Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-04-2011, n. 9342 Licenziamento per riduzione del personale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 25/5 – 19/9/06 la Corte d’Appello di Roma accolse l’appello proposto da B.A. avverso la sentenza del 10/1/03 del Tribunale di Roma, con la quale le era stata respinta la domanda diretta all’annullamento del licenziamento collettivo intimatole dalle Poste Italiane s.p.a. a decorrere dal 31/12/01 per effetto degli accordi sindacali del 17, 18 e 23 ottobre 2001, e, dichiarata l’inefficacia di tale licenziamento, ordinò la reintegra dell’appellante nel posto di lavoro, condannando la società convenuta al risarcimento dei danni, determinati nella misura di tre annualità di retribuzioni decorrenti dalla data del recesso del 19/11/01, oltre la 13.ma e la 14.ma mensilità, il tutto maggiorato degli accessori di legge, nonchè al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio. La Corte capitolina addivenne a tale decisione dopo aver rilevato che la società postale aveva violato la disposizione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, che prescriveva la regola, nella fattispecie disattesa, della comunicazione, contestuale all’irrogazione dei licenziamenti, alle OOSS ed agli uffici del lavoro ivi indicati dell’elenco dei lavoratori licenziati, con indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, dell’età, del carico di famiglia e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, comunicazione che era prevista a tutela dell’interesse collettivo alla verifica della legittimità del licenziamento in relazione al rispetto ed alla razionalità dei criteri di scelta e che, invece, era pervenuta ai suddetti tali enti istituzionali a distanza di oltre trenta giorni da quella inoltrata alla lavoratrice, così determinando l’inefficacia del recesso. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane s.p.a, affidando l’impugnazione ad un unico articolato motivo di censura. Resiste la B. con controricorso. Entrambe le parti depositano memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

Con un unico articolato motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9, (con riguardo alla pretesa non contestualità delle lettere di recesso rispetto alla comunicazione all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria). Sostiene la difesa della società che, sebbene la prima comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, fosse stata inviata a tutti gli interlocutori istituzionali circa trenta giorni dopo l’invio ai dipendenti delle lettere di licenziamento, la stessa soddisfaceva il requisito della contestualità richiesto dalla legge, dovendosi considerare erronea l’interpretazione restrittiva dei giudici d’appello per i quali un tale requisito è escluso nell’ipotesi di mancanza della più perfetta ed assoluta contemporaneità tra la lettera di licenziamento e la comunicazione agli interlocutori istituzionali di cui alla citata norma. Invece, secondo la ricorrente il requisito della contestualità deve essere inteso nel senso che il suo rispetto serve a garantire, comunque, la pienezza del termine previsto per l’impugnazione del licenziamento, per cui è sufficiente che il datore di lavoro effettui l’anzidetta comunicazione con una tempistica tale da non compromettere il diritto dei lavoratori ad impugnare entro sessanta giorni il recesso, una volta che essi siano stati resi edotti, per il tramite delle loro rappresentanze sindacali, dei dati informativi costituenti l’oggetto della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9.

D’altra parte, la difesa della ricorrente aggiunge che una interpretazione restrittiva della norma in esame, come quella adottata dai giudici d’appello, finirebbe per addossare alla parte datoriale il rischio di una tardiva ricezione della comunicazione di cui trattasi per cause indipendenti dal volere di quest’ultima, anche nell’ipotesi di trasmissione contestuale delle lettere di licenziamento e delle comunicazioni agli enti istituzionali.

Viene posto, pertanto, il seguente quesito di diritto : "La norma contenuta nella L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 secondo cui le comunicazioni all’Ufficio regionale per l’impiego e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria devono essere inviate contestualmente ai recessi ai singoli dipendenti, deve essere interpretata nel senso secondo cui tra le predette comunicazioni e i recessi dev’esservi perfetta contemporaneità o nel senso secondo cui le predette devono essere effettuate secondo una tempistica di ragionevole immediatezza rispetto ai recessi, da individuare, in particolare, nel termine di centoventi giorni previsto per la conclusione della procedura di licenziamento e comunque con tempi tali da non incidere sul diritto di impugnazione del recesso?" Il motivo è infondato.

Invero, questa Corte ha già avuto modo di affrontare la questione in esame (Cass. Sez. Lav. n. 1722 del 23/1/2009) statuendo che "in tema di licenziamenti collettivi, la lettera della disposizione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 e la sua "ratio" – che, in funzione di garanzia dei licenziati, è quella di rendere visibile e quindi controllabile dalle organizzazioni sindacali (e tramite queste dai singoli lavoratori) la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta – portano a ritenere che il requisito della contestualità della comunicazione del recesso ai competenti uffici del lavoro (e ai sindacati) rispetto a quella al lavoratore – comunicazioni entrambe richieste a pena di inefficacia del licenziamento – non può non essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido e analitico, e con termini ristretti, nel senso di una necessaria contemporaneità la cui mancanza vale ad escludere la sanzione della inefficacia del licenziamento solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovare da parte del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso che la comunicazione del recesso, effettuata ai competenti uffici del lavoro ed alle organizzazioni sindacali dopo trenta giorni da quella effettuata al lavoratore, potesse considerarsi contestuale rispetto a questa, ai fini della efficacia del recesso medesimo)." (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 2168/2009, Cass. sez. lav. n. 16776/2009 e Cass. sez. lav. n. 7407/2010). Anzitutto, è bene ricordare che le Sezioni unite della Corte hanno enunciato il principio secondo il quale, nella materia dei licenziamenti regolati dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto degli interessi dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento, ai sensi dell’art. 5, comma 3, ricorre anche in caso di violazione della norma di cui all’art. 4, comma 9, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; tale inefficacia può essere fatta valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni previsto dal citato art. 5, mentre al relativo vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato (Cass. S.u. 11 maggio 2000, n. 302 e 13 giugno 2000, n. 419). Va, poi, chiarito che secondo la giurisprudenza della Corte nessuna comunicazione dei motivi del recesso viene prescritta con riguardo al singolo lavoratore, essendo sufficiente che il recesso venga operato tramite atto scritto, di talchè solo attraverso le comunicazioni di cui all’art. 4, comma 9, è reso possibile all’interessato di conoscere in via indiretta le ragioni della sua collocazione in mobilità (Cass. 28 agosto 2000, n. 11258;

10 giugno 1999 n. 5718). E’, pertanto, evidente che la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, assolve la funzione di rendere visibile e, quindi controllabile dalle organizzazioni sindacali (e tramite queste dai singoli lavoratori), la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, per cui la possibilità del controllo si pone quale indispensabile presupposto per l’esercizio del potere, spettante al singolo lavoratore, di impugnare il licenziamento.

D’altra parte, non può trascurarsi la logica considerazione che se la comunicazione in esame precedesse l’intimazione dei licenziamenti, essa assolverebbe pienamente e meglio la funzione di garanzia e controllo; cosicchè è da ritenere che la legge, proprio al fine di attenuare la rigidità degli oneri posti a carico del datore di lavoro, gli consente di inviare le comunicazioni contestualmente ai recessi. Ma non è possibile ritenere che il datore di lavoro, salvo l’intervento di cause di forza maggiore (nella fattispecie nemmeno dedotte), possa, senza subirne effetti pregiudizievoli, procedere ad intimare i licenziamenti ritardando il momento di invio delle comunicazioni, privando, in tal modo, la parte più debole del rapporto di usufruire della garanzia della conoscenza dei dati informativi di cui alla L. n. 223 del 1991, art., comma 9 sin dal momento in cui inizia a decorrere il termine di decadenza per l’impugnativa del recesso. Non è possibile, quindi, condividere l’impostazione della difesa della ricorrente, perchè la proposta nozione elastica del requisito della contestualità contraddice la funzione di garanzia dei licenziati da attribuire alle comunicazioni, contenenti le motivazioni individuali dell’atto di gestione del rapporto di lavoro, e si rileva incoerente con il complessivo disegno legislativo. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2000,00 per onorario, oltre Euro 23,00 per esborsi, nonchè spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

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