Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-11-2010) 25-02-2011, n. 7504

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza in data 30.03.2010, oggetto dell’odierno scrutinio di legittimità, il Tribunale di Catanzaro, costituito ex art. 310 c.p.p., in accoglimento dell’appello del P.M., disponeva il ripristino della custodia cautelare in carcere nei confronti di C.F., indagata per concorso in usura aggravata. La predetta era stata sottoposta alla misura carceraria per tale reato, ritenuto aggravato anche ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7, con ordinanza 5.08.2009, provvedimento confermato dal Tribunale del riesame in data 1.10.2009.

Il 27.10.2009, peraltro, il Gip presso il Tribunale di Catanzaro, ritenuto che detta aggravante speciale non potesse essere applicata alla predetta indagata e considerate ridotte le esigenze cautelari, ne ordinava la scarcerazione. Avverso tale ultimo provvedimento aveva allora proposto appello il P.M., impugnazione che – come detto – veniva accolta con l’ordinanza del Tribunale del riesame oggetto del ricorso qui proposto.

Rilevava invero detto Tribunale come: a) il Gip avesse sostanzialmente proceduto ad una rivalutazione di elementi già oggetto di scrutinio in sede di riesame, senza veri e propri fatti nuovi che potessero giustificare l’adottato provvedimento; b) l’aggravante del metodo mafioso doveva essere inquadrata tra. le circostanze oggettive che si comunicavano ai correi se conosciute o colpevolmente ignorate; c) la C. era sicuramente a conoscenza che l’usura perpetrata nei confronti dell’imprenditore A., nella quale era pesantemente coinvolto il marito coindagato N. G. (per complessivi oltre Euro 2 milioni, con tassi del dieci per cento al mese) era stata commessa con metodo mafioso, in particolare spendendo il nome di pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata locale; ciò in particolare discendeva dalle dettagliate dichiarazioni della parte lesa e da intercettazioni ambientali.

Tanto ritenuto, e quindi valutata sussistente ed operante nei confronti della predetta indagata l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, il Tribunale del riesame, in considerazione della presunzione ex lege di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, ordinava il ripristino della custodia cautelare in carcere a carico dell’attuale ricorrente.

2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per Cassazione l’anzidetta indagata, con l’assistenza del difensore di fiducia, in particolare deducendo: a) che erroneamente il giudice territoriale aveva ritenuto violato il principio del ne bis in idem ad opera del GIP e dell’ordinanza che aveva escluso la ricorrenza dell’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, dappoichè ancora sub indice il precedente, contrario provvedimento cautelare modificato dall’ordinanza in parola; b) che a carico dell’indagata sussisterebbero soltanto le dichiarazioni accusatorie delle pp.oo., peraltro non riscontrate; c) che nulla avrebbe detto l’ordinanza impugnata in ordine ai rilievi difensivi spesi a favore dell’indagata; d) che il quadro indiziario utilizzato a carico della C. riguarderebbe in realtà la posizione del marito N. G.; e) che oggettivamente insussistente si appaleserebbe l’aggravante speciale, non potendo essa sussistere per la semplice ostentazione della provenienza mafiosa dei capitali prestati; f) che non vi era stata censura sulla revoca delle misura carceraria e comunque le esigenze cautelari dovevano ritenersi venute meno.

3. Il ricorso, fondato nei limiti e nei termini di cui alla seguente motivazione, deve essere accolto.

Devono peraltro, dapprima, essere respinti i motivi del ricorso sui seguenti punti: a) va ribadita la ricorrenza – allo stato delle indagini ed a questi fini – dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 sicuramente imputabile alla C., alla stregua della ricostruzione in fatto dei giudici della cautela, logica e coerente.

In proposito occorre rilevare come, in sostanza, la ricorrente non contesti gli specifici fatti, se non in termini generali, assumendo, piuttosto, che l’essere stata presente con il marito a determinati incontri in cui si sarebbero spesi i nomi di noti appartenenti alla criminalità organizzata locale, non integrerebbe l’aggravante in parola. Deve – viceversa – essere ribadito che siffatta condotta sicuramente configura concreto uso di metodo mafioso, giacchè il richiamo a pericolose cosche (che certamente non avrebbero lasciato impunita la violazione delle regole criminali imposte, specie se si tratta di denari della consorteria stessa) implicate nell’usura – involgendo sistemi e logiche, nonchè prospettabili conseguenze, tipiche delle organizzazioni di stampo mafioso – attribuisce alla condotta in esame quel più alto indice di qualificata pericolosità insito nella ridetta aggravante. Sullo specifico punto le ben attendibili dichiarazioni della parte lesa ed i convergenti esiti delle intercettazioni, come riportate in atti, rendono – allo stato – non discutibile che gli indagati spendevano il nome di una cosca e di personaggi della criminalità locale che non avrebbero tollerato ritardi ed inadempienze in ordine ai tassi giugulatori praticati. Le minacce (o pressioni) direttamente fatte dall’odierna indagata e, comunque, la sua presenza alle consimili condotte del marito, rendono certa, come già rilevato, l’applicabilità dell’aggravante in parola anche alla stessa.

Tanto ritenuto, e così respinto ogni altro motivo di ricorso, ribadita la ricorrenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, art. 7 (così come l’insussistenza di elementi nuovi che potessero giustificare il provvedimento liberatorio adottato dal Gip), sicuramente si impone – come correttamente ritenuto nell’impugnata ordinanza – l’applicazione alla presente vicenda del disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 3.

Su tale ultimo punto, peraltro, poichè non vi può essere automatismo se non dopo avere ribadito la concreta ricorrenza di effettive e permanenti esigenze cautelari (anche eventualmente affievolite, ma sussistenti), devesi rilevare come il provvedimento impugnato si limiti, appunto, a predicare tale automatismo, rilevando l’insussistenza di elementi idonei a vincere la presunzione di legge, salvo generico ed insufficiente richiamo alla natura e gravità dei fatti contestati senza tenere conto delle deduzioni difensive al riguardo.

E’ evidente, dunque, la lacuna motivazionale dell’impugnata ordinanza che dovrà essere colmata in sede di rinvio con più penetrante specificazione degli elementi che rendono apprezzabile la sussistenza di permanenti esigenze ex art. 274 c.p.p..
P.Q.M.

La Corte, annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Catanzaro. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto Penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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