., M. e C. veniva addebitato di aver promosso, diretto e organizzato l’associazione, mentre a Ci. e C. veniva attribuito il ruolo di gregari del sottogruppo operante a Melito, ed a M. ed E. il ruolo di killer.

Con sentenza in data 23-6-2009 la Corte di Appello di Napoli, nel dare atto che C.S., D.L.C., Di.La.

C., D.L.M. ed E.F. hanno rinunciato a tutti i motivi di appello originariamente proposti, limitando il gravame alla richiesta di riduzione di pena, ha ridotto la pena inflitta al C. ad anni nove, mesi otto di reclusione ed Euro 1.800,00 di multa, quella inflitta a D.L.C., Di.La.

C. e D.L.M. ad anni undici e mesi due di reclusione ciascuno, e quella inflitta all’ E. ad anni sette e mesi sette di reclusione; ha confermato integralmente, invece, la decisione di primo grado nei confronti del Ci. e del M..

Tutti i predetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello.

D.L.C., Di.La.Co., D.L.M. ed E. F., con ricorso proposto a mezzo del comune difensore avv. Vittorio Giaquinto, lamentano con un unico motivo la mancanza di motivazione in relazione alla insussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e alle ragioni che hanno indotto alla determinazione della pena.

Con altro ricorso a firma dell’avv. Domenico Izzo, D.L.C. denuncia l’erronea applicazione della legge penale, con riguardo alla ritenuta appartenenza dell’imputato al sodalizio criminoso anche dopo la data del suo fermo. Deduce che tale errore di diritto ha inciso sulla quantificazione della pena inflitta al prevenuto.

C.S., con due motivi, si duole della mancanza e illogicità della motivazione in ordine alle censure mosse con l’atto di appello e al trattamento sanzionatorio.

Ci.Al., con ricorso proposto a mezzo dell’avv. Massimo Krogh, deduce con un primo motivo violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla convalida del provvedimento del P.M. con cui sono state disposte le intercettazioni ambientali nel carcere di Poggioreale. Sostiene che le intercettazioni ambientali rappresentavano un fatto del tutto diverso rispetto a quelle telefoniche e richiedevano, pertanto, una pronuncia autonoma, che invece nella specie è mancata. Erroneamente, di conseguenza, la Corte di Appello ha ritenuto che l’omessa convalida nel termine delle intercettazioni ambientali costituisse un mero errore materiale, sanato dal successivo provvedimento integrativo emesso fuori termine.

Non è consentita, infatti, un’interpretazione sostitutiva per ricostruire come esistente qualcosa che non esiste.

Con un secondo motivo il ricorrente lamenta la mancanza ed illogicità della motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 416 bis c.p., in relazione alla ritenuta appartenenza dell’imputato all’associazione camorristica di cui al capo A) della rubrica.

Deduce, in particolare, che la Corte di Appello, nel valorizzare, ai fini dell’affermazione di responsabilità del prevenuto per il reato associativo, la cooperazione prestata dal Ci. nell’omicidio del B. e nel dare alle intercettazioni telefoniche un’interpretazione opposta rispetto a quella alle stesse data dalla Corte di Assise nel procedimento relativo a tale vicenda delittuosa, ha omesso ogni indagine circa la compatibilità logica della sua decisione col giudicato assolutorio formatosi in ordine al suddetto omicidio. Tale compatibilità non sussiste, in quanto l’imputazione per il reato associativo si basa esclusivamente sull’asserita collaborazione dell’imputato nell’azione omicidiaria, che era stata ritenuta non provata dalla Corte di Assise. La Corte di Appello, inoltre, non ha tenuto conto delle dichiarazioni dei collaboranti Es., Co. e P., i quali hanno affermato di non conoscere il Ci. e di non sapere nemmeno chi fosse; il che vale a comprovare in modo certo l’estraneità dell’imputato al sodalizio criminoso. Per sostenere il proprio ragionamento, il giudice del gravame ha ignorato parti importanti delle conversazioni intercettate, richiamate nei motivi di appello, ed ha stravolto il contenuto di altre telefonate. La motivazione è illogica, in particolare, nella parte in cui ha individuato nell’imputato la persona "con le lenti" cui si fa riferimento nella prima telefonata presa in considerazione nella sentenza impugnata. Altra illogicità si rinviene nell’interpretazione di un messaggio sms intercettato in data 11-4-2004, che, secondo i giudici di merito, starebbe a dimostrare che gli avversari del B. intendevano approfittare dei rapporti della vittima con il Ci. (ex sindaco di Melito) per tenderle un agguato presso il vivaio di quest’ultimo. Anche le telefonate del 25-4-2004 sono state erroneamente interpretate come dimostrative della partecipazione del Ci. all’associazione o, meglio, della disponibilità dell’imputato a contribuire all’assassinio del B., in stridente contrasto con le conclusioni della sentenza assolutoria della Corte di Assise passata in giudicato, che dalle stesse telefonate aveva desunto la prova che l’imputato, anche se contattato e avvicinato, non aveva dato il suo contributo alla vicenda omicidiaria. Quanto ai colloqui intercettati nel carcere di Poggioreale tra l’imputato e il cognato Ma.

S., dalle stesse emerge in modo evidente che il C., lungi dall’essere un camorrista, era stato vittima delle estorsioni del clan operante nella zona di Melito, come riferito in primo grado anche dai testi R.G. (socio del prevenuto) e M. F. (contabile della società), ritenuti inattendibili dal Tribunale ma successivamente assolti nel procedimento penale intentato nei loro confronti per il reato di falsa testimonianza.

Con un terzo motivo il ricorrente si duole della mancata assunzione di una prova decisiva. In particolare, lamenta la mancanza assoluta di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione del dibattimento per la nuova audizione dei testi R.G. e Ma.Fr., le cui dichiarazioni accreditavano la tesi della difesa secondo cui il Ci. era destinatario di estorsioni da parte del gruppo malavitoso di Melito. Deduce, inoltre, che la Corte di Appello ha ritenuto, sulla base di una personale interpretazione delle due telefonate fatte dal Ci. a Ma.St. il 25-4- 2004, inutile l’audizione dei testi m. e D.G. (rispettivamente assessore alle politiche sociali e sindaco del Comune di Melito), i quali avrebbero potuto chiarire la reale portata di tali colloqui, inerenti a una questione urgente di fossi e avvallamenti della villa comunale.

Con altro ricorso proposto nell’interesse dello stesso Ci. l’avv. Giovanni Aricò, nell’associarsi alle ragioni di censura esposte dall’avv. Krogh, ha evidenziato, in particolare, con riferimento alle intercettazioni ambientali, che il Tribunale e la Corte di Appello hanno indebitamente trasformato l’atto "integrativo del decreto 12-11-2004" emesso il 15-11-2004 dal GIP in un provvedimento di correzione materiale del decreto autorizzativo del 12-11-2004. Nella specie, un provvedimento di correzione non è mai esistito; e, tra l’altro, esso avrebbe dovuto essere adottato, a pena di nullità, nel previo contraddittorio delle parti, così come previsto dall’art. 130 c.p.p..

Con un secondo motivo il ricorrente si duole della mancanza e manifesta illogicità di motivazione in ordine alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, i quali hanno riferito non solo di non conoscere il Ci., ma di non averne nemmeno sentito parlare come partecipe o quanto meno come contiguo al sodalizio criminoso. La valutazione espressa dalla Corte di Appello, secondo cui l’ignoranza dei collaboratori poteva discendere dal ruolo del Ci., che non è un killer, è manifestamente illogica: non è ipotizzatole, infatti, che i componenti di un sodalizio criminoso operante in un piccolo centro come Melito potessero ignorare la compartecipazione organica o almeno la contiguità di una persona che non era un cittadino qualsiasi, ma un imprenditore del luogo che era stato a lungo sindaco di quel centro. La motivazione è illogica anche nella parte in cui, pur non avendo negato il fatto storico che l’imputato era vittima di estorsioni sistematiche, ha ritenuto trattarsi di un taglieggiamento "amichevole".

Con lo stesso motivo, viene denunciata la violazione dell’art. 238 bis c.p.p., in relazione all’irrevocabile assoluzione del Ci. dall’addebito di concorso nell’omicidio del B.. Si deduce che i giudici di merito avrebbero dovuto prendere atto del fatto accertato dalla Corte di Assise, secondo cui il Ci. non si era prestato ad alcuna collaborazione in tale azione delittuosa. Essi, al contrario, in base alla stessa prova già esaminata nel processo per concorso in omicidio, hanno sostanzialmente ritenuto il Ci. colpevole di tale delitto. La Corte distrettuale ha altresì violato l’art. 533 c.p.p., atteso che la precedente assoluzione costituiva quanto meno quel "ragionevole dubbio" che non consente la pronuncia di condanna.

Con un terzo motivo il ricorrente lamenta la mancanza assoluta di motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 603 c.p.p., in relazione alla richiesta di rinnovazione del dibattimento ai fini dell’escussione dei testi R. e Ma., i quali avrebbero potuto riferire su una circostanza fondamentale, rappresentata dal "taglieggiamento" subito dal Ci. ad opera di quelli che, secondo l’ipotesi accusatoria, dovrebbero essere i suoi accoliti.

M.A. deduce in primo luogo violazione di legge e mancanza e illogicità della motivazione, nella parte in cui ha ritenuto che, nonostante le discrasie ravvisatoli nel racconto dei collaboranti Es. e R., il fatto che entrambi abbiano indicato l’imputato quale membro del gruppo di fuoco destinato all’eliminazione del Mi. starebbe a dimostrare che i predetti erano certi dell’appartenenza del prevenuto all’organizzazione criminale dei Di Lauro. Il ricorrente, inoltre, lamenta la violazione dell’art. 416 bis c.p. e la mera apparenza della motivazione, in relazione al valore indiziario attribuito ad altri elementi (frequentazioni, indagini per spaccio ed estorsione, possesso di cellulari senza batteria e di una pistola). Sostiene che la motivazione è apparente e contraddittoria anche con riferimento alla individuazione degli elementi indiziari dimostrativi dell’inserimento dell’imputato nel gruppo di fuoco rintanato nell’appartamento di via (OMISSIS). La motivazione è meramente apparente altresì nella parte in cui ha fatto riferimento ad alcune conversazioni intercettate senza citarne o illustrarne il contenuto.

La valutazione dell’attendibilità delle chiamate in correità operate dai collaboratori di giustizia Es. e R. è stata effettuata in spregio all’art. 192 c.p.p., comma 3, vertendo tali dichiarazioni su circostanze incontrollabili, non percepite direttamente e sconfessate da elementi oggettivi. La motivazione, infine, è lacunosa e contraddittoria anche in relazione al trattamento sanzionatorio, avendo la Corte di Appello ritenuto ostativo alla richiesta di riduzione di pena avanzata dall’appellante esclusivamente il ruolo assunto dall’imputato, che peraltro è simile o di minore spessore rispetto a quello di altri imputati che hanno rinunciato agli altri motivi di ricorso, per i quali, invece, si è proceduto ad una riduzione di pena.
Motivi della decisione

1) I ricorsi proposti nell’interesse di D.L.C., Di.La.

C., D.L.M., E.F. sono inammissibili, contenendo censure generiche e, comunque, manifestamente infondate.

La Corte di Appello ha dato atto (p. 10) che i predetti appellanti hanno rinunciato a tutti i motivi di appello, ad eccezione di quelli concernenti la misura della pena. Dato l’effetto devolutivo dell’appello, pertanto, l’indagine di merito rimaneva circoscritta ai soli motivi di impugnazione non rinunciati; sicchè, contrariamente a quanto dedotto dai D.L. e dall’ E., il giudice del gravame non era tenuto a motivare in ordine alla insussistenza di cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 c.p.p., che la rinuncia ai motivi attinenti alla responsabilità dei prevenuti lasciava anzi presumere.

Come è stato evidenziato da questa Corte, d’altro canto, pur sussistendo il potere del giudice di appello di applicare, ove ricorrano i presupposti, l’art. 129 c.p.p., la doglianza relativa alla mancata applicazione di tale norma, in sede di legittimità, non può risolversi nella denuncia di mera omissione formale o di genericità di tale delibazione, ma deve contenere l’indicazione degli elementi concreti che, rettamente considerati e valutati, avrebbero dovuto condurre ad una declaratoria di proscioglimento d’ufficio (Cass. Sez. 6, 12-11-2009 n. 46280; Sez. 5, 18-5-2006 n. 19511; Sez. 6, 24-4-2002 n. 31514). Nel caso di specie, le deduzioni svolte dai ricorrenti si risolvono in affermazioni meramente apodittiche e assertive, prive di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta.

Analoghe considerazioni valgono con riferimento alle doglianze mosse nell’interesse di D.L.C. nel ricorso a firma dell’avv. Izzo, non potendo il ricorrente, che ha rinunciato ai motivi di appello attinenti alla responsabilità, dolersi dell’erroneità della contestazione del periodo di protrazione della sua partecipazione al sodalizio camorristico. I rilievi mossi, inoltre, sono formulati in termini del tutto generici, non recando nemmeno l’indicazione della data del fermo dell’imputato, alla quale, secondo il ricorrente, si arresterebbe l’adesione di quest’ultimo all’associazione camorristica.

2) Allo stesso modo, avendo C.S. rinunciato a tutti i motivi di appello, ad eccezione di quelli concernenti la pena, il giudice del gravame non era tenuto a motivare in ordine alle censure del predetto appellante che investivano l’affermazione di responsabilità per il reato di estorsione.

Le critiche rivolte dallo stesso ricorrente in ordine al trattamento sanzionatorio sono manifestamente infondate. Come è noto, infatti, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ambito dei poteri discrezionali riservati al giudice di merito, il quale, per assolvere l’obbligo di motivazione su esso gravante in materia, non è tenuto ad una analitica enunciazione di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, presi in considerazione dall’art. 133 c.p., ma può limitarsi alla sola indicazione di quelli ritenuti determinanti per la soluzione adottata. Nel caso di specie, la Corte di Appello ha dato atto di aver ridotto la pena nella misura da essa ritenuta congrua in rapporto alla reale entità e gravità dei fatti. La decisione impugnata, pertanto, risulta sorretta, sul punto, da sufficiente motivazione, idonea a dar conto del corretto esercizio del potere discrezionale riservato in materia al giudice di merito, attraverso il riferimento agli elementi da questi ritenuti, nel rispetto dei parametri previsti dal citato art. 133 c.p. e con apprezzamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, più significativi ai fini della graduazione della pena.

Anche il ricorso in esame, pertanto, si rivela inammissibile.

3) Alla declaratoria di inammissibilità dei predetti ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna di D.L. C., Di.La.Co., D.L.M., E.F. e C.S. al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo fissare per ciascuno di essi in Euro 1.000,00. 4) Le deduzioni svolte col primo motivo di ricorso da entrambi i difensori di Ci.Al. sono infondate, apparendo corrette le argomentazioni addotte dalla Corte di Appello per superare l’eccezione di inutilizzabilità delle conversazioni ambientali intercettate presso il carcere di Poggioreale tra Ma.St. e i suoi familiari, già disattesa in primo grado e reiterata con i motivi di appello.

Deve premettersi che con decreto emesso alle ore 12,30 dell’11-11- 2004 il Pubblico Ministero disponeva in via d’urgenza, oltre alle intercettazioni su quattro utenze telefoniche (in uso rispettivamente a T.A., I.G., B.P. e D.F.), alcune intercettazioni di conversazioni tra presenti, tra cui quelle che avrebbero avuto luogo all’interno della sala colloqui del carcere di Poggioreale tra Ma.St. e i suoi familiari.

Secondo la tesi del ricorrente, il GIP del Tribunale di Napoli, con decreto motivato del 12-11-2004, avrebbe convalidato solo le intercettazioni telefoniche, e non anche quelle ambientali effettuate all’interno del carcere di Poggioreale; intercettazioni, queste ultime, che sarebbero state invece convalidate solo con successivo provvedimento integrativo emesso il 15-11-2004, e quindi oltre i termini di cui all’art. 267 c.p.p., comma 2. Di qui la dedotta inutilizzabilità delle conversazioni intercorse nell’istituto penitenziario tra il Ma. e i suoi familiari (tra i quali il Ci.) in data 11 e 18-11-2004, dal cui tenore i giudici di merito hanno tratto argomenti confermativi del pieno inserimento del Ci. nel clan camorristico Di Lauro.

Tale assunto non può essere condiviso.

E invero, come è stato evidenziato nella sentenza impugnata, il decreto di convalida emesso il 12-11-2004, redatto su un foglio prestampato con l’intestazione "decreto di convalida di intercettazione" e il dispositivo "convalida il decreto di intercettazione sopra indicato", è stato compilato dal GIP, a penna, con l’indicazione del suo nome, per quanto riguarda l’intestazione;

con la indicazione della data del decreto convalidando e di tre utenze telefoniche, nella parte narrativa; con la frase "permangono e sussistono i presupposti della indispensabilità e urgenza evidenziati dal P.M. nel suo decreto di intercettazione in corso d’urgenza ed alle cui motivazioni ci si riporta nel presente provvedimento e ciò anche alla luce 1^ Sez. Mobile Napoli dell’11-11- 2004", nella parte motiva.

Orbene, correttamente la Corte di Appello ha rilevato che col provvedimento in esame, al di là del riferimento alle intercettazioni disposte su tre utenze telefoniche, contenuto nella sola parte narrativa, il GIP ha inteso convalidare il decreto d’urgenza nella sua interezza e, quindi, anche con riguardo alle intercettazioni ambientali. Appare inequivoco, al riguardo, il tenore della motivazione e del dispositivo, in cui è fatto richiamo integrale al provvedimento del P.M., senza limitazioni di sorta rispetto a quanto in esso disposto. In definitiva, una globale valutazione del decreto in parola, nell’insieme di motivazione e dispositivo, porta ad escludere qualsiasi incertezza circa la reale portata della volontà del giudice, rendendo palese che la mancata indicazione, nella parte narrativa, delle intercettazioni ambientali disposte in via d’urgenza, è frutto di una mera omissione materiale, non incidente sull’effettivo dictum del provvedimento, rappresentato dalla convalida dell’intero decreto del P.M. E ciò, come è stato esattamente ritenuto dal giudice di appello, a prescindere dai successivi decreti integrativi emessi dallo stesso GIP, che, per le ragioni esposte, si rendevano superflui.

Ne consegue la piena utilizzabilità delle intercettazioni ambientali in questione, essendo il provvedimento di convalida intervenuto nel termine di 48 ore dal decreto d’urgenza del P.M., prescritto dal citato art. 267 c.p.p., comma 2. 5) Le censure di violazione di legge prospettate dai difensori col secondo motivo di ricorso sono prive di fondamento.

Nell’impugnata sentenza la Corte di Appello ha dato atto che il Ci., con sentenza irrevocabile, è stato assolto per non aver commesso il fatto dall’imputazione di concorso nell’omicidio di B.F., avvenuto il 26-4-2004. Essa, tuttavia, in conformità del giudizio espresso dal giudice di primo grado, ha ritenuto che gli elementi acquisiti in ordine a detta vicenda delittuosa, pur rivelandosi inidonei a fondare un giudizio di responsabilità del Ci. per tale specifica condotta criminosa, assumono valenza probatoria pregnante riguardo alla disponibilità assicurata dal prevenuto al clan Di Lauro e, quindi, alla sua affectio societatis.

Ciò posto, si osserva che i giudici di merito, nel valutare, ai fini della prova dell’appartenenza del Ci. al sodalizio camorristico in questione, unitamente agli altri elementi emergenti dagli atti, circostanze già esaminate nel procedimento per l’omicidio del B., conclusosi con l’assoluzione del Ci., non sono affatto incorsi nella violazione dell’art. 649 c.p.p..

Come è stato più volte chiarito da questa Corte, il divieto di un secondo giudizio, previsto dalla citata norma di legge, impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato, ma non di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo in riferimento a diverso reato, dovendo la vicenda criminosa essere valutata alla luce di tutte le sue implicazioni penali, con il possibile riesame in direzione di ipotesi di delitto rimaste estranee al giudizio precedente (Cass. Sez. 4, 11-11-2004/16-3-2005 n. 10180; Sez. 6, 9-10-2007/10-1-2008 n. 1157; Sez. 5, 14-10-2009 n. 16556). Pertanto, l’assoluzione definitiva dall’imputazione di concorso in omicidio non preclude al giudice la possibilità di riconsiderare, con valutazione anche diversa o alternativa r la condotta tenuta dall’imputato in occasione di tale specifica vicenda delittuosa e di ritenerla, alla luce di elementi probatori collaterali, come penalmente rilevante in relazione alla diversa fattispecie criminosa dell’associazione per delinquere di tipo mafioso.

Nè è dato ravvisare una incompatibilità logica tra i fatti accertati nel presente procedimento e quelli oggetto del giudicato assolutorio, atteso che la Corte di Appello ha confermato che il Ci. non ha partecipato all’omicidio del B., pur ritenendo che il mutamento del piano omicida e la mancata utilizzazione dell’imputato come "specchietto" non hanno costituito il frutto di una scelta dell’odierno ricorrente, bensì una conseguenza "necessitata" dalla estrema diffidenza della vittima, che aveva mostrato di non fidarsi nemmeno del Ci..

Sotto altro profilo, si osserva che non sussiste la dedotta violazione dell’art. 238 bis c.p.p.. L’acquisizione agli atti del procedimento di sentenze divenute irrevocabili, secondo la previsione di tale norma, non comporta, infatti, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti nè, tanto meno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate (Cass. Sez. 1, 16-11-1998 n. 12595).

Non è ipotizzarle, infine, alcuna violazione della regola di giudizio dettata dall’art. 533 c.p.p., secondo cui per la condanna è necessario che l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. La decisione impugnata, infatti, costituisce il frutto di una ponderata valutazione degli elementi emergenti dagli atti, che ha indotto la Corte distrettuale ad affermare, in termini di certezza, e senza margini di dubbi, la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.

6) Le ulteriori deduzioni svolte col secondo motivo di ricorso sono inammissibili.

La Corte di Appello ha fornito adeguato conto delle ragioni che l’hanno indotta a condividere il giudizio espresso dal Tribunale circa l’organico inserimento del Ci., nel periodo contestato dall’accusa, in un’organizzazione camorristica operante nel territorio di Melito, collegato al clan Di Lauro.

A tali conclusioni essa è pervenuta sulla base di un percorso argomentativo non contraddittorio e privo di palesi salti logici, che ha preso le mosse da un’analitica disamina del contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate nel contesto temporale in cui nacque e fu realizzato il progetto omicida nei confronti di B. F. (ucciso il (OMISSIS)), decretato a livello di vertice dal sodalizio, verosimilmente per una fattuale rivendicazione di autonomia della vittima, all’epoca capozona di Melito.

Il giudice del gravame, tenendo in debito conto le diverse soluzioni interpretative prospettate dall’appellante con i motivi di gravame, ha richiamato i passaggi più significativi delle conversazioni captate che, a suo giudizio, valgono a dimostrare con certezza che inizialmente il F. e il Re. (individuati tra gli esecutori materiali dell’omicidio) avevano programmato l’utilizzazione del Ci. come "specchietto", approfittando dei suoi rapporti di affinità col B.; che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa (secondo cui gli organizzatori dell’agguato avrebbero invano cercato di coinvolgere l’imputato nella vicenda delittuosa, per i suoi rapporti di parentela con Ma.St. e col B.), il prevenuto aveva dato la propria disponibilità a collaborare, pur mostrando grande cautela per il timore di essere scoperto; che il successivo mutamento del piano omicida e il mancato coinvolgimento in esso del Ci. non furono determinati da una libera scelta dell’imputato, ma dalla diffidenza mostrata nei confronti di quest’ultimo dalla vittima.

Il ruolo attribuito al Ci. nell’originario progetto omicida, come ricostruito attraverso l’esame delle conversazioni intercettate, ha ragionevolmente indotto i giudici di merito a ritenere che il F. e il Re. non avrebbero fatto affidamento sulla collaborazione dell’odierno prevenuto, condividendo con lui la conoscenza di aspetti fondamentali dell’intento criminoso, come quello riguardante l’individuazione del luogo originariamente destinato all’attentato, se non avessero avuto la certezza della sua fedele appartenenza al clan. Con argomenti congruenti, infatti, la Corte di Appello ha spiegato che la scelta del Ci. come specchietto, verosimilmente determinata dalla sua vicinanza al B., dovette implicare necessariamente, nella logica criminale che ne costituiva il fondamento, la sicurezza dell’esistenza, in capo all’imputato, di un legame di appartenenza al sodalizio criminoso, più forte di quello affettivo verso la vittima; e ciò in quanto, in caso n contrario, si sarebbe trattato di una scelta inconcepibile, per il rischio della rivelazione del piano delittuoso alle Forze dell’Ordine e, soprattutto, allo stesso B..

Ad ulteriore conferma della validità del proprio convincimento circa l’appartenenza dell’imputato all’associazione camorristica in questione, la Corte di Appello ha richiamato i risultati delle intercettazioni ambientali intercorse l’11 e il 18-11-2004 tra il Ci. e Ma.St. nel carcere di Poggioreale (ove il secondo si trovava detenuto). Anche in tal caso, il giudice del gravame ha posto in risalto i passaggi più salienti delle conversazioni che, a suo avviso, lungi dall’avvalorare la tesi difensiva (secondo cui il Ci. sarebbe stato vittima di estorsioni da parte del clan e, nei dialoghi captati, si sarebbe limitato a riferire fatti di dominio pubblico o riportati dalla stampa e ad esprimere proprie congetture sull’evoluzione della faida in atto), possono trovare spiegazione solo nella partecipazione dell’imputato al gruppo camorristico. Il tutto sulla base di argomentazioni coerenti, con cui è stato evidenziato che dai dialoghi captati emerge una dimestichezza del prevenuto con le vicende criminali del sodalizio, che va ben oltre il patrimonio di conoscenze ricavabile dalla lettura dei quotidiani; che il Ci. si mostra al corrente delle opinioni di D.L.P. (detto " C. ò (OMISSIS)") e funge da tramite tra il cognato detenuto e il gruppo; che dalle dichiarazioni del prevenuto emerge la diversità dell’approccio estorsivo usato nei confronti delle vittime estranee rispetto alle richieste di denaro rivolte al Ci., accompagnate da giustificazioni sugli attuali equilibri criminali, non spiegabili se non tenendo conto della sua appartenenza al gruppo di Melito, che deve rendere conto al sodalizio facente capo ai Di Lauro.

Ciò posto, si osserva che le valutazioni espresse dai giudici di merito circa la portata probatoria degli elementi posti a base della decisione impugnata (e la loro prevalenza rispetto a circostanze apparentemente favorevoli all’imputato, quali la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei collaboratori di giustizia) si sottraggono al sindacato di questa Corte, costituendo espressione di apprezzamenti squisitamente di merito ed essendo sorrette da una motivazione priva di macroscopiche incongruenze logiche, con la quale si è tenuto conto delle deduzioni svolte dall’appellante con i motivi di gravame. Allo stesso modo, poichè l’interpretazione del contenuto delle intercettazioni è questione di fatto, rimessa alla valutazione dei giudici di merito, non è possibile mettere in discussione in questa sede il significato attribuito dalla Corte territoriale al tenore dei colloqui (e dei messaggi sms) captati, nè porre in dubbio l’identificazione del Ci. con la persona alla quale facevano riferimento, con vari appellativi (come "quello con le lenti", "la compagna nostra", "la compagna mia"), gli interlocutori nel corso di alcune telefonate.

Ne consegue l’inammissibilità delle censure mosse dal ricorrente, con le quali, attraverso la formale denuncia di vizi di motivazione, si sollecita sostanzialmente una rilettura degli atti ed una rinnovata valutazione delle risultanze processuali, esulanti dai poteri di cognizione riservati a questa Corte.

7) Il terzo motivo di ricorso è infondato.

Deve rammentarsi che, a mente dell’art. 603 c.p.p., comma 1, la rinnovazione dell’istruzione nel giudizio di appello ha natura di istituto eccezionale rispetto all’abbandono del principio di oralità nel secondo grado, ove vige la presunzione che l’indagine probatoria abbia raggiunto la sua completezza nel dibattimento già svoltosi. A tale istituto di carattere eccezionale può farsi ricorso solo quando il Giudice ritenga, nell’ambito della sua discrezionalità, "di non poter decidere allo stato degli atti", ed una tale impossibilità può sussistere solo quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonchè quando l’incombente richiesto rivesta carattere di decisività, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali suddette incertezze ovvero sia di per sè oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Cass. Sez. 3, 22-1-2008 n. 8382;

Sez. 3, 23-5-2007 n. 35372; Sez. 3, 29-1-2004 n. 3348).

Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha motivatamente disatteso la richiesta di rinnovazione del dibattimento per l’audizione dei testi m. e D.G., ritenendo certo, alla luce del contenuto della telefonata intercorsa poco dopo tra Ma.Gi. e F.R., che con le due telefonate intercettate il 25-4- 2004 (con le quali, secondo la difesa, il Ci., su richiesta dei predetti testi – all’epoca rispettivamente assessore alle politiche sociali e sindaco del Comune di Melito -, avrebbe contattato il cognato Ma.St. per un intervento nella villa comunale, che era piena di fossi e avvallamenti) il Ci. intendeva avvertire Ma.St. della presenza del B. in piazza e che, pertanto, le stesse non avevano nulla a che vedere con fossi e avvallamenti.

Il giudice del gravame, al contrario, non era tenuto ad una specifica motivazione in ordine alla richiesta di escussione dei testi Ma.

S. e R.E., data l’estrema genericità di tale istanza, non accompagnata dall’indicazione dell’oggetto e della rilevanza della invocata rinnovazione istruttoria. In ogni caso, la motivazione del rigetto dell’istanza difensiva può cogliersi implicitamente nella stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti ai fini dell’affermazione di responsabilità del prevenuto, dandosi cosi atto della completezza delle indagini probatorie.

8) Per le ragioni esposte il ricorso in esame deve essere rigettato, con conseguente condanna del Ci. al pagamento delle spese processuali.

9) Passando all’esame del ricorso proposto nell’interesse del M., si osserva che le doglianze mosse in ordine alla ritenuta appartenenza dell’imputato al clan camorristico facente capo ai Di Lauro, al di là della formale prospettazione di violazione di legge e di vizi di motivazione, investono il merito delle valutazioni espresse dalla Corte di Appello, non sindacabili in questa sede, in quanto sorrette da un solido impianto argomentativo, col quale è stata data adeguata risposta i rilievi mossi dall’appellante con i motivi di gravame.

In particolare, si osserva che in modo coerente e ragionevole il giudice del gravame ha desunto elementi di prova a carico dell’imputato dalla sua acclarata presenza nell’appartamento sito in (OMISSIS), nel quale, all’atto della scissione da cui scaturì la cd. faida di Scampia-Secondigliano, si asserragliarono alcuni componenti del clan Di Lauro, per evitare agguati e per essere pronti per l’esecuzione di operazioni di fuoco nei confronti della consorteria avversa. Si tratta, infatti, di una circostanza di indubbio valore sintomatico dell’inserimento dell’imputato nel sodalizio criminoso.

Allo stesso modo, non risulta arbitraria l’operazione logica con cui la Corte di Appello, condividendo il giudizio espresso dal Tribunale, ha attribuito peso, ai fini dell’accertamento dei fatti contestati nel presente procedimento, alle propalazioni rese dai collaboranti Es. e R. circa la partecipazione del Me. all’omicidio del Mi., nonostante l’intervenuta assoluzione in appello dell’imputato dal concorso in tale vicenda delittuosa. Con argomentazioni non palesemente incongruenti, infatti, il giudice del gravame ha rilevato che ciò che assume importanza, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato per il reato associativo, è che i due collaboratori di giustizia (dei quali in sentenza è stata positivamente vagliata l’attendibilità), nell’indicare concordemente il Me. (persona dagli stessi conosciuta col soprannome "(OMISSIS)") quale partecipe all’azione omicidiaria, hanno mostrato di avere sicura conoscenza dell’appartenenza dell’imputato al sodalizio camorristico, essendo impensabile che i medesimi abbiano fatto erroneamente riferimento al prevenuto come ad uno dei componenti del gruppo di fuoco, prescindendo da tale consapevolezza.

Anche gli ulteriori elementi presi in considerazione nella sentenza impugnata (frequentazioni del prevenuto con altri esponenti del clan Di Lauro; rinvenimento presso l’imputato di cellulari senza batteria, conformemente alla pratica che, come emerso dalle intercettazioni, veniva seguita per evitare la localizzazione di chi conversava;

acclarata disponibilità di armi) si prestano, nell’ambito di una valutazione complessiva dei fatti, a confluire verso il giudizio di responsabilità al quale sono pervenuti i giudici di merito in relazione alla fattispecie associativa contestata nel presente procedimento.

10) Risultano invece fondate le censure mosse dallo stesso ricorrente in relazione al trattamento sanzionatorio.

La Corte di Appello ha disatteso la richiesta dell’appellante di riduzione della pena inflitta in primo grado (anni dieci di reclusione) in considerazione del "ruolo" del medesimo svolto "nell’ambito del sodalizio", ritenuto tale da imporre "un giudizio di estrema gravità della condotta di partecipazione all’azione criminale". Tale motivazione appare illogica, ove solo si consideri che, in base al capo d’imputazione, il ruolo di killer attribuito al M. in seno all’associazione criminosa è lo stesso contestato ad E.F., per il quale, tuttavia, il giudice del gravame ha apportato una congrua riduzione di pena (da anni dieci ad anni sette e mesi sette di reclusione). L’elemento preso in considerazione dalla Corte territoriale, pertanto, non appare di per sè inidoneo a giustificare un più mite trattamento sanzionatorio, data la palese disparità di trattamento venutasi a creare tra le posizioni dei due coimputati, sostanzialmente simili.

Per le ragioni esposte, nei confronti del M. s’impone l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli per una nuova e più congrua motivazione sul punto.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi di C.S., D.L. C., Di.La.Co., D.L.M. ed E.F., che condanna al pagamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende. Rigetta il ricorso di Ci.

A.. Condanna i predetti ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Annulla nei confronti di M.A. la sentenza impugnata, limitatamente alla pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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