Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-04-2011, n. 8980 Liquidazione e valutazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. Il Comune di Avola, nel marzo del 1987, conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Siracusa B.I.G. e – sulla premessa che il Pretore di Avola l’aveva dichiarato colpevole della contravvenzione di cui alla L. n. 1156 del 1942, artt. 28 e 41 e successive modifiche per una lottizzazione abusiva di alcuni terreni siti nel territorio comunale, condannandolo al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede, mentre il Tribunale di Siracusa in appello aveva dichiarato non doversi procedere a suo carico per intervenuta prescrizione penale – ne chiedeva la condanna al risarcimento dei danni nella misura di L. 143.398.400 (stimata dall’Ufficio Tecnico comunale come occorrente per sostenere le spese di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie) o di quell’altra maggiore o più equa ritenuta dovuta, oltre agli interessi legali dalla domanda.

Nella costituzione del B. che contestava la domanda nell’an e nel quantum, il Tribunale, dopo avere espletato una consulenza tecnica d’ufficio, con sentenza del giugno 2003 dichiarava il convenuto responsabile del danno ambientale determinato dalla lottizzazione e lo condannava al pagamento della somma di Euro 85.560,20, per quello che si legge sia nel ricorso sia nella sentenza impugnata "a titolo di risarcimento danno ambientale conseguente al deterioramento della configurazione urbanistica a seguito della lottizzazione abusiva del suo terreno, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla domanda al soddisfo", mentre così pure si legge nei detti atti rigettava la domanda di risarcimento del danno "per il riassetto urbanistico dell’area de quo sic con opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie ad attutire la grave turbativa dello assetto urbano conseguente alla lottizzazione abusiva". p.2. Sull’appello del Comune di Avola quanto al rigetto di questa domanda e quanto al mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria e degli interessi sulla somma liquidata dalla data del fatto illecito, la Corte d’Appello di Catania, con sentenza del 23 gennaio 2008, ha, nella contumacia del B., rigettato l’appello e confermato la sentenza di primo grado. p.3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi il Comune di Avola.

L’intimato B. non ha resistito.
Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo si denuncia "contraddittoria motivazione ed errata valutazione della circostanza relativa al mancato rinvenimento nel fascicolo di un documento. Violazione e falsa applicazione degli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.".

Il motivo pertiene al rigetto da parte della Corte territoriale del motivo di appello con cui il Comune aveva censurato il rigetto da parte del giudice di primo grado della domanda relativa al risarcimento dei danni per il riassetto urbanistico, in ragione per quello che si legge nella sentenza impugnata della mancanza in atti di "un documentato ed idoneo preventivo di spesa redatto dall’Ufficio tecnico del Comune di Avola per le necessarie opere di urbanizzazione conseguenti alla lottizzazione abusiva effettuata dal convenuto". Il motivo di appello aveva sostenuto che la controversia si sarebbe dovuta rimettere sul ruolo a causa del mancato rinvenimento nel fascicolo del preventivo di spesa redatto dall’Ufficio tecnico comunale.

La Corte territoriale ha reputato infondato il motivo sulla base di due distinte ed autonome rationes decidendi, osservando in primo luogo che nessun obbligo di rimessione sul ruolo gravava sul Tribunale poichè l’indice apposto sulla copertina del fascicolo del Comune era privo dell’attestazione di deposito sottoscritta dal cancelliere; ed in secondo luogo ed "in ogni caso" che la relazione predisposta dal detto ufficio era di per sè inidonea a provare la pretesa comunale "trattandosi di atto formato dalla medesima parte processuale" e che il Comune, peraltro, non aveva articolato mezzi istruttori per dimostrare la propria domanda, essendosi limitato a chiedere solo la consulenza tecnica sul danno ambientale.

Il motivo in esame viene svolto assumendosi:

a) da un lato, quanto alla prima parte della motivazione della sentenza impugnata, che la Corte territoriale avrebbe escluso la necessità della rimessione della causa sul ruolo senza considera che il documento de quo era stato effettivamente depositato unitamente alla citazione introduttiva del giudizio, come dall’indice in calce ad essa, ed era stato contestato dal B. e considerato dalla c.t.u.;

b) dall’altro lato, quanto alla seconda parte dell’indicata motivazione, che la relazione dell’ufficio comunale, in quanto "attestazione di spesa proveniente da un Ufficio Tecnico comunale e redatta da funzionali all’uopo incaricati", costituirebbe "un documento fede facente", tanto che il convenuto, dopo aver contestato nella propria comparsa di risposta di primo grado l’ammontare dei danni di cui alla stima, si era anche riservato di provare in corso di giudizio l’erroneità della stima. p.2. Il motivo è inammissibile quanto alla censura rivolta alla seconda delle due rationes decidendi, sia perchè non indica (siccome prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4) le norme di diritto sulla base delle quali si dovrebbe ritenere il documento dell’ufficio comunale come "fide facente", sia perchè argomenta tale assunto in modo assolutamente apodittico, sia perchè non si fa carico della motivazione con cui la Corte territoriale ha escluso ogni valenza probatoria del documento in quanto atto proveniente dalla stessa parte comunale. p.2.1. Sotto il primo aspetto si rileva che è principio di diritto consolidato che "L’indicazione, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione, sicchè la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l’inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del quid disputandum" (così Cass. n. 12929 del 2007; antecedentemente Cass. n. 10501 del 1993; successivamente in senso conforme: Cass. n. 23961 del 2010).

Nel caso di specie nell’illustrazione della censura in esame nulla si coglie che consenta di individuare quali norme di diritto, secondo l’intenzione del ricorrente, dovrebbero sorreggerla. p.2.2. Sotto il secondo aspetto la censura si presenta del tutto apodittica, perchè nessuna argomentazione è prospettata per giustificare l’affermazione che il documento sarebbe stato "fide facente", ed anzi neppure si precisa il significato di tale qualificazione, il che avrebbe richiesto la dovuta attività argomentativa al lume della disciplina delle prove civili. Anche per tale carattere di apoditticità la censura è inammissibile (in termini, fra tante, Cass. n. 13066 del 2007; n. 15604 del 2007).

L’apoditticità determina inoltre anche difetto di specificità della censura e, quindi, ulteriore ragione di inammissibilità (si veda Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi). p.2.3. Sotto il terzo aspetto viene in rilievo il principio di diritto secondo cui "Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4" (Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi). Il ricorrente avrebbe dovuto criticare l’affermazione della Corte territoriale che ha negato valenza probatoria al documento perchè proveniente dalla stesso Comune. p.2.4. L’inammissibilità della seconda censura rende superfluo esaminare la prima, perchè una delle due rationes decidendi, se anche essa fosse fondata, resterebbe intatta in ragione dell’inammissibilità della seconda censura (si veda Cass. n. 14740 del 2005, per la spiegazione dell’inammissibilità come effetto del giudicato sulla ratio non censurata o censurata inammissibilmente o infondatamente; Cass. n. 20118 del 2006, per la spiegazione in termini di carenza di interesse). p.2.5. Il primo motivo è, conclusivamente, inammissibile.

3. Con il secondo motivo si denuncia "violazione dell’art. 1219 c.c., comma 2", nonchè "violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 184 c.p.c. nel testo vigente anteriormente alla L. n. 353 del 1990".

Vi si censura il rigetto da parte della sentenza impugnata del secondo motivo di appello, con cui il Comune si era doluto della sentenza di primo grado là dove non aveva riconosciuto interessi e rivalutazione dalla data di verificazione dell’illecito. Rigetto che è stato motivato dalla Corte d’Appello – per quello che direttamente il ricorso riporta – sul rilievo che il Tribunale si era attenuto al tenore della domanda come formulata in citazione, dove si erano richiesti gli accessori dalla domanda e che lo aveva fatto correttamente, considerato che solo all’udienza di precisazione delle conclusioni si erano richiesti "dal di dello scempio edilizio" e che la relativa modifica della domanda era inammissibile "avuto riguardo, quanto meno, all’assenza della controparte alla medesima udienza".

L’errore della Corte etnea sarebbe stato duplice.

Il primo errore deriverebbe dal fatto che non si sarebbe trattato di mutatio libelli non consentita dall’art. 184 c.p.c. nel testo anteriore alla novella di cui alla L. n. 353 del 1990, art. 18 ma di una mera emendatio.

Il secondo errore sarebbe stato commesso per non essersi considerato che nel regime dell’art. 184 c.p.c. anteriore alla L. n. 353 la proposizione di una domanda nuova non era sanzionabile in mancanza di opposizione della controparte, consistente o nell’accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente implicante tale accettazione viene citata Cass. n. 20798 del 2007.

Nella specie, l’assenza del B. all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado e la contumacia del medesimo in appello sarebbero state significative di un comportamento di accettazione implicita del contraddittorio. p.3.1. Entrambe le censure sono inammissibili per inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 che costituisce il precipitato normativo del ed. principio di autosufficienza e che trova applicazione anche ai motivi che si fondane sugli atti processuali (si vedano Cass. (ord.) n. 22266 del 2008 e Cass. n. 4201 del 2010).

Esse si fondano, infatti, sia sul contenuto della richiesta formulata in sede di precisazione delle conclusioni di riconoscimento degli interessi e della rivalutazione monetaria, sia sul tenore della sentenza di primo grado che non riconobbe detta richiesta, sia su quello del secondo motivo dell’appello.

Senonchè del tenore di detti atti sul punto che interessa il ricorso non offre la trascrizione o comunque una indicazione puntuale anche indiretta delle espressioni di ciascuno di detti atti per la parte che dovrebbe sorreggere le censure.

In tal modo difetta il requisito della indicazione specifica degli atti processuali sui quali il motivo per entrambe le censure si fonda.

Con riferimento al primo atto processuale, cioè la richiesta formulata in sede di precisazione delle conclusioni, non è dato sapere quale fosse stato l’esatto tenore della richiesta e come fosse stato giustificato, nonchè con riferimento a quale eventuale importo determinato nell’istruzione la richiesta fosse stata effettuata.

Nemmeno si dice tenuto conto che la sentenza di primo grado decise su due distinte domande – a quale di esse si riferisse o se si riferisse a tutte e due.

Con riguardo al secondo atto processuale, cioè la sentenza di primo grado, si omette di chiarire se essa motivo, ed eventualmente come, sul punto.

Con riferimento al terzo atto, id est il motivo di appello, si omette di indicare le espressioni con cui il motivo venne articolato o quanto meno di individuare la parte dell’atto di appello in cui venne svolto. p.3.2. Il Collegio osserva, comunque, che, se le due censure non fossero affette dall’inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, difetterebbero del requisito di decisività necessario perchè la violazione di norme del procedimento, pur verificatasi, possa giustificare la cassazione della sentenza di merito.

Queste le ragioni.

Va premesso, che, pur essendo intestato il motivo anche alla stregua dell’art. 1219 c.c., comma 2, la sua illustrazione non enuncia alcunchè che evidenzi come e perchè la Corte siciliana avrebbe commesso una simile violazione di norma di diritto sostanziale.

L’illustrazione, come si è riassunto sopra, si risolve nella prospettazione di due distinti errores in procedendo, come tali riconducibili all’ambito dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Con riferimento alla prima censura, il Collegio osserva che in astratto essa apparirebbe fondata, perchè una situazione come quella che si enuncia verificatasi, cioè nella quale nella domanda introduttiva si chiedano interessi e rivalutazione monetaria su una somma capitale accertanda o indicata ed espressamente la richiesta sia formulata a far tempo dalla domanda giudiziale, e poi in sede di precisazione delle conclusioni si chiedano tali accessori a far tempo dal di dell’illecito, si configura, senza alcuna distinzione fra il regime ante epost riforma della L. n. 353 del 1990, come mera emendano e non come mutatio libelli o introduzione di una nuova domanda. Ciò che varia per effetto della richiesta di attribuzione degli accessori a far tempo dall’illecito è, infatti, soltanto l’estensione temporale della fattispecie giustificativa della loro debenza e, quindi, la dimensione temporale della durata dei fatti costitutivi individuatori della domanda e, di conseguenza, si origina un mero mutamento quantitativo del petitum mediato. Il diritto fatto valere con la domanda accessoria non varia.

Non è in contrasto con quanto qui affermato un non recente precedente che in una situazione simile a quella di cui è processo, però con estensione quantitativa avvenuta in appello, ritenne domanda nuova la richiesta di interessi dal di dell’illecito: si tratta di Cass. n, 2433 del 1977, secondo cui: "Nella domanda di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, gli interessi, di natura compensativa e decorrenti dal giorno dell’illecito, sono da considerarsi implicitamente richiesti, quale accessorio concorrente alla reintegrazione del patrimonio leso, e, pertanto, possono essere esplicitamente pretesi anche per la prima volta in appello, non configurando tale istanza una domanda nuova.

Ove però l’attore, con l’atto introduttivo del giudizio, abbia già espressamente domandato gli interessi con decorso da data posteriore a quella del fatto (nella specie dalla notificazione della citazione), deve ritenersi preclusa la possibilità di richiedere in appello gli interessi stessi con decorrenza anteriore; in tal caso, opera infatti il divieto di domanda nuova in secondo grado, posto dall’art 345 cod. proc. civ., perchè l’indicata formale istanza avanzata in primo grado non consente di presumere come implicita la richiesta degli interessi con decorso dalla data dell’illecito". Si deve, infatti, rilevare che l’art. 345 c.p.c., sia nel testo anteriore alla riforma di cui alla L. n. 353 del 1990 (applicabile nella specie), sia in quello successivo, prevede una disciplina speciale per la domanda relativa agli interessi, ammettendola solo per quelli maturati dopo la sentenza di primo grado, il che induce a ritenere che una richiesta di interessi con una diversa decorrenza rispetto a quella su cui decise il giudice di primo grado sia dal legislatore considerata in appello ed in ragione della logica di questa impugnazione, domanda nuova. Disciplina questa che deve estendersi anche ad un accessorio come la rivalutazione.

La Corte territoriale, in base a quanto osservato, avrebbe errato nel considerare domanda nuova vietata la richiesta che sarebbe stata formulata dal Comune all’atto della precisazione delle conclusioni.

Tuttavia, dell’errore non è dimostrata la decisività, nel senso che parte ricorrente non ha fornito gli elementi necessari perchè la Corte comprenda se l’error in procedendo in astratto presente nella motivazione della sentenza impugnata si sia risolto in un danno effettivo per il Comune e, quindi, abbia assunto il carattere di error in procedendo effettivamente pregiudizievole per detta parte. p.3.3. Queste le ragioni giustificative di tale affermazione.

Per quello che enuncia il ricorso la domanda originaria riconosciuta fondata dal Tribunale per il danno ambientale concerneva un illecito aquiliano ed era stata proposta senza determinazione della somma richiesta, mentre la somma quantificata in citazione concerneva la domanda ulteriore di attribuzione dell’importo stimato dall’ufficio tecnico comunale per le opera di urbanizzazione.

Ne consegue che la specifica richiesta degli interessi e della rivalutazione monetaria dal momento della domanda, mentre per questa seconda domanda concerneva un importo previamente quantificato, per quanto attiene alla domanda risarcitoria non poteva che riguardare un importo indeterminato e, quindi, da considerarsi richiesto con riferimento al danno come accertato all’esito dell’istruzione con riferimento al momento del verificarsi dell’illecito e, quindi, aumentato dell’eventuale perdita di valore della moneta fino alla sentenza, secondo la logica dei ed. debiti di valore, allo scopo di assicurare l’effettiva idoneità della somma riconosciuta come equivalente della perdita subita dal Comune quale ente esponenziale per il danno ambientale a ristorare tale perdita.

Trattandosi di debito di valore, necessariamente il danno rappresentato dalla lesione del valore ambientale al momento della sua verificazione e liquidato per equivalente con riferimento a quella data, avrebbe dovuto rivalutarsi fino al momento della decisione, al fine di assicurare con riferimento al momento della decisione l’attribuzione al Comune danneggiato del valore effettivamente corrispondente alla perdita.

La richiesta del danno in misura indeterminata implicava, come, del resto, suggerisce il principio di diritto sopra ricordato, che si fosse implicitamente richiesta la somma accertata all’esito dell’istruzione al lordo della rivalutazione dell’aestimatio al momento dell’illecito e della verificazione del danno con quella del momento della decisione.

Ora, parte ricorrente ha del tutto genericamente riferito che sulla domanda riconosciuta fondata per il titolo in questione venne riconosciuta una certa somma, ma ha omesso del tutto di indicare con riferimento a quale momento l’aestimatio che individuò tale somma come dovuta venne compiuta.

Ne consegue che non è dato sapere se l’errore commesso in astratto dalla Corte territoriale nel considerare domanda nuova la richiesta di rivalutazione monetaria e di interessi abbia in concreto determinato un danno al Comune. Ciò potrebbe essere accaduto se l’aestimatio che ha portato al riconoscimento della somma di Euro 85.560,20 fosse stata compiuta con riferimento ad un momento anteriore alla proposizione della domanda in primo grado. Parte ricorrente ha chiesto, infatti, la cassazione della sentenza adducendo -come s’è visto senza rispettare l’art. 366 c.p.c., n. 6 – di avere richiesto interessi e rivalutazione monetaria dal di dell’illecito. Nella logica del debito di valore, poi, non potrebbero riconoscersi interessi e rivalutazione cumulativamente, perchè è la rivalutazione che assume la funzione di riportare il valore dell’equivalente del danno al momento dell’illecito all’identico valore di ripristino del momento della attribuzione dell’equivalente.

La mancanza di specificazione del momento in cui l’aestimatio che ha determinato l’attribuzione della somma in primo grado è stata fatta evidenzia allora l’assoluta impossibilità di comprendere se l’error in procedendo astrattamente ravvisabile nella motivazione della sentenza impugnata si è risolto in un error effettivamente pregiudiziale per il Comune.

Se la somma fosse stata stimata con riferimento ad un momento successivo alla proposizione della domanda, il Comune non avrebbe ricevuto alcun danno.

Il danno vi sarebbe stato solo se l’aestimatio fosse stata effettuata individuando l’equivalente monetario del danno in un momento anteriore a quella proposizione, eventualmente anche quello della verificazione del fatto illecito.

In tale situazione, poichè non è dato sapere se la violazione di norma del procedimento abbia determinato danno per il Comune, la prima censura prospettata con il secondo motivo appare inammissibile per difetto di decisività.

La carenza di decisività si configura anche se, ipotizzando che l’aestimatio fosse stata compiuta dal giudice di primo grado al momento della decisione, la richiesta di interessi e rivalutazione sulla somma riconosciuta (non si sa se richiesta in sede di precisazione delle conclusioni dallo stesso Comune sulla base delle risultanze istruttorie), la modificazione della domanda relativa agli accessori avesse riguardato non già l’adeguamento dell’equivalente della perdita al momento della decisione, bensì il cd. risarcimento del danno da ritardo nella consecuzione dell’equivalente: sarebbe stato necessario che il Comune l’avesse allegato evidenziando che il tenore della richiesta formulata in sede di precisazione delle conclusioni era in tal senso, ferma sempre l’individuazione del momento della aestimatio. p.3.4. La prima censura dovrebbe essere, dunque, dichiarata inammissibile anche per la gradata ragione così indicata.

3.5. Non diversa sorte meriterebbe – ferma la valutazione ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 – la seconda censura (in disparte che, una volta considerata esistente una emendatio e non una mutatio, ne sarebbe stata superfluo l’esame nel merito).

4. Il ricorso è, conclusivamente, dichiarato inammissibile stante l’inammissibilità di entrambi i motivi su cu si fonda.

5. Non è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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