Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-10-2010) 25-02-2011, n. 7403

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 23 luglio 2009 la Corte d’Appello di Palermo, in ciò parzialmente confermando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha riconosciuto la penale responsabilità dei soggetti più oltre indicati in ordine al delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso e ad alcuni reati-fine, costituiti in prevalenza da estorsioni; ha quindi applicato le pene di legge e confermato il diritto del Comune di Partinico, dell’associazione antiracket e antiusura S.O.S. Impresa e della Confcommercio di Palermo, costituitisi parti civili, al risarcimento dei danni conseguenti ai fatti accertati.

Oggetto dell’accertamento penale era stata l’attività di illegale controllo del territorio svolta, nel contesto dell’organizzazione nota come "Cosa Nostra", dalla famiglia mafiosa di Partinico facente capo a V.L., allevatore della zona detenuto ormai da diversi anni, nonchè ai suoi fratelli e prossimi congiunti.

La prova dei commessi reati si è fondata in gran parte sulle propalazioni dei collaboratori di giustizia S.M. e Vi.Gi., ritenute intrinsecamente attendibili, coincidenti tra loro e riscontrate dagli esiti di una lunga attività di captazione ambientale svoltasi sia nell’abitazione di Ga.

M., moglie di V.L., sia in occasione dei colloqui in ambiente carcerario dei detenuti appartenenti alla famiglia.

Hanno proposto ricorso per cassazione i 14 imputati di seguito elencati.

Quanto a R.F., condannato per partecipazione all’associazione mafiosa (capo B) con mansioni di coordinamento, in continuazione rispetto a una precedente condanna per lo stesso reato di cui a sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo in data 7 giugno 1990, si è ritenuto il suo perdurante inserimento, durante la detenzione, nel circuito di solidarietà mafiosa carceraria; dopo la rimessione in libertà è risultato essere rimasto a disposizione del sodalizio e investito da V.L. della cura degli affari.

Con l’unico motivo di ricorso, articolato in tre censure, l’imputato eccepisce innanzi tutto l’inutilizzabilità degli esiti captativi, per essere i decreti di autorizzazione viziali da nullità in quanto carenti di motivazione circa il ricorso ad impianti esterni; lamenta, inoltre, l’omessa disamina delle deduzioni difensive inerenti alla propria individuazione, nell’ambito delle conversazioni intercettate, quale soggetto corrispondente al "fratello di mastro N.";

contesta, infine, che dall’argomento delle conversazioni possano trarsi elementi di prova a proprio carico.

B.S., assolto in primo grado, è stato condannato in appello per partecipazione all’associazione criminosa, con funzioni di coordinamento e con fattivo contributo a reati contro la vita e legati all’imposizione del "pizzo". Quale prova a suo carico si è valorizzato il giudicato formatosi sulla sua condanna per omicidio in danno di A.F.P., apportatore di un riscontro, che in precedenza era mancato, alle propalazioni del collaborante S.M.; e valutato altresì quale elemento idoneo a mettere in nuova luce le risultanze delle intercettazioni ambientali.

Con l’unico motivo di ricorso l’imputato denuncia la mancanza di una precisa confutazione degli argomenti portati dal giudice di primo grado a sostegno dell’assoluzione; e, nell’intento di darne dimostrazione, riproduce nel ricorso ampi stralci delle due sentenze.

L.N. è stato condannato sia per partecipazione all’associazione mafiosa, con funzioni relative alla gestione degli affari illeciti ed in particolare alla riscossione delle estorsioni, nonchè alla gestione delle armi e alla distribuzione dei proventi di reato; sia per concorso in estorsione pluriaggravata in danno della società Pavesi & C. – Co.Sa. (capo G); sia ancora per concorso in estorsione aggravata in danno di Li.Gi.

(capo E1). Gli elementi di prova a suo carico sono stati tratti, oltre che dalle dichiarazioni dei collaboranti e dalle intercettazioni, anche dal rinvenimento in un fondo a sua disposizione di un ingente quantitativo di armi e di un certo numero di agendine contenenti – secondo i chiarimenti fomiti dalla collaborante Vi.Gi. – annotazioni contabili dei proventi delle estorsioni.

Il ricorso nel suo interesse è stato proposto con tre distinti atti:

l’uno da lui personalmente redatto; gli altri due a firma dei difensori, Avv.ti Stefano De Francesco e Marco Clementi.

Col primo dei tre motivi personalmente redatti, il ricorrente deduce una lesione del diritto alla difesa consistita nella mancata autorizzazione alla cancelleria per il rilascio di copia delle sentenze di primo e di secondo grado. Col secondo motivo eccepisce l’inutilizzabilità delle intercettazioni e invoca una verifica della Suprema Corte su ogni altro possibile vizio di nullità. Col terzo motivo lamenta che i giudici di merito abbiano deciso in base a giudizi probabilistici e non di certezza dei fatti.

L’Avv. De Francesco ha presentato a sostegno del ricorso sette motivi. Col primo deduce carenza di motivazione in ordine all’eccezione di nullità sollevata con riferimento alla omessa traduzione dell’imputato per le udienze del 7 giugno, 15 giugno e 16 giugno 2006; a confutare quanto affermato nella sentenza impugnata, cioè che egli avrebbe manifestato l’intento di partecipare alla sola udienza del 18 giugno 2006, peraltro non calendata, sostiene essere stata invece espressa la volontà di presenziare all’udienza del 17 giugno da tenersi in trasferta, presso la sede del Tribunale di Milano. Col secondo motivo eccepisce l’inosservanza del termine di legge per la convalida del decreto del P.M. n. 1306/03, che autorizzava in via d’urgenza l’intercettazione ambientale. Col terzo motivo deduce l’illegittimità della motivazione per relationem, apposta ai decreti autorizzativi delle intercettazioni e ai relativi decreti di proroga. Col quarto motivo ancora deduce inosservanza di norme processuali per omessa motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni nella parte riguardante l’impiego di apparecchiature esterne e l’eccezionale urgenza di provvedere. Col quinto motivo, ancora riferendosi al decreto di intercettazione n. 1306/03, deduce mancata corrispondenza fra la premessa e il dispositivo del decreto di convalida emesso dal G.I.P.. Col sesto motivo denuncia vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta aggravante di cui all’art. 416 c.p., comma 6. Col settimo motivo impugna, siccome immotivato, il diniego delle attenuanti generiche.

Il ricorso a firma dell’Avv. Clementi è articolato in quattro motivi. Col primo si eccepisce la nullità delle sentenze di primo e di secondo grado per omessa traduzione dell’imputato detenuto alle udienze del 7 giugno, 15 giugno, 16 giugno e 17 giugno 2006, contestando l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l’imputato avrebbe espresso rinuncia a partecipare alle predette udienze. Col secondo motivo si deduce illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza per l’estorsione in danno della società Pavesi & C. Col terzo motivo si denuncia analogo vizio logico in ordine all’estorsione in danno di Li.Gi., per mancanza di corrispondenza fra la decisione e le acquisizioni processuali. Col quarto motivo si deduce carenza motivazionale in ordine alla condanna per il reato associativo.

Ri.Fi. è stato condannato per due reati di estorsione pluriaggravata ai danni della società Pavesi & C. (capo L) e della RA.CO.IM. s.r.l. (capo M); nonchè per il reato associativo e per trasferimento fraudolento di valori, aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 (capo I). Le prove dei reati sono state individuate nelle conversazioni intercettate, fungenti da riscontro esterno alle dichiarazioni dei collaboranti Va.Gi. e S. M.; inoltre, quanto ai reati di estorsione, sono state valorizzate le deposizioni dei testi L.G.B. e c. a..

Il ricorso proposto dal difensore si fonda su due motivi. Il primo concerne l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per violazione dell’art. 267 c.p.p., comma 2, avuto riguardo alla omessa motivazione circa l’urgenza; nonchè l’intempestività delle proroghe dei decreti autorizzativi. Il secondo motivo si appunta sul quadro probatorio a carico del deducente e si traduce nel contestare la valenza decisiva attribuita a un precedente giudicato di condanna per associazione mafiosa, nonchè il significato probatorio dei dialoghi intercettati e la valutazione delle prove testimoniali.

L.C.O., imprenditore vinicolo, è stato condannato per partecipazione ad associazione mafiosa. Dalla originaria sua qualità di soggetto passivo delle estorsioni, secondo l’accusa ha visto in seguito evolversi la sua posizione per cui, pur seguitando a pagare il "pizzo", si è fatto a sua volta collettore del denaro estorto ad altri imprenditori e si è giovato, nella sua attività, della vicinanza al sodalizio mafioso. A suo carico si pongono le dichiarazioni della collaborante Vi.Gi., riscontrate non da quelle di S.M., ma dal contenuto di molteplici conversazioni captate, nelle quali il giudice di merito ha visto la prova di un rapporto confidenziale con Ga.Ma. e degli stretti legami col sodalizio mafioso.

Il suo ricorso è affidato a due motivi. Col primo deduce errata valutazione delle risultanze probatorie e scorretta applicazione della norma penale, sotto il duplice profilo dell’elemento materiale e di quello psicologico, necessari a configurare l’inserimento nella struttura criminosa. Col secondo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio.

I.G., che ha ora acquisito il cognome V. per effetto di legittimazione, è stato condannato per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa sulla base di due conversazioni intercettate, nelle quali si è ravvisata la prova della sua intraneità al gruppo mafioso.

Ricorre in base a un solo motivo; con esso lamenta che dei labili indizi siano stati considerati alla stregua di prove, contro il disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 2.

P.A., condannato per il reato associativo e per due estorsioni in danno della casa vinicola Cusumano (capo F) e della società "Pavesi & C. – Coniglio Salvatore s.r.l." (capo G), in base alle prove tratte dalle propalazioni dei collaboranti, dalle conversazioni intercettate e dalle deposizioni testimoniali dei soggetti estorti, si è gravato in base a sei motivi. Col primo di essi si duole che sia stato considerato alla stregua di una rinuncia a comparire all’udienza del 22 marzo 2006 il proprio impedimento, consistito nell’impossibilità della traduzione per mancanza della sedia a rotelle resa necessaria dalle sue condizioni fisiche. Col secondo deduce l’inutilizzabilità delle conversazioni captate, per vizio motivazionale dei decreti autorizzativi in ordine al requisito dell’urgenza. Col terzo denuncia vizio di motivazione in ordine alla condanna per il reato di estorsione in danno del Cu. e censura la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sul punto. Col quarto analogamente denuncia vizio motivazionale in ordine alla condanna per il reato di estorsione in danno della Pavesi & C Col quinto deduce illogicità della motivazione in ordine al reato associativo. Col sesto impugna il diniego delle attenuanti generiche.

V.G. è stato condannato per partecipazione ad associazione mafiosa, in continuazione rispetto a una precedente condanna per lo stesso reato di cui a sentenza della Corte d’Appello di Palermo in data 25 gennaio 2001; nonchè di inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale. Sulla base delle risultanze captative si è ritenuto che, dopo avere scontato la pena irrogatagli con la precedente condanna e aver soggiornato per qualche tempo in Germania, fosse tornato a Partinico per mettersi a disposizione del sodalizio ed avesse assunto il compito di "lavorare in campagna", cioè di riscuotere i proventi delle estorsioni.

Il suo ricorso si fonda su quattro motivi. Col primo impugna, sotto il profilo del vizio motivazionale, l’interpretazione data alle conversazioni intercettate. Col secondo contesta la sussistenza del reato di inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, assumendo che l’officina nella quale egli si era recato faceva parte del Comune di Partinico. Col terzo contesta, in ordine allo stesso reato, la sussistenza dell’elemento psicologico. Col quarto deduce vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche e alla modulazione della pena.

V.M. nato nel (OMISSIS) è stato riconosciuto colpevole del reato associativo, in continuazione rispetto a una precedente condanna emessa dal Tribunale di Palermo il 9 luglio 1999. Il giudice di merito, premesso che la qualità di affiliato può permanere anche durante la detenzione e si perde soltanto con un atto positivo di dissociazione, ha ritenuto che l’imputato avesse seguitato a dare il proprio contributo al sodalizio mafioso, mettendo a disposizione i propri figli naturali (successivamente legittimati) e dimostrando un proprio ruolo ancora attivo e presente, malgrado il suo stato di detenuto.

Il ricorso si sviluppa in due motivi. Col primo denuncia violazione di legge e carenza di motivazione nella valutazione delle emergenze istruttorie, avuto riguardo alle dichiarazioni scagionanti della collaboratrice Vi.Gi. e all’assenza di condotte illecite nel periodo d’interesse. Col secondo deduce carenza di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio.

Vi.Mi. nato nel (OMISSIS) è stato condannato per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, col compito di gestire la riscossione degli illeciti proventi, e per un tentativo di estorsione pluriaggravata ai danni dell’impresa edile di L.F.V..

Gli elementi probatori valorizzati a suo carico sono consistiti negli esiti delle conversazioni captate, nelle risultanze dei documenti in sequestro, nelle propalazioni dei collaboranti (in particolare di S.M.), riscontrate dalle intercettazioni; nonchè, per quanto riguardante la tentata estorsione, nelle deposizioni del capitano dei carabinieri So. e della persona offesa.

Nell’interesse dell’imputato sono stati presentati due ricorsi, dal contenuto sovrapponibile: l’uno a firma del difensore Avv. Giovanni Aricò, l’altro a firma dello stesso Avv. Aricò congiuntamente con l’Avv. Salvatore Petronio. Due sono i motivi svolti a sostegno dell’impugnazione: col primo il ricorrente lamenta che siano rimasti privi di confutazione gli argomenti spesi nell’atto di appello, volti a contestare l’identificazione dell’imputato quale portatore dell’invito a "mettersi in regola" volto al L.F.; col secondo denuncia la disapplicazione dei principi, pur correttamente esposti nella sentenza, inerenti all’accertamento del reato associativo.

N.F. è stato condannato per partecipazione all’associazione mafiosa con mansioni di coordinamento, gestione del settore delle estorsioni e destinazione dei proventi, in continuazione rispetto a una precedente condanna per lo stesso reato di cui a sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo in data 20 aprile 2001. Il compendio probatorio a suo carico è stato individuato nelle dichiarazioni dei collaboranti V. e S.; nelle dettagliate annotazioni riportate sulle agendine sequestrate al coimputato L.; nei riscontri desunti dalle intercettazioni ambientali.

I motivi di ricorso proposti nel suo interesse sono illustrati in due separati atti, l’uno sottoscritto personalmente dal N. e l’altro a cura del difensore, Avv. Giovanni Cipollone. Il ricorso personalmente proposto è articolato in due motivi: col primo il ricorrente eccepisce la nullità del giudizio di primo grado per legittimo impedimento dell’imputato, detenuto all’estero; col secondo, articolato in due censure, eccepisce innanzi tutto la nullità dei decreti autorizzativi delle intercettazioni per carenza di motivazione in ordine all’utilizzo di impianti esterni; in secondo luogo denuncia vizi motivazionali della sentenza in ordine alla valutazione delle prove. Il ricorso a firma dell’Avv. Cipollone è affidato a quattro motivi: il primo si traduce nell’eccezione di nullità dei decreti di intercettazione per le ragioni già dette; il secondo investe la valutazione delle prove; il terzo si appunta sulla dichiarazione di latitanza, di cui è eccepita la carenza dei presupposti; il quarto attiene alla disposta applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 c.p., comma 6, il diniego delle attenuanti generiche e la dosimetria della pena.

C.S. è stato condannato per partecipazione all’associazione mafiosa con funzioni di gestione degli affari illeciti e di mantenimento dei contatti col latitante Ra.

D.. Gli elementi di prova a suo carico sono stati individuati nelle conversazioni ambientali, dalle quali si è ritenuto emergere la sua intraneità al consorzio criminoso, in una con le funzioni affidategli.

Il ricorso proposto nel suo interesse si basa su due motivi. Col primo il ricorrente contrasta il convincimento che la persona indicata nelle conversazioni come "il C. meccanico di (OMISSIS)" identifichi la sua persona; col secondo impugna il trattamento sanzionatorio.

Ca.Nu. è stato condannato per partecipazione all’associazione mafiosa, con compiti di riscossione dei proventi delle estorsioni. A suo carico è stato valorizzato un corposo compendio probatorio costituito dalle dichiarazioni dei collaboranti, con particolare riguardo a Vi.Gi.; dagli esiti delle numerose intercettazioni ambientali; dalle annotazioni contenute nella agendine sequestrate a L.N.; dalla stessa storia personale e giudiziaria dell’imputato, che già in precedenza aveva riportato una condanna per favoreggiamento aggravata del D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

Il ricorso presentato nel suo interesse si articola in quattro motivi. Col primo il ricorrente, denunciando vizi di motivazione, contesta che il materiale probatorio acquisito dimostri la partecipazione al sodalizio criminoso. Col secondo ripropone la tesi della riconducibilità del fatto all’ipotesi di cui all’art. 378 c.p.. Col terzo impugna il diniego delle attenuanti generiche. Col quarto denuncia, siccome immotivata, la severità della pena inflitta, anche in relazione alla richiesta, a suo tempo da lui presentata, di accesso al rito abbreviato.

G.G., condannato anch’egli per partecipazione all’associazione mafiosa con funzioni relative alla gestione degli affari illeciti sulla base delle prove rivenienti dalle propalazioni dei collaboranti, dalle conversazioni captate e dalla documentazione acquisita, ha proposto ricorso in base a tre motivi. Col primo eccepisce l’omessa notificazione degli avvisi prodromici all’udienza preliminare, lamentando che la Corte d’Appello abbia soltanto verificato la validità della notifica del decreto che aveva disposto il giudizio; deduce la nullità del giudizio di primo grado per legittimo impedimento a comparire, causato dallo stato di detenzione all’estero. Col secondo motivo denuncia travisamento del fatto e contraddittorietà della motivazione in ordine al giudizio di colpevolezza.

Agli atti vi è una memoria nell’interesse della parte civile Associazione Antiracket e Antiusura "SOS Impresa – Palermo", con cui si eccepisce l’inammissibilità e l’infondatezza di tutti i ricorsi.
Motivi della decisione

Esaminando nel corretto ordine logico-giuridico le molteplici questioni sollevate nei motivi di ricorso, vengono prioritariamente in osservazione quelle che investono la ritualità del contraddittorio. La prima di esse riguarda le posizioni degli imputati L.N. e P.A.: entrambi denunciano, quale vizio inficiante di nullità il giudizio di primo grado, la propria mancata traduzione per assistere a talune udienze dibattimentali, che per il L. sono quelle tenutesi il 5 giugno, 15 giugno e 16 giugno 2006, mentre per il P. si tratta dell’udienza tenutasi il 22 marzo 2006.

Ambedue le eccezioni sono infondate.

L’esame degli atti processuali (consentito in questa sede dalla natura della questione sollevata) permette di constatare che nel corso dell’udienza del 10 maggio 2006 il Presidente del collegio giudicante rese noto il calendario delle udienze che si sarebbero tenute nei mesi a venire, dettandolo a verbale in pubblica udienza, alla quale era presente anche il L.. Quest’ultimo, in data 30 maggio 2006, per il tramite dell’ufficio Matricola della casa circondariale di Bologna fece pervenire la richiesta di partecipazione all’udienza del 18 giugno 2006, affinchè venisse disposta la sua traduzione. Siffatta richiesta, che pareva comportare la rinuncia ad ogni udienza antecedente quella indicata, era tuttavia di difficile decifrazione, in quanto la data del 18 giugno 2006 non compariva nel calendario prefissato delle udienze; in considerazione di ciò, il Presidente restituì via fax una copia della richiesta, apponendovi una nota nella quale invitava l’imputato a meglio precisare l’udienza cui intendeva partecipare. L’invito non risulta avere mai avuto risposta, sicchè non è stato possibile disporre la traduzione del L. per alcuna delle udienze programmate.

L’assunto della difesa, secondo cui il fax del Presidente avrebbe avuto in quello stesso giorno una risposta contenente l’opzione per l’udienza del 17 giugno 2006, da tenersi nei locali del Tribunale di Milano, è priva di supporto documentale. La copia del fax rimasta agli atti del processo reca, per vero, un appunto informale privo di sottoscrizione, del seguente tenore: "Tribunale Milano 17/6/06 udienza"; ma in nessun modo risulta che quello scritto anonimo corrisponda a una dichiarazione resa in tal senso dell’imputato:

tanto più che, dall’informativa assunta da questa Corte Suprema in vista dell’udienza odierna, emerge che l’unica comunicazione rivolta dal L. al Tribunale di Palermo il giorno 30 maggio 2006 è consistita nel fax contenente l’errata indicazione dell’udienza del 18 giugno di quell’anno.

La linea argomentativa su cui poggia il rigetto dell’eccezione da parte della Corte d’Appello non è, dunque minimamente intaccata dalle contestazioni del ricorrente.

Quanto al P., la denunciata violazione del diritto dell’imputato a partecipare all’udienza consisterebbe, nell’ottica del ricorso, non già nell’aver omesso di disporre la sua traduzione, ma nell’avere erratamente interpretato come rinuncia l’impedimento a comparire determinato dalla mancanza di un necessario mezzo di spostamento quale una sedia a rotelle, resa necessaria a suo dire da un prescrizione del medico in tal senso. In realtà la ricostruzione del fatto offerta dalla documentazione in atti è del tutto diversa, emergendo dalla comunicazione della polizia penitenziaria che la traduzione del detenuto fu resa impossibile dal suo atteggiamento ostnizionistico; la tesi qui propugnata dal ricorrente, secondo cui l’opposizione da lui manifestata alle modalità di traduzione predisposte dipendeva dalla mancanza della sedia a rotelle, è rimasta relegata al rango di mera petizione difensiva e non può, conseguentemente, legittimare l’accoglimento dell’eccezione.

Non rileva il fatto che il Tribunale, investito della questione, si sia riservato di decidere in un secondo tempo (previa acquisizione della documentazione medica) e abbia poi omesso di sciogliere la riserva. E’ principio di pacifica acquisizione quello per cui le carenze motivazionali nelle quali sia eventualmente incorso il giudice di primo grado possono essere emendate dal giudice di appello: il quale per l’appunto, nella sentenza odiernamente impugnata, ha dato pertinente e condivisibile giustificazione al rigetto dell’eccezione di nullità.

Proseguendo nella disamina delle questioni attinenti alla regolarità del contraddittorio, vengono in osservazione quelle sollevate dai ricorrenti N. e G.. Le posizioni di costoro, per quanto attinente al profilo processuale qui esaminato, sono sostanzialmente analoghe e possono essere trattate congiuntamente.

E’ pacifico in atti – lo riconosce la stessa sentenza di appello – che i due imputati in questione, dopo essere stati dichiarati latitanti a seguito delle infruttuose ricerche sul territorio nazionale, furono tratti in arresto negli Stati Uniti per cause completamente autonome rispetto al presente processo. A questo punto il Tribunale di Palermo, reso edotto di quanto avvenuto, avrebbe dovuto tener conto del fatto che lo stato di detenzione all’estero – sia pure per altra causa – costituiva un legittimo impedimento a comparire: con la conseguente impossibilità di ritualmente proseguire il dibattimento nei confronti di tali imputati, fino al rilascio da parte dell’autorità estera o fino al completamento dell’eventuale procedura di estradizione. L’aver seguitato ciò nonostante a dar corso all’iter processuale ha dato luogo a una violazione del contraddittorio riconducibile alla nullità di ordine generale di cui all’art. 178 c.p.p., lett. c), inficiante la sentenza di primo grado e foriera delle conseguenze di cui all’art. 185 c.p.p., comma 3.

Per quanto si riferisce al G., tuttavia, la regressione del procedimento deve spingersi ancora più addietro. Merita, infatti, accoglimento l’ulteriore eccezione con la quale costui rileva l’omessa notifica nei suoi confronti dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare; di tale adempimento, quanto meno, non è dato rinvenire agli atti la documentazione, per cui deve presumersene l’omissione a tutti gli effetti e con le relative conseguenze di legge.

L’inevitabile annullamento delle statuizioni di condanna a carico del N. e del G., per le ragioni assorbenti ora viste, esime la Corte dalla disamina dei restanti motivi dedotti a sostegno dei loro ricorsi.

Ad opposta sorte è votata l’eccezione con cui il ricorrente L. lamenta, quale vizio assertivamente comportante violazione del suo diritto all’impugnazione, la mancata emissione di un formale provvedimento autorizzativo del rilascio di copia della sentenza di secondo grado.

In argomento corre l’obbligo di rilevare che, per disposto dell’art. 43 disp. att. c.p.p., non è necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 116 c.p.p., comma 2 nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio di copie, estratti, o certificati di atti. Orbene, nel caso della sentenza, il diritto spettante alle parti di ottenere copia di essa è connaturato alla natura dell’atto e reso evidente dalle formalità stesse che ne accompagnano il deposito; infatti la previsione dell’obbligo per la cancelleria di notificare l’avvenuto deposito della sentenza nel caso di inosservanza del termine (nell’ipotesi opposta l’inutilità dell’adempimento discende dalla conoscenza del termine fissato dal giudice o, in alternativa, dalla legge) e, in ogni caso, al contumace, è evidentemente preordinato a consentire alle parti di prendere cognizione del testo integrale della sentenza e di estrarne copia.

Non può, dunque, il L. dolersi di non aver ottenuto dal giudice un’autorizzazione che non gli necessitava, dal momento che gli sarebbe bastato rivolgersi alla cancelleria per vedere esaudita la sua richiesta.

Ancora nell’ambito delle questioni di rito si muovono le eccezioni sollevate da più parti in ordine all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali.

In via generale occorre premettere che, secondo un principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza e recentemente fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema (Cass. Sez. Un. 23 aprile 2009 n. 23868), la parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali ha l’onere di indicare specificamente gli atti assertivamente viziati e di chiarire l’incidenza di essi sul compendio probatorio: in mancanza di che il ricorso è inficiato da aspecificità, in quanto la Corte di Cassazione non è posta in grado di identificare l’oggetto dell’eccezione, nè di valutare la decisività dell’atto istruttorio impugnato, anche ai fini della cd.

"prova di resistenza".

Nell’ottica or ora descritta va subito rilevato che l’eccezione di nullità e inutilizzabilità del materiale istruttorio tratto dalle intercettazioni, sollevata dal ricorrente L. col secondo motivo del ricorso personalmente presentato (e accompagnata, per di più, da un’esplorativa richiesta di ricerca officiosa, da parte della Corte di Cassazione, di eventuali altri vizi di nullità), non può essere presa in esame per la sua assoluta genericità.

Analoga carenza di specificità, alla stregua del principio giurisprudenziale testè ricordato, affligge tutte le restanti eccezioni sollevate dai ricorrenti, finalizzate a dedurre l’inutilizzabilità delle intercettazioni sotto svariati profili.

Manca, invero, la necessaria individuazione dei decreti assertivamente viziati in quelle con cui P.A. (secondo motivo) deduce l’omessa motivazione circa l’urgenza di provvedere, a giustificazione dell’uso di apparecchiature esterne.

Forniscono, invece, tali indicazioni, ma non precisano quale sia l’incidenza sul compendio probatorio degli elementi raccolti attraverso le captazioni impugnate, le eccezioni sollevate: da L.N., in ordine all’impiego della motivazione per relationem (terzo motivo a firma dell’Avv. De Francesco), all’omessa motivazione sulla necessità di ricorrere ad impianti esterni (quarto motivo a firma dell’Avv. De Francesco), alla dedotta tardività della convalida (secondo motivo a firma dell’Avv. De Francesco), alla difformità delle premesse rispetto al dispositivo del decreto di convalida (quinto motivo a firma dell’Avv. De Francesco); da Ri.Fi., in ordine all’omessa motivazione sull’urgenza di procedere ad intercettazione con decreto del pubblico ministero e alla tardività dei decreti di proroga (primo motivo); da R. F. (prima censura dell’unico motivo), in ordine all’omessa motivazione sulla necessità di ricorrere ad impianti esterni.

I rilievi ora visti già varrebbero a giustificare il rigetto delle questioni sottese dai motivi di gravame testè elencati. In aggiunta, peraltro, vale la pena di svolgere alcune considerazioni che di seguito, sinteticamente, si espongono.

Circa la legittimità della motivazione del decreto di autorizzazione alle intercettazioni, facente rinvio per relationem alla richiesta del pubblico ministero o all’informativa della polizia giudiziaria, la giurisprudenza di legittimità è saldamente orientata in senso affermativo. Infatti, dopo il pronunciamento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 919/04 in data 26 novembre 2003, le sezioni singole si sono uniformate con una serie ininterrotta di decisioni, fra le quali basti citare Cass. Sez. 1^, 22 aprile 2010 n. 20262; Cass. Sez. 6^, 14 novembre 2008 n. 46056; Cass. Sez. 1^, 3 febbraio 2005 n. 11525.

Le ragioni ivi esposte a sostegno dell’indirizzo interpretativo ormai irreversibilmente adottato, aventi riguardo all’attitudine del richiamo per relationem – dimostrativo della presa in esame e della appropriazione del contenuto degli atti richiamati – ad evidenziare l’iter cognitivo e valutativo seguito per giustificare l’adozione di quel mezzo di ricerca della prova, sono vincenti sulle argomentazioni svolte dalle voci dottrinali di contraria opinione.

Quanto suesposto vale, in tutta evidenza, non soltanto per i decreti autorizzativi emessi dal G.I.P., ma anche per quelli emessi dal P.M. ai sensi dell’art. 267 c.p.p., comma 2, nei quali la motivazione faccia rinvio all’informativa della p.g..

L’urgenza di provvedere, nei casi in cui si faccia questione di reati permanenti, è insita nel pericolo che l’attività delittuosa in itinere abbia a sfociare in condotte lesive dei beni giuridici sottoposti a più intensa tutela dall’ordinamento, quali il diritto alla vita, all’incolumità, alla libertà personale. E’ innegabile che, nel novero dei reati permanenti, una posizione di spicco debba riconoscersi all’associazione di tipo mafioso: ma ciò non significa che la norma disponga un trattamento differenziato per gli indiziati ex art. 416 bis c.p., giacchè lo stesso principio or ora menzionato si rende applicabile in attualità di altri reati permanenti, come il sequestro di persona.

In ordine al ricorso ad impianti esterni, diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, vanno qui ricordati i principi recentemente enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Cass. Sez. 4^, 22 ottobre 2008 n. 45700), a tenore dei quali: 1) anche in riferimento a questo tema specifico, resta ferma le legittimità della motivazione per relationem; 2) qualora, ricorrendo un caso di "urgenza", le operazioni di intercettazione debbano essere avviate immediatamente, abilitandosi il pubblico ministero a disporle senza che si debba attendere il provvedimento autorizzativo del giudice, sussistono evidentemente anche le "eccezionali ragioni di urgenza" considerate come presupposto legittimante l’uso di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, posto che sia riscontrata l’insufficienza o inidoneità di quelli installati nella Procura della Repubblica (v. anche Cass. Sez. 6^, 17 novembre 2004 n. 2563/05): onde può dirsi che i "casi di urgenza" che abilitano il P.M. a provvedere direttamente ex art. 267 c.p.p., comma 2 comprendono in sè le "eccezionali ragioni di urgenza" contemplate dall’art. 268 c.p.p., comma 3; 3) se è pur vero che la convalida del decreto del P.M., con il quale in via di urgenza sono state disposte le intercettazioni, non assorbe nè rende frustranea la valutazione della legittimità di tale attività, ai fini della utilizzabilità del risultato conseguitone, è tuttavia altrettanto vero che il decreto di convalida emesso dal giudice per le indagini preliminari a seguito di provvedimento urgente del pubblico ministero assorbe integralmente il provvedimento originario e sana ogni eventuale difetto di motivazione di esso: così rendendo utilizzabili i relativi risultati, in quanto la convalida preclude qualunque discussione sulla sussistenza del requisito dell’urgenza (v. anche Cass. Sez. 2^, 4 maggio 2001 n. 26015).

La convalida del provvedimento emesso dal pubblico ministero deve intervenire entro le 48 ore ( art. 267 c.p.p., comma 2); ma, se l’attestazione del deposito apposta al decreto di convalida dalla cancelleria del G.I.P. reca soltanto l’indicazione della data -e non dell’ora – in cui l’atto è stato depositato, al dato mancante occorre supplire in via presuntiva; per cui, acquisita la certezza (insita nella natura di atto pubblico del provvedimento) che il decreto è stato sottoscritto dal giudice il giorno precedente, tale essendo la data da lui stesso appostavi, è ragionevole presumere che il deposito sia avvenuto nelle prime ore del giorno indicato dal cancelliere: dunque in tempo utile rispetto alla scadenza, ove questa sia fissata per le ore 10.30.

Per ciò che attiene alla tempestività del decreto di proroga, merita consenso quanto argomentato dal giudice di merito con l’osservare che il computo temporale va sempre eseguito a far data dall’effettivo inizio delle operazioni di captazione. In tal senso è costante l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, da ultimo riaffermato da Cass. Sez. 1^, 6 marzo 2009 n. 12876. In aggiunta a ciò va ricordato, ancora in assonanza con la Corte territoriale, l’ulteriore principio a tenore del quale "la tardività del provvedimento giudiziale di convalida del decreto, con cui il pubblico ministero dispone nei casi di urgenza l’intercettazione, rende inutilizzabili soltanto i risultati delle operazioni già compiute e non anche i risultati delle operazioni intercettative successive" (Cass. Sez. 1^, 10 aprile 2001 n. 28293; Cass. Sez. 1^, 10 aprile 2001 n. 28293): il che, applicato mutatis mutandis al caso della proroga, induce ad affermare che, quand’anche tardivamente emesso, il decreto di proroga varrebbe a legittimare le operazioni captative posteriori alla sua emissione, rendendo inutilizzabili soltanto quelle compiute nell’intervallo fra la scadenza del decreto originario e l’emissione del decreto di proroga.

A conclusione dell’argomento mette conto di rilevare che la discrasia denunciata dal ricorrente L. fra la premessa del decreto emesso dal G.I.P., a convalida delle intercettazioni disposte dal P.M. il 16 giugno 2003 (facente riferimento a captazioni ambientali nelle abitazioni di G.G. e Ga.Ma.), e il tenore del dispositivo (autorizzante le intercettazioni in autovetture) non ha alcun effetto invalidante, essendo il frutto evidente di un errore materiale; fermo restando quanto già rimarcato in ordine alla omessa specificazione, da parte del ricorrente, della portata degli esiti captativi nell’allestimento dell’apparato probatorio complessivo a carico del L..

Venendo, ora, ad esaminare partitamente la posizione processuale dei singoli imputati ricorrenti, viene in considerazione quanto segue.

L’affermazione di responsabilità di R.F. per il reato associativo è dipesa dal perdurante inserimento nel circuito di solidarietà carceraria durante il periodo della sua detenzione, connotato dalla ricezione di continue rimesse di denaro dai referenti esterni del sodalizio mafioso, secondo quanto riferito dai collaboranti S.M. e Vi.Gi. (quest’ultima autrice di rimesse in prima persona); nonchè dall’attività da lui stesso svolta in favore dell’associazione quando, una volta uscito dal carcere, si era reso disponibile ad ulteriore collaborazione, così da essere investito da V.L. della cura degli affari; di ciò si è rinvenuta la prova nel cospicuo materiale captativo, in seno al quale il R. è stato individuato per il soggetto indicato dagli interlocutori ora come " C.", ora come "Mastro N.", ora come "fratello di Mastro N.".

In ordine all’interpretazione delle conversazioni intercettate ed alla identificabilità dell’odierno ricorrente nel soggetto menzionato dagli interlocutori con gli pseudonimi testè indicati, la motivazione della sentenza d’appello è chiara ed esplicita; in essa si rileva il carattere univoco delle affermazioni dei dialoganti, al di là dell’utilizzo di un linguaggio criptato di agevole decifrazione, per trame il pieno spessore di un uomo incaricato di seguire le estorsioni, vigilare sul lavoro degli altri affiliati, contattare il soggetto denominato convenzionalmente "il veterinario" e identificato nel noto latitante Ra.Do.. Che poi quell’uomo fosse R.F. è convincimento basatosi su un’attenta disamina del materiale intercettativo nel suo complesso, che ha permesso di constatare come le parole " C.", "Mastro N.", "fratello di Mastro N." fossero state inequivocabilmente accostate al suo nome in altre conversazioni.

La linea motivazionale così sviluppata, siccome immune da vizi logici e giuridici, resiste al controllo di legittimità; nè giova al ricorrente contrapporvi argomentazioni di segno contrario, atteso che la problematica riguardante la concreta individuazione degli interlocutori e delle persone menzionate in una conversazione attiene, tipicamente, all’accertamento del fatto e sfugge, pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione, volta che il risultato identificativo sia – come si è visto essere nella specie – argomentato nel rispetto della logica.

La condanna di B.S. per il reato associativo è dipesa dall’acquisizione in grado di appello di una prova sopravvenuta, rispetto alla pronuncia di assoluzione emessa nei suoi confronti dal Tribunale. Il giudice di primo grado aveva ritenuto prive di adeguati riscontri esterni le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano descritto il B. come partecipe della faida che aveva avuto luogo in Partinico tra le famiglie dei Vitale e degli Alduino, attribuendogli un ruolo di fattiva partecipazione col contributo a reati contro la vita e legati all’imposizione del "pizzo". A seguito della produzione della sentenza emessa il 9 dicembre 2008 dalla Corte d’Assise di Palermo (passata medio tempore in giudicato), con la quale il B. è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di A.F. P. e Ro.Ro., la Corte d’Appello vi ha ravvisato un formidabile riscontro alle propalazioni dei collaboranti, ritenendo altresì che da essa potessero trarsi nuovi elementi interpretativi delle conversazioni ambientali intercettate.

Tale modo di argomentare – che nella motivazione della sentenza impugnata si accompagna a ripetuti richiami al narrato dei collaboranti – è ineccepibile dal punto di vista logico e reca una radicale confutazione delle incertezze connotanti la sentenza di primo grado. Non sussiste, pertanto, il vizio di motivazione dedotto dal ricorrente.

L.N., come si è già ricordato in narrativa, è stato condannato sia per partecipazione all’associazione mafiosa, sia per concorso nelle estorsioni pluriaggravate in danno della società Pavesi & C. – Co.Sa. e di Li.Gi.. Quali prove a suo carico sono state valorizzate le dichiarazioni dei collaboranti, le conversazioni intercettate, ed altresì il rinvenimento in un fondo a sua disposizione di un ingente quantitativo di armi e di un certo numero di agendine contenenti – secondo i chiarimenti fomiti in proposito dalla collaborante Vi.Gi. – annotazioni contabili dei proventi delle estorsioni.

Su tali presupposti si è ritenuto che il L., già condannato in precedenza per partecipazione ad associazione mafiosa, avesse seguitato nella sua collaborazione occupandosi della gestione degli affari illeciti, della riscossione del "pizzo", della distribuzione dei relativi proventi fra gli associati e della gestione delle armi.

La ricostruzione in fatto ha portato i giudici di merito a ritenere che egli intrattenesse rapporti con personaggi di spicco assoluto all’interno dell’associazione mafiosa, quale il già menzionato Ra.Do. detto "il veterinario", al quale egli faceva in un primo tempo pervenire il denaro delle estorsioni, mentre in seguito era stato affidato a lui stesso l’incarico di provvedere alla distribuzione tra gli associati.

Alla stregua della valenza oggettiva degli elementi probatori raccolti – che nel sequestro di armi e di appunti contabili ha raggiunto il massimo della concretezza – non può certamente affermarsi, come pretende il ricorrente (terzo motivo del ricorso personalmente redatto), che la condanna si sia fondata su un giudizio probabilistico, piuttosto che su una valutazione di prove certe. In argomento va detto, anche a confutazione delle censure mosse nel ricorso a firma dell’Avv. Clementi, che – secondo quanto opportunamente evidenziato nella sentenza impugnata – le propalazioni del collaborante S. hanno trovato riscontro in una serie di conversazioni intercettate, specificamente indicate nella motivazione; che l’altra collaborante, Vi.Gi., ha fornito la chiave di lettura delle agendine rinvenute insieme alle armi; che, ai fini della continuità della condotta delittuosa sussumibile nel reato associativo, basterebbe la constatata mancanza di qualsiasi atto di recessione dai pregressi legami (accertati con sentenza passata in giudicato) tra il L. e il sodalizio mafioso; che l’estorsione in danno della società Pavesi & C. è stata provata dalle deposizioni di L.G.B. e dell’ing. Pr., mentre il coinvolgimento del L. è stato desunto da una specifica appostazione contabile dell’agenda – in suo possesso – riguardante l’anno 2002, corroborata dalle captazioni ambientali del 23 febbraio 2004 e del 12 dicembre 2003 (in quest’ultima L.C.O. aveva fatto proprio il suo nome, quale soggetto consegnatario di una franche dei versamenti estorti);

che, quanto all’episodio – attribuito con certezza al L. in base alla deposizione della persona offesa – riguardante la percezione di somme corrisposte dall’impresa di trasporti TRA.LI.SE. di Li.Gi., il carattere estorsivo della richiesta non può essere escluso dal tono gentile usato e dalla mancanza di esplicite minacce, stante l’univocità del riferimento alla "famiglia" e alla "gente in galera" quali destinatali dell’aiuto economico. A quest’ultimo riguardo è opportuno richiamarsi al principio giurisprudenziale secondo cui "la minaccia costitutiva del delitto di estorsione oltre che essere palese, esplicita, determinata può essere manifestata in modi e forme differenti, ovvero in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali, in cui questa opera" (così Cass. Sez. 2^, 16 giugno 2004 n. 37526; v. anche le successive Cass. Sez. 5^, 22 settembre 2009 n. 41507; Cass. Sez. 2^, 20 maggio 2010 n. 19724).

L’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 6 è stata correttamente applicata, appartenendo al notorio modus operandi dell’associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" il costante reinvestimento in attività economiche dei proventi realizzati attraverso l’esecuzione dei reati-fine; non costituisce certamente una lacuna mo-tivazionale l’avere omesso di considerare l’ipotesi che una struttura associativa appartenente a quell’organizzazione, situata per di più nel capoluogo della regione maggiormente interessata dall’attività di "Cosa Nostra", si fosse attenuta a criteri del tutto eterogenei rispetto a quello comunemente seguiti.

La censura volta a criticare la mancata applicazione delle attenuanti generiche è inammissibile in quanto esulante dal novero dei motivi consentiti dall’art. 606 c.p.p.. Trattasi, invero, di statuizione che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità, quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sul punto, con l’evidenziare la natura dei reati in contestazione in una coi reiterati, gravissimi e specifici precedenti penali del L.. Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, non essendo necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., ma essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo.

Ri.Fi. è stato condannato per due reati di estorsione pluriaggravata ai danni della società Pavesi & C. e della RA.CO.IM. s.r.l., per la partecipazione al reato associativo e per trasferimento fraudolento di valori, aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7. Sulla scorta delle propalazioni dei collaboranti, riscontrate dalle conversazioni captate, nonchè – quanto alle estorsioni – dalle deposizioni dei testi L.G.B. e c.a., ha ritenuto il giudice di merito che l’imputato fosse inserito nel contesto dei gruppi che, per conto della famiglia mafiosa, erano soliti esigere il pagamento del "pizzo" da parte dei soggetti estorti.

La motivazione della sentenza impugnata si sviluppa in un dettagliato excursus degli elementi probatori suaccennati, soffermandosi sulle singole conversazioni intercettate (nelle quali il Ri. era nominato ora per cognome, ora per nome, ora integralmente per nome e cognome) e ponendole in correlazione con le restanti emergenze probatorie. La Corte di merito si è anche preoccupata di inquadrare cronologicamente la vicenda riguardante l’estorsione ai danni della RA.CO.IM. s.r.l., in considerazione della linea difensiva facente perno sullo stato di detenzione dell’imputato perdurato fino al marzo 2002: e in tale ottica ha osservato che i lavori dell’impresa, iniziatisi il 10 gennaio 2001, avrebbero dovuto bensì raggiungere il completamento entro il 19 ottobre di quello stesso anno, ma si erano invece protratti fino al 2003, mentre i cantieri erano rimasti aperti ancora nel 2004 a motivo di una sovrapposizione di attività imprenditoriali.

Non si può, dunque affermare – onde va disattesa la relativa doglianza del ricorrente – che la motivazione sia carente sul punto, o abbia lasciato dei punti d’incertezza in ordine al coinvolgimento del Ri. nelle attività delittuose ascrittegli. D’altro canto le argomentazioni portate nel ricorso, al fine di contraddire la linea argomentativa della Corte d’Appello, sconfinano inammissibilmente nel merito nelle parti in cui propongono una lettura alternativa delle emergenze probatorie.

L.C.O. è stato condannato per partecipazione ad associazione mafiosa. Dalle dichiarazioni della collaborante Vi.Gi., riscontrate da una serie di captazioni ambientali, la Corte territoriale ha tratto il convincimento che l’odierno imputato, pur appartenendo al novero degli operatori commerciali taglieggiati dalla cosca mafiosa, fosse entrato in un tale grado di confidenza con gli associati da conoscere le dinamiche interne al gruppo dei Vitale e da prestare la sua collaborazione alla realizzazione del progetto criminoso, essendosi assunto il compito di raccogliere il "pizzo" presso altre vittime di estorsioni. Egli, d’altra parte, aveva anche tratto giovamento dal suo legame con l’organizzazione, poichè – come da lui stesso affermato con compiacimento in una conversazione con Ga.Ma. – l’autorevolezza mafiosa dei fratelli V. gli aveva spianato la strada nel perseguimento dei propri interessi commerciali.

Le critiche mosse dal L.C. alla motivazione, là dove si appuntano su una pretesa applicazione dell’art. 416 bis c.p. a una fattispecie estranea al modello legale, sono prive di fondamento. In realtà il materiale probatorio utilizzato dal giudice di merito da conto della presenza di tutti i requisiti per la configurabilità del delitto contestato: sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato, costituito dalla comprovata collaborazione prestata dall’imputato alla raccolta del denaro estorto, sia sotto il profilo della consapevolezza di recare un contributo causale, effettivo e concreto, alla realizzazione del progetto criminoso. Il fatto stesso che dall’intensità del suo rapporto con la famiglia mafiosa il L. C. abbia tratto vantaggi personali, in dipendenza della spendita in suo favore, da parte dei fratelli V., della loro "autorevolezza mafiosa" (equivalente alla "forza d’intimidazione del vincolo associativo", di cui tratta l’art. 416 bis c.p., comma 3), è stato correttamente visto dalla Corte d’Appello come prova del suo stabile inserimento nel circuito mafioso, malgrado la perdurante condizione di soggetto sottoposto al pagamento del "pizzo".

Non è stato dunque violato, ma invece esattamente applicato, il principio posto dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, con la sentenza n. 22327/03 in data 30 ottobre 2002, a definizione della figura del partecipe dell’associazione mafiosa in contrapposizione a quella del concorrente esterno.

E’ invece inammissibile il tentativo di accreditare una diversa ricostruzione del fatto attraverso la prospettazione di una lettura alternativa delle conversazioni intercettate, in ciò attuandosi uno sconfinamento nell’area del merito.

Del pari inammissibile è la doglianza concernente la determinazione del trattamento sanzionatorio. Come si è già rimarcato trattando del ricorso di L.N., la concreta modulazione della pena appartiene al novero dei poteri discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio si sottrae al sindacato in sede di legittimità ove sorretto da idonea motivazione; e tale è certamente la motivazione che si rapporti, fra gli elementi di cui all’art. 133 c.p., a quelli ritenuti di saliente rilievo nel caso specifico, senza che si debba rendere conto in dettaglio della valenza attribuita ad ogni altro elemento. Nel caso che qui interessa la congruità della pena inflitta è stata affermata dalla Corte d’Appello sulla base del giudizio di gravità dei fatti contestati, tenuto conto anche dei precedenti penali del L.C..

Nei confronti di I.G., il cui nome attuale è V.G., la condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. è stata emessa in base agli elementi probatori tratti da due conversazioni intercettate, donde è emerso il suo coinvolgimento nella struttura associativa per aver tenuto contatti con altri esponenti del sodalizio, offerto il proprio contributo nel consueto lessico criptato, e partecipato alla raccolta – illecita – del denaro a favore della famiglia mafiosa.

La concretezza del compendio probatorio valorizzato dal giudice di merito reca una corposa piattaforma fattuale alla motivazione della sentenza impugnata, il cui discorso giustificativo pienamente si regge sulla valutazione delle emergenze captative, pur in mancanza della fonte probatoria che, per altri imputati, proviene dalle propalazioni dei collaboranti. Non sussiste, pertanto, la carenza motivazionale denunciata dal ricorrente col suo unico motivo.

P.A. è stato ritenuto responsabile del reato associativo e di due estorsioni rispettivamente ai danni della casa vinicola Cusumano e della società "Pavesi & C. – Coniglio Salvatore s.r.l.". Quali prove a suo carico sono state valorizzate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le conversazioni intercettate e le deposizioni testimoniali dei soggetti vittime delle estorsioni.

Il suo coinvolgimento nella prima delle due menzionate estorsioni è emerso a chiare lettere, secondo la Corte territoriale, per il fatto che in una determinata occasione il soggetto estorto si sia rifiutato di versare il "pizzo" in quanto il latore della relativa richiesta era soggetto diverso dall’abituale incaricato alla riscossione, indicato per l’appunto nel P.. Quanto alla seconda estorsione, la sua compartecipazione è stata accertata alla stregua delle risultanze dell’agenda relativa all’anno 2002, sequestrata a L.N.: in essa il suo nome era annotato a fianco della riscossione di somme dalla società estorta.

Quanto all’intraneità all’associazione mafiosa, ha considerato il giudice di merito che il P., già condannato per il medesimo reato con sentenza passata in giudicato, è risultato aver proseguito nello stesso stile di vita, continuando a tenersi a disposizione del clan mafioso e ricevendo attestati di stima, confidenze ed incarichi, come dimostrato dalle propalazioni dei collaboranti e dalle conversazioni intercettate.

Le censure mosse dal ricorrente non sono fondate. L’affermazione secondo cui la circostanza riguardante il rifiuto opposto dal Cu. alla richiesta estorsiva, perchè non proveniente dal P., non sarebbe dimostrata per mancanza della prova captativa della conversazione in cui la Ga. ne fu informata dal P., perde significato a fronte del tenore testuale – riprodotto a pag. 86 della sentenza impugnata – del dialogo svoltosi il 12 dicembre 2003, allorquando la stessa Ga. ebbe a riferire l’episodio a L.C.O., precisando per l’appunto di esserne stata informata dal P.. Vale qui richiamarsi al principio giurisprudenziale che riconosce il valore di prova liberamente apprezzabile dal giudice alle indicazioni di reità provenienti da soggetti intercettati a norma di legge, e a loro insaputa, non applicandosi in tale ipotesi il canone di valutazione previsto dall’art. 192 c.p.p., comma 3 (v. fra le altre, la recentissima Cass. Sez. 1^, 23 settembre 2010 n. 36218); e il giudice di merito ha puntualmente motivato il proprio convincimento, sottolineando come la Ga. non avesse alcun interesse a mentire sull’argomento.

In ordine alla mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, chiesta dalla difesa nel senso dell’assunzione a teste del Cu., va qui ricordato essere principio di consolidata acquisizione nella giurisprudenza di legittimità quello per cui – all’infuori dell’ipotesi, qui non ricorrente, di prove sopravvenute o scoperte dopo la conclusione del giudizio di primo grado ( art. 603 c.p.p., comma 2) – la rinnovazione dell’istruzione nel processo di appello ha carattere eccezionale ed è subordinata a una valutazione giudiziale di assoluta necessità, conseguente all’insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti (Cass. Sez. 2^, 1 dicembre 2005 n. 3458/06; v. anche la più recente Cass. Sez. 5^, 10 dicembre 2009 n. 15320/10). Nel caso di specie la Corte di merito ha chiaramente dimostrato di poter decidere allo stato degli atti, ricostruendo l’episodio sulla base di quanto appreso da risultanze captative ritenute pienamente attendibili: donde la legittimità del rigetto dell’istanza di integrazione probatoria.

Le contestazioni mosse, sotto il profilo della logica consequenzialità, alla motivazione riguardante il coinvolgimento del P. nell’estorsione ai danni della società "Pavesi & C." non hanno ragion d’essere: la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni del proprio convincimento seguendo una linea argomentativa chiara e immune da vizi; ha infatti preso le mosse dalle deposizioni del legale rappresentante della società estorta, L.G.B., e dell’ingegner Pr., traendo da queste la certezza che soggetti di identità ignota ai due testi fossero stati autori dell’estorsione; circa il coinvolgimento del P., si è riferita – come dianzi osservato – alle risultanze dell’agenda relativa all’anno 2002 sequestrata al L.. A tali elementi probatori, già di per sè sufficienti, ha aggiunto quel collegio la valutazione di una conversazione avvenuta il 23 febbraio 2004 fra Ga.Ma., la figlia di costei e P.A., facente riferimento ad un pagamento non ancora effettuato da "i giudici", in tale espressione identificando la società del L.G.. Anche a prescindere dal carattere meramente rafforzativo, attribuito a tale elemento nell’impianto motivazionale della sentenza, va comunque considerato che il distacco cronologico fra l’azione estorsiva riferita dai testi e la conversazione captata non ha alcun significato demolitorio, alla stregua del carattere ripetitivo delle prestazioni oggetto delle estorsioni mafiose.

Nel descritto contesto argomentativo, già di per sè esauriente, una limitata – ma convergente – valenza dimostrativa può essere riconosciuta all’ulteriore rilievo circa l’incapacità del P. di fornire una spiegazione alternativa al rinvenimento del suo nome accanto alla riscossione della somma di Euro 4.000 nell’agenda dell’anno 2002.

Per quanto si riferisce al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., basti osservare che la compartecipazione dell’imputato ai reati-fine propri dell’associazione, e al contempo la sua disponibilità a porsi al servizio del gruppo, dimostrata dal tenore delle conversazioni intercettate, sono state giustamente considerate come prove concrete della mancanza di qualsiasi suo recesso dal vincolo associativo, onde si è ritenuta la perdurante continuità della partecipazione al sodalizio mafioso già accertata con precedente sentenza passata in giudicato. Non vale, dunque, che il ricorrente attribuisca carattere occasionale agli episodi assunti a riprova del suo contributo alla vita associativa, atteso il carattere permanente del reato contestatogli, per la cessazione del quale occorre un atto concreto di dissociazione.

In ordine al diniego della attenuanti generiche va qui ripetuto quanto osservato in precedenza con riferimento alla discrezionalità conferita in via esclusiva al giudice di merito, le cui determinazioni non sono sindacabili in sede di legittimità quando siano congruamente motivate: il che è a dirsi nel caso presente, in cui la Corte d’Appello ha valorizzato la gravità dei fatti e i precedenti penali specifici dell’imputato.

Per V.G., condannato per partecipazione all’associazione mafiosa (in continuazione con una precedente condanna) e inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, le condotte sanzionate sono consistite nell’essersi messo a disposizione del sodalizio dopo aver ultimato l’espiazione della pena per una precedente condanna ex art. 416 bis c.p. ed aver soggiornato in Germania per un certo tempo, nonchè nell’aver inottemperato all’obbligo di soggiorno nel Comune di Partinico, impostogli con ordinanza in data 29 gennaio 2004 dal Tribunale di Palermo.

Anche per tale imputato la perdurante partecipazione alla vita associativa, dimostrata dalle conversazioni captate, in assenza di qualsiasi manifestazione della volontà di recedere dall’associazione criminosa è stata vista come una prova della continuità della condotta illecita. Quanto al reato minore (ma pur sempre delitto:

Cass. Sez. 1^, 27 gennaio 2009 n. 8412), se n’è ravvisata la consumazione per essersi il V. recato nel Comune di (OMISSIS), in contrasto con la prescrizione impostagli.

Gli argomenti da lui portati a critica delle statuizioni di cui sopra sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Inammissibile è il motivo con cui il ricorrente, prendendo le mosse dal tenore delle conversazioni riguardanti la sua persona, impugna l’interpretazione data dai giudici di merito alle espressioni utilizzate dagli interlocutori, contestando che il loro significato sia riconducibile a un linguaggio criptato convenzionalmente adottato dagli associati. In proposito non vi è che da ricordare il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui "in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate" (così Cass. Sez. 6^ 8 gennaio 2008 n. 17619; v. anche Cass. Sez. 6^, 11 dicembre 2007 n. 15396; Cass. Sez. 1^, 28 ottobre 2005 n. 117/06).

Infondata è la denuncia di carenza motivazionale in ordine alla ritenuta inosservanza dell’obbligo di soggiorno. L’accertamento di fatto su cui l’affermazione di responsabilità si è fondata ha tratto la sua fonte probatoria dalla deposizione del capitano dei carabinieri F., il quale aveva descritto il luogo dell’accertamento ponendolo in rapporto topografico con la presenza, trecento metri prima, del cartello di località segnalante l’ingresso nel comune di (OMISSIS). Tanto basta a far escludere la sussistenza del vizio lamentato, mentre esula dai limiti del giudizio di cassazione ogni contestazione circa la condivisibilità della ricostruzione in fatto accreditata dal giudice.

Neppure ha fondamento la critica secondo cui mancherebbe la motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato, per avere la Corte di merito omesso di precisare le ragioni che l’hanno indotta a escludere uno sconfinamento inconsapevole, dipeso da una disattenzione del V.. In realtà il giudice di secondo grado non aveva alcuna necessità di confutare un’ipotesi irragionevole, come quella secondo cui un soggetto dimorante dalla nascita in un Comune potrebbe ignorarne l’ambito territoriale e non rendersi conto, quindi, di esserne uscito.

Il motivo di ricorso finalizzato a censurare il trattamento sanzionatorio è inammissibile, per le ragioni già esposte trattando i ricorsi di altri imputati. La Corte d’Appello ha motivato il diniego di qualsiasi riduzione di pena valutando la personalità dell’imputato, avuto particolare riguardo alla sua precedente condanna per fatti omologhi a quelli per cui è processo e alla riassunzione del medesimo ruolo di associato mafioso, una volta conseguita la libertà. Tanto vale a giustificare la conferma del trattamento sanzionatorio in ogni suo passaggio determinativo (modulazione della pena base, diniego delle attenuanti generiche, quantificazione dell’aumento per la continuazione), non essendo a tal fine necessaria la dettagliata disamina di tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p..

V.M. nato nel (OMISSIS) è stato ritenuto responsabile di associazione mafiosa, in continuazione con altra precedente condanna.

L’addebito mosso a suo carico è quello di aver messo a disposizione del sodalizio criminale i propri figli G. ed A., dallo stato di detenzione in cui si trovava, affinchè dessero a loro volta un contributo causale alla realizzazione del progetto criminoso. Le prove valorizzate a suo carico sono consistite nelle conversazioni intercettate, ed in particolare in due di esse intervenute fra Ga.Ma. e i due figli dell’imputato, donde si è tratto il convincimento che la disponibilità dei due giovani a mettersi al servizio dell’organizzazione mafiosa fosse il portato delle sollecitazioni del padre: il quale, al profilarsi di una prossima scarcerazione (poi, invece, mancata), aveva progettato di riprendere il controllo del gruppo nell’esercizio di un’attività propulsiva che, del resto, non era mai mancata durante la detenzione.

La circostanza così accertata è stata oggetto di valutazione in connessione col principio, già ricordato dianzi, in base al quale il reato permanente di cui all’art. 416 bis c.p. deve considerarsi attuale pur dopo l’interruzione giuridica recata dalla sentenza di condanna, qualora non risulti il compimento di atti concreti di dissociazione.

La motivazione così addotta, non sindacabile in questa sede sotto il profilo della sua correttezza in rapporto ai dati processuali (Cass. Sez. 5^, 22 marzo 2006 n. 12634), da pienamente conto della ratto deciderteli assunta a fondamento della decisione e non è superabile – stante la sua logica consequenzialità – attraverso il richiamo alle dichiarazioni, assertivamente scagionanti, della collaborante Vi.Gi..

Quanto al trattamento sanzionatorio, valga richiamarsi ancora una volta al principio per cui l’apprezzamento discrezionale del giudice di merito – nella specie argomentato in base al ruolo, tutt’altro che marginale, rivestito dall’imputato in seno all’associazione – si sottrae al controllo di legittimità ove sonetto da congrua motivazione.

Vi.Mi. nato nel (OMISSIS) è stato condannato per partecipazione all’associazione mafiosa e per concorso nella tentata estorsione aggravata ai danni di L.F.V.. Come già evidenziato in narrativa, gli elementi probatori valorizzati a suo carico sono consistiti negli esiti delle conversazioni captate, nelle risultanze dei documenti in sequestro, nelle propalazioni dei collaboranti (in particolare di S.M.), riscontrate dalle intercettazioni; nonchè, per quanto riguardante la tentata estorsione, nelle deposizioni del capitano dei carabinieri So. e della persona offesa. Secondo la ricostruzione in fatto operata dai giudici di merito, egli si era dedicato alla gestione di affari illeciti della famiglia mafiosa di Partinico, occupandosi in particolare della riscossione dei proventi estorsivi; con riferimento, in particolare, all’estorsione tentata nei confronti del L.F. (titolare dell’impresa aggiudicataria dei lavori di costruzione di un foro boario in Gangi), era emerso dalla lettura della corrispondenza intrattenuta da Pr.Be., a mezzo dei "pizzini", che per l’incarico di avanzare la richiesta estorsiva era stato designato l’odierno ricorrente, ivi indicato come " Mi., cugino dei Fa.", ritenuto sottoposto a quell’epoca a una misura cautelare o di prevenzione. La richiesta fu poi effettivamente rivolta al L.F. da persona da lui non conosciuta, che lo aveva invitato a "mettersi a posto"; era seguita una richiesta di dilazione, dopo di che la vicenda non aveva avuto seguito.

Secondo la difesa la motivazione sarebbe viziata da omessa risposta alle deduzioni svolte nell’atto di appello, volte a contrastare l’individuazione di Vi.Mi. quale latore dell’invito a "mettersi a posto"; si era obiettato che all’epoca dei fatti tale imputato non era sottoposto ad alcuna misura limitativa della libertà, ma soltanto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione; e si era prospettata la possibilità che il " Mi." indicato nei "pizzini" fosse in realtà il collaborante S.: il quale, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, non era detenuto all’epoca dei fatti.

Osserva questa Corte che, sul merito delle argomentazioni svolte a sostegno dell’appello, non è possibile esprimersi in questa sede di legittimità: qui interessa soltanto valutare se quelle critiche, mosse al deliberato di prime cure nell’atto di appello, abbiano avuto risposta dal giudice di secondo grado; e la risposta deve essere affermativa.

Ha osservato, invero, la Corte territoriale che l’identificazione di Vi.Mi. quale soggetto indicato con le parole " Mi. cugino dei Fa." trovava conferma nella lettura delle numerose conversazioni intercettate, nelle quali l’odierno imputato era ripetutamente designato col nomignolo di " Mi." o " Mi.", nonchè nel dato anagrafico che lo indicava come cugino dei capi della famiglia Vitale (soprannominati Fa.);

ha aggiunto che, a fronte di tali elementi, perdeva rilevanza l’esattezza o meno dell’ulteriore caratterizzazione che attribuiva al soggetto designato la soggezione ad una misura cautelare o di prevenzione: rimarcando, comunque, che l’essere stato l’imputato proposto per una misura di prevenzione conferiva un principio di fondamento a quell’indicazione, proveniente da G.A., essendo più che plausibile che costui non risultasse del tutto informato circa l’esito negativo dell’originaria proposta di applicazione di quella misura.

L’ipotesi che quel " Mi." potesse identificarsi in S. M. è stata disattesa dalla Corte di merito per l’assoluta mancanza di elementi a conforto; e tale notazione sarebbe già sufficiente a dar conto della decisione, quand’anche l’epoca del commesso reato (compresa tra il maggio 2001 e il gennaio 2002) non cadesse nel periodo di detenzione del S., iniziatosi il 17 maggio 2000.

Anche nella parte concernente la partecipazione del Vi. alla cosca mafiosa, la sentenza di appello è sorretta da motivazione immune da vizi; oltre al riconosciuto suo concorso al tentativo di realizzazione di uno dei reati-fine, e alle significative propalazioni del collaborante S. (ritenute non contrastate dal reticente silenzio sul punto di Vi.Gi.), sono ivi valorizzate le risultanze di molteplici conversazioni captate, nelle quali del "cugino Mi." (o altrove, come già rilevato, " Mi.") si parlava come incaricato della raccolta di fondi di origine illecita, da destinare a sussidio per i sodali detenuti; e lo si criticava, talvolta, per non aver tempestivamente provveduto alla relativa distribuzione. Anche sotto tale profilo, pertanto, il ricorso si dimostra infondato.

C.S. è stato condannato per partecipazione all’associazione mafiosa. Secondo l’interpretazione data dai giudici di merito alle conversazioni intercettate, in lui si identifica il soggetto indicato dagli interlocutori con l’espressione "il meccanico di (OMISSIS)", risultante dal complesso dei dialoghi come fedelissimo a Ga.Ma., incaricato di far da tramite fra altri sodali (in particolare di tenere i contatti col latitante Ra.Do., detto "(OMISSIS)"), e mandato talvolta a riscuotere i proventi delle estorsioni.

Nel ricorso tale identificazione è contestata, sul rilievo che dalle intercettazioni l’officina meccanica del soggetto individuato come responsabile risulterebbe vicina ad una palestra, mentre quella del C. non lo è; su tale circostanza ci si duole che sia mancato il pur invocato approfondimento istruttorio; si denuncia, inoltre, il travisamento delle dichiarazioni rese da Vi.Gi. in ordine al ruolo svolto nella cosca dal soggetto di cui si tratta; si evidenzia che l’altro collaborante, S.M., nessun riferimento ha fatto alla persona del C..

In argomento va considerato quanto di seguito esposto.

Indipendentemente dal silenzio del S. sul punto in questione, la sentenza impugnata è chiara e precisa nel trarre gli elementi probatori a carico dell’imputato dal tenore delle conversazioni fra presenti, nell’ambito delle quali la menzione del soggetto indicato come "meccanico di (OMISSIS)" era accompagnata ora dal cognome " C.", ora dal nome " S."; in aggiunta a ciò, nella motivazione si rileva come Vi.Gi. si sia dimostrata certa nel riferire che C.S. le era stato presentato da Sa.Ni. – uomo d’onore reggente temporaneo della famiglia mafiosa di Partinico – come persona a disposizione dell’organizzazione, cui rivolgersi in caso di necessità.

La motivazione così addotta è, indubbiamente, esauriente e sorretta da logica ineccepibile, onde resiste al vaglio di legittimità e giustifica, nel contempo, il giudizio di superfluità del supplemento istnittorio sollecitato dalla difesa. Nè, d’altra parte, è lecito contrapporvi una diversa interpretazione del narrato della Vi.;

infatti, ai fini del controllo della Corte di Cassazione sulla motivazione, il vizio deducibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) è solo l’errore revocatorio (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse): mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" nè fuori dal contesto in cui è inserito. Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa: e che pertanto restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Cass. Sez. 5^, 11 gennaio 2007 n. 8094).

In ordine alla critica mossa al trattamento sanzionatorio, non vi è che da rinviare a quanto già ripetutamente osservato in ordine alla discrezionalità della valutazione data dal giudice di merito ed alla sua insindacabilità, in presenza di congrua motivazione. Nel caso specifico la Corte territoriale ha efficacemente motivato ponendo in luce l’estrema gravità dei fatti accertati e i precedenti penali del C..

Di Ca.Nu. è stata pronunciata condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., per essersi ritenuto che avesse svolto funzioni relative alla gestione degli affari illeciti dell’organizzazione mafiosa, con particolare riguardo alla riscossione del denaro estorto.

Gli elementi probatori valorizzati dai giudici di merito sono consistiti: nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e, nello specifico, da Vi.Gi., che lo annoverava fra i soggetti sostanzialmente dediti alla raccolta di denaro illegale per conto del clan Vitale; nelle intercettazioni ambientali, ove era fatto sovente il suo nome e, talvolta, anche il cognome, e nelle quali egli era descritto come persona particolarmente solerte nell’esazione del "pizzo"; nelle annotazioni rilevate nelle agendine sequestrate a L.N., nelle quali il nome " Nu." (o, in alternativa, la dizione ritenuta ugualmente univoca "amico di J.") compariva accanto all’indicazione di somme illecitamente riscosse; nella valutazione conclusiva – ma certo non decisiva – della stessa storia personale e giudiziaria del Ca., perfettamente inserita nel quadro probatorio complessivo.

L’addebito di insufficiente motivazione, mosso alla sentenza nel ricorso, non può essere condiviso. Attraverso una valutazione coordinata di tutti gli elementi probatori dianzi elencati, accompagnata da specifici richiami al tenore delle conversazioni e sorretta da logica ineccepibile, la Corte d’Appello è pervenuta ad una ricostruzione fattuale dell’operato del Ca., e del contributo causale (giudicato tutt’altro che marginale od occasionale) da lui concretamente apportato alla realizzazione del progetto criminoso, dimostrativa del suo organico inserimento nella struttura associativa. Le notazioni critiche espresse dal ricorrente a margine di molteplici passaggi del percorso motivazionale, in una col riferimento a specifici stralci della prova orale, potrebbero in un giudizio di merito indirizzarsi a contrastare la persuasività del discorso giustificativo posto a base della condanna: ma non possono certamente accreditarsi, nel giudizio di legittimità, quali elementi dimostrativi di carenze logiche e deviazioni giuridiche dalle quali, in realtà, la sentenza impugnata è totalmente immune.

Da disattendere è anche l’assunto a tenore del quale dovrebbe accedersi alla diversa qualificazione del fatto come favoreggiamento personale, piuttosto che come partecipazione ad associazione mafiosa;

la tesi svolta in tal senso, invero, muove da una ricostruzione del fatto alternativa a quella recepita e fatta propria dal giudice di merito, come tale non prospettabile in questa sede di legittimità per le ragioni già viste.

Inammissibile è la censura mossa alla sentenza impugnata in rapporto al diniego delle attenuanti generiche. Valga qui richiamarsi a quanto ripetutamente osservato in argomento, non senza considerare che la Corte d’Appello ha adempiuto all’obbligo di motivazione evidenziando l’oggettìva, estrema gravità dei fatti accertati.

Giuridicamente corretto, infine, è stato il diniego della riduzione di pena connessa alla richiesta di accesso al rito abbreviato, a suo tempo avanzata dall’imputato condizionatamente alla trascrizione delle intercettazioni. La motivazione addotta dal giudice di merito si pone nel solco di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, pienamente condivisibile, a tenore del quale la trascrizione delle intercettazioni non costituisce prova o fonte di prova, ma solo un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica, della quale il difensore può far eseguire la trasposizione su nastro magnetico, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 8 (Cass. Sez. 6^, 22 novembre 2005 n. 10890/06): con la conseguenza per cui non è consentito subordinare la richiesta di definizione del processo con rito abbreviato ad una integrazione probatoria consistente nell’esecuzione della trascrizione (Cass. Sez. 1^, 6 maggio 2008 n. 32851; Cass. Sez. 6^, 20 ottobre 2003 n. 4892/04).

Conclusivamente, ed in via riepilogativa di quanto fin qui argomentato, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di N.F., unitamente alla sentenza del Tribunale di Palermo datata 27 ottobre 2007, a motivo della rilevata nullità incorsa nel giudizio di primo grado; il giudice di rinvio viene, conseguentemente, designato nel Tribunale di Palermo.

La stessa sentenza viene annullata nei confronti di G. G., unitamente alla sentenza di primo grado e al decreto che ha disposto il giudizio, a causa della nullità incorsa nella fase prodromica all’udienza preliminare; onde l’annullamento in questo caso dev’essere senza rinvio, disponendosi la trasmissione degli atti al Tribunale di Palermo per l’ulteriore corso.

Sono invece da rigettare – con le prescritte conseguenze in ordine all’obbligo individuale di pagamento delle spese processuali – i ricorsi proposti da R.F., B.S., L.N., Ri.Fi., L.C.O., I.G. (ora V.G.), P.A., V.G., Vi.Mi. anno (OMISSIS), Vi.Mi. anno (OMISSIS), C.S. e Ca.Nu..

Questi ultimi ricorrenti sono, altresì, da condannare in solido alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di legittimità dalle parti civili Confcommercio di Palermo e Associazione Antiracket e Antiusura "SOS Impresa – Palermo", che hanno presentato le conclusioni scritte; la relativa liquidazione è effettuata, per ciascuna di tali parti civili, nella somma complessiva di Euro 3.000,00, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.
P.Q.M.

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, la sentenza 27/10/2007 del Tribunale di Palermo e il decreto che dispone il giudizio relativamente a G.G., e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Palermo (ufficio del G.U.P.) per l’ulteriore corso;

annulla la sentenza impugnata e la sentenza 27/10/2007 del Tribunale di Palermo relativamente a N.F., con rinvio al Tribunale di Palermo per nuovo giudizio; rigetta i ricorsi di R. F., B.S., L.N., Ri.

F., L.C.O., I.G. (ora V. G.), P.A., V.G., Vi.

M. nato nel (OMISSIS), Vi.Mi. nato nel (OMISSIS), C. S. e Ca.Nu., che condanna ciascuno alle spese del procedimento e alle spese di parte civile in solido, che liquida in Euro 3.000,00 ciascuna in favore della Confcommercio di Palermo e dell’Associazione Antiracket e Antiusura "SOS Impresa – Palermo".

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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