Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 03-12-2010) 01-03-2011, n. 7905 Motivi di ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la decisione sopra indicata, oggetto del ricorso per cassazione oggi in esame, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza datata 19 dicembre 2008, con cui il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma aveva condannato I.F. e T.M. per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e il T. nanche per il delitto tentato di cui agli artt. 81 e 110 c.p. e D.L. n. 206 del 1992, art. 12-quinquies e L. n. 146 del 2006, art. 4 in relazione all’attribuzione alla Duster Holding AG della fittizia titolarità delle azioni della Made in Italy spa (di effettiva proprietà di R.V.).

2. Contro tale decisione ricorrono per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, entrambi gli imputati.

2.2. L’ I. ha denunciato:

– erronea applicazione dell’art. 416-bis c.p. e relativo vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della condotta di partecipazione all’associazione mafiosa;

– vizio di motivazione sul rigetto dei motivi d’appello con riferimento all’interpretazione data dal giudice alla telefonata del 5.8.2004, alla valenza probatoria dell’intercettazione ambientale del 28.4.2005 e della conversazione intercettata in data 8.4.2005;

– inutilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni avvenute all’interno dell’autovettura di O.D..

2.3. T.M. ha dedotto:

– violazione dell’art. 604 c.p.p., lett. c) ed e) in relazione agli artt. 438, 423, 521 e 522 c.p.p. e relativi vizio di motivazione;

– violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in riferimento all’art. 416-bis c.p. e relativo vizio di motivazione;

– violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2 e vizio di motivazione sui profili essenziali delle fattispecie penali contestate mancanza.

3. I ricorrenti hanno in particolare lamentato l’omessa motivazione della Corte territoriale sulle ragioni di rigetto degli articolati e specifici motivi formulati con gli atti di gravame.

In argomento, è stato più volte affermato da questa Corte che l’ambito della necessaria e autonoma motivazione del giudice d’appello risulta segnato dalla qualità e dalla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte da primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.

Quando invece le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano state specificamente e criticamente censurate dall’appellante – come nel caso in esame – sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, se il giudice del gravame si limiti a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza o non pertinenza dei motivi di impugnazione.

In tal caso non può parlarsi di motivazione "per relationem", ma di elusione dell’obbligo di motivazione, previsto a pena di nullità dall’art. 125 c.p.p., comma 3 e direttamente imposto dall’art. 111 Cost., comma 6, che sull’obbligo di "rendere ragione" della decisione, ossia sulla natura cognitiva e non potestativa del giudizio, fonda l’essenza della giurisdizione e della sua legittimazione.

3.1. Sulla base di tali principi, le doglianze dei ricorrenti, come ha sottolineato il Procuratore generale d’udienza, risultano fondate.

Nei motivi d’appello i difensori degli imputati avevano, tra l’altro, dedotto la mancanza di prova e di motivazione sia in ordine al metodo mafioso e all’avvalimento da parte dei sodali, e specificamente degli imputati, della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, sia in ordine al concreto contributo di partecipazione degli imputati.

Il giudice d’appello ha rigettato la doglianza relativa al metodo mafioso, osservando, che "nella specie risulta un clima di diffusa intimidazione derivante dalla consolidata consuetudine di violenza dell’associazione di cui egli faceva parte, che era percepito dall’esterno e di cui gli associati si avvantaggiavano per conseguire i loro obiettivi".

Trattasi di affermazioni apodittiche, senza riferimento agli elementi di fatto posti a fondamento della valutazione e anche dissonanti dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui è partecipe dell’associazione mafiosa colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, "prende parte" alla stessa secondo un’accezione dinamica e funzionalistica con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perchè l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima (Cass., Sez. U, n. 33748/2005, Mannino).

Quanto al clima di diffusa intimidazione, il Collegio osserva che, ai fini della responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 416- bis c.p., se non è certamente necessario che della forza intimidativa abbiano fatto concreta utilizzazione i singoli associati, occorre tuttavia dimostrare che gli imputati fossero effettivamente nelle condizioni e nella consapevolezza di poterne disporre. Ciò implica la dimostrazione che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità d’intimidazione, sino a estendere intorno a sè un alone permanente d’intimidazione diffusa, tale che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti d’intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato. La capacità d’intimidazione deve essere attuale e non solo potenziale e la percezione esterna di essa deve essere effettiva e obiettivamente riscontrabile, essendo insufficiente la prova della sola intenzione di produrlo e di avvalersene (Cass. n. 19141/2006, Bruzzaniti; n. 34974/2007, Brusca).

La sentenza va, pertanto, annullata – ritenendo assorbiti gli altri motivi di ricorso – con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello, che dovrà procedere a nuovo giudizio sulla base dei principi di diritto sopra indicati, prendendo anche specificamente in esame i motivi dedotti dagli appellanti in ordine alle intercettazioni e alla valutazione delle conversazioni intercettate, che implicano apprezzamento di fatto estranei alla competenza di questa Corte.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della corte d’appello di Roma.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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