Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-04-2011, n. 9141 amministrazione pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

del ricorso.
Svolgimento del processo

Con citazione del luglio 1990 M.S. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Messina l’Istituto Autonomo Case Popolari, chiedendone la condanna al pagamento in suo favore della somma di lire 7.500.000 per lavori di riparazione e sistemazione di una condotta fognaria eseguiti dall’impresa di cui era titolare.

Costituitosi in giudizio, l’ente convenuto contestò l’avversa pretesa.

Con sentenza del .20 febbraio 2003 il giudice adito rigettò la domanda.

Proposto dal soccombente gravame, la Corte d’appello lo ha respinto in data 18 novembre 2008.

Avverso detta pronunzia propone ricorso per cassazione M. S., formulando due motivi.

Resiste con controricorso l’Istituto Autonomo Case Popolari.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

1.1 Col primo motivo l’impugnante denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3. Le critiche si appuntano contro l’affermazione del giudice di merito secondo cui non poteva dirsi intervenuto il riconoscimento dell’utilità dell’opera, atteso che questo deve provenire dagli organi rappresentativi dell’ente, di talchè un comportamento consistente nella mera utilizzazione del manufatto, soprattutto laddove esso non si sostanzi in una condotta positiva, ma consista nella mera accettazione di una data situazione di fatto, era insufficiente in ragione della sua equivocità.

Sostiene per contro l’esponente che l’uso costante e continuo delle opere eseguite ne asseverava implicitamente l’utilità e la necessità, tenuto conto che, solo grazie alla pulitura, sturatura e modifica dei pozzetti e delle condotte completamente intasate dei servizi igienici degli alloggi era stato possibile ripristinarne la funzionalità. Del resto l’IACP non aveva mai contestato nè l’esecuzione dei lavori nella case popolari, nè l’importo degli stessi, avendo sempre e solo dedotto semplicemente di non avere dato incarico all’impresa Mostaccio di eseguirli.

1.2 Col secondo mezzo il ricorrente lamenta vizi motivazionali, ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5. La censura torna ad appuntarsi contro l’asserita insufficienza della mera utilizzazione dell’opera a integrare un riconoscimento, ancorchè implicito, dell’utilità della stessa. Secondo il ricorrente l’interpretazione seguita dalla Corte territoriale comporterebbe che di fatto un riconoscimento implicito sarebbe ravvisabile solo in relazione a opere e prestazioni comportanti un incremento patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione, non già a quelle implicanti, come nella fattispecie, un risparmio di spesa. Aggiunge anche, in relazione all’assunto secondo cui il giudice non può surrogarsi alla pubblica amministrazione nella formulazione del relativo giudizio, essendo legittimato solo a verificare che il riconoscimento dell’utiliter coeptum sia concretamente intervenuto, che siffatta affermazione presupporrebbe una mera funzione notarile del decidente, in contrasto con il testo dell’art. 2041 cod. civ., nonchè con i consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità. 2 Le censure, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono fondate.

Lo snodo cruciale della causa ruota tutto intorno alla sussistenza del riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione altrui, quale requisito ulteriore, rispetto ai presupposti standard della domanda – come enucleati negli artt. 2041 e 2042 cod. civ. – allorchè l’azione venga proposta nei confronti della Pubblica Amministrazione.

Non ignora il collegio che, sul punto, nella giurisprudenza di legittimità, sono ricorrenti le seguenti affermazioni: a) il riconoscimento, in mancanza di un atto formale, può risultare in modo implicito da atti o comportamenti dell’ente, dai quali si desuma inequivocabilmente la formulazione di un giudizio positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione; b) il riconoscimento, per essere giuridicamente rilevante, deve promanare dagli organi istituzionalmente rappresentativi dell’amministrazione interessata;

c) esso non è comunque desumibile dalla mera utilizzazione della prestazione; d) La valutazione dell’utiliter coeptum – riservata, in ragione dei limiti posti dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, All. E, esclusivamente al soggetto pubblico di volta in volta interessato – non può essere effettuata sotto alcun profilo dal giudice ordinario, al quale sarebbe solo demandato di accertare e dichiarare se riconoscimento vi sia stato o meno (confr. Cass. civ. 14 ottobre 2008, n. 25156; Cass. civ. 31 gennaio 2008, n. 2312).

3 Non mancano tuttavia pronunce improntate a un approccio più duttile, nelle quali, in ragione del fondamento equitativo che permea tutta l’azione di ingiustificato arricchimento (confr. Cass. civ., 8 ottobre 2008, n. 24772), le rigidità insite nell’impostazione innanzi riportata risultano notevolmente stemperate. Questi orientamenti muovono dal postulato di fondo che la regola di diritto comune per cui nemo locupletar potest cum aliena iactura deve avere un’applicazione paritaria, sia che la pretesa venga avanzata nei confronti di un privato, sia che ne sia soggetto passivo una pubblica amministrazione (confr. Cass. civ. 16 maggio 2006, n. 11368). Di qui l’asciutta asserzione che il riconoscimento, da parte di un ente pubblico, dell’utilità di una prestazione si realizza con la mera utilizzazione della stessa (Cass. civ. 18 giugno 2008, n. 16596), nonchè il ridimensionamento della necessità della sua provenienza dagli organi formalmente qualificati della P.A. (Cass. civ. 2 settembre 2005, n. 17703). In tale prospettiva, precisato che il requisito del riconoscimento è integrato dalla circostanza che l’ente pubblico abbia ricavato una utilità, non necessariamente in termini di incremento patrimoniale, rilevante essendo anche il risparmio di spesa, ci si è spinti ad affermare, in non dichiarato dissenso con gli arresti innanzi menzionati, che il relativo giudizio, generalmente riservato alla pubblica amministrazione, può ben essere formulato, in sostituzione della stessa, dal giudice (confr. Cass. civ. 16 maggio 2006, n. 11368; Cass. civ. 2 settembre 2005, n. 17703).

4 Il collegio ritiene di doversi uniformare ai criteri di valutazione sottesi al secondo orientamento. Non par dubbio, infatti, che essi sono espressivi di opzioni ermeneutiche più aderenti ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia, posto che il richiedere sempre e comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi dell’utilità dell’opera o della prestazione da parte degli organi rappresentativi dell’ente, è scelta interpretativa che depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere indennizzato dell’impoverimento subito, svuotando di fatto i poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela delle posizioni soggettive in sofferenza.

In realtà il criterio idoneo a mediare tra tutti gli interessi in conflitto è l’affidamento al saggio apprezzamento del giudice dello scrutinio sull’intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell’utilità dell’opus, utilità desunta dal contesto fattuale di riferimento, senza pretendere di imbrigliare l’ineliminabile discrezionalità del relativo giudizio in schemi predefiniti, ma solo esigendo che del suo convincimento il decidente dia adeguata e congrua motivazione.

5 Venendo al caso di specie, va anzitutto evidenziato che l’urgenza e la doverosità della riparazione della condotta fognaria è dato assolutamente pacifico nelle prospettazioni hinc et inde formulate.

Ma, se così è, l’assunto del giudice d’appello in ordine alla pretesa neutralità della condotta dell’IACP, per essersi l’Istituto limitato ad accettare la situazione di fatto venutasi a creare a seguito della esecuzione delle opere, prova troppo. A ben vedere, infatti, proprio la circostanza che l’ente non sia intervenuto a rimuovere le opere realizzate dal M., implica, tenuto conto della loro natura, che le stesse furono bene eseguite ed evitarono al dominus interventi ai quali non avrebbe, altrimenti, potuto sottrarsi. In tale contesto è allora nulla più che un artificio dialettico esigere comportamenti concludenti di riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte degli organi rappresentativi dell’Istituto. Quel riconoscimento è invero insito nel fatto stesso che gli alloggi poterono essere rioccupati da subito dagli assegnatari in condizioni. di sicurezza igienica e che non furono necessari ulteriori manipolazioni dello stato dei luoghi.

6 In definitiva, accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata in applicazione dei seguenti principi di diritto:

la regola di diritto comune per cui nemo locupletar potest cura aliena lactura. deve avere un’applicazione tendenzialmente paritaria, sia che la pretesa venga avanzata nei confronti di un privato, sia che soggetto passivo ne sia una pubblica amministrazione; la mera utilizzazione di un’opera o di una prestazione, da parte di un ente pubblico, può, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, integrare riconoscimento implicito dell’utilità della stessa, utilità la quale va ravvisata anche in caso di risparmio di spesa; a fronte di un’utilizzazione non attuata direttamente dagli organi rappresentativi dell’ente, ma da questi sostanzialmente assentita, il giudice può ritenere riconosciuta, di fatto, l’utilità dell’opera o della prestazione, conseguentemente formulando, in via sostitutiva, il relativo giudizio.

7 Ritiene peraltro il collegio che sussistano i presupposti per decidere la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ. In base a tale norma, invero, la Corte può – e, per quanto di qui a poco si dirà, deve – non rinviare la causa ad altro giudice tutte le volte in cui essa si presti ad essere definita, stante il difetto di ulteriori fatti da accertare e l’univoca valenza di quelli accertati (Cass. civ. 10 settembre 2010, n. 19301; Cass. civ. 23 marzo 2010, n. 6951; Cass. civ. 15 febbraio 2005 n. 2005). E di ciò, nel caso di specie, non si ravvisa necessità, tenuto conto che l’ente convenuto non ha mai contestato nè l’esecuzione dei lavori, nè l’importo degli stessi, di talchè i fatti, ormai cristallizzati nel dialogo processuale tra le parti, ben possono essere direttamente apprezzati dal giudice di legittimità.

A ciò aggiungasi che, essendo stati i lavori in contestazione eseguiti nell’anno 1986, non è qui in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione, imposto dall’art. 2042 cod. civ.: non par dubbio, infatti, che il danneggiato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ex D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 23, commi 3 e 4, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 1989, n. 44 e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35 e poi dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191 – direttamente nei confronti dell’amministratore o del funzionario che aveva consentito l’acquisizione (confr. Cass. civ. 11 giugno 2007, n. 13862; Cass. civ. 22 maggio 2007, n. 11854). E tanto a prescindere da ogni approfondimento, che pur sarebbe stato altrimenti necessario, in ordine ai limiti di operatività delle predette norme.

La soluzione che si va ad adottare, basata sul rilievo che tutti i presupposti necessari all’utile espletamento dell’azione di ingiustificato arricchimento risultano, in definitiva, di immediata e liquida percezione, appare, del resto, coerente con il disposto dell’art. 111 Cost., comma 2, che, demandando alla legge di assicurare la ragionevole durata del processo, detta una regola per una interpretazione delle singole norme di rito funzionalizzata alla celerità del giudizio (Cass. civ. 7 gennaio 2009, n. 55; Cass. civ. 28 ottobre 2010, n. 22873). Ed è a dir poco ovvio che tale celerità risulterebbe, nella specie, inutilmente sacrificata, ove si seguisse la diversa soluzione della cassazione con rinvio. Ritiene invero il collegio che il principio di cui all’art. 111 cit. imponga di fare un uso il più lato possibile del potere di decisione nel merito ( art. 384 cod. proc. civ., comma 2), evitando di rinviare la causa in appello, tutte le volte in cui non vi siano poteri istruttori da esercitare.

8 Per le ragioni esposte l’Istituto Autonomo Case Popolari di Messina deve essere condannato a pagare a M.S., a titolo di indennizzo, normativamente ragguagliato alla minor somma tra l’arricchimento dell’uno, e il depauperamento dell’altro (confr.

Cass. civ. 10 settembre 2009, n. 19448), la somma di Euro 3.873,43, con gli interessi legali dalla domanda.

Le spese dell’intero giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna l’Istituto Autonomo Case Popolari di Messina al pagamento in favore di M.S. della somma di Euro 3.873,43, con gli interessi legali dalla domanda. Condanna l’Istituto al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in Euro 3.800 idi cui Euro 1.000 per spese ed Euro 1.500 per diritti), per il giudizio di primo grado; in Euro 2.243,00 (di cui Euro 743,00 per competenze ed Euro 1.500 per onorario), per il giudizio di appello; e in Euro 1.200 (di cui Euro 200 per spese), per il giudizio di cassazione, oltre IVA e CPA, come per legge.

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