Consiglio di Stato 6167/2009 (Divieto di fumo e responsabilità del titolare del locale)

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

Fatto

A) – La parte originaria ricorrente impugnava, dinanzi al T.a.r. Lazio, gli atti in epigrafe indicati, attuativi dei divieti conseguenti all’entrata in vigore dell’art. 51, legge 16/1/2003 n. 3, sulla tutela della salute dei non fumatori, nella parte in cui avevano ampliato il contenuto delle prescrizioni legislative, prevedendo che i soggetti responsabili della struttura, o i loro delegati, avessero l’obbligo di richiamare formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di fumare e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali ed agenti competenti per la contestazione e la conseguente redazione del verbale di contravvenzione, nonché (la circolare) nella parte in cui non consentiva di attrezzare le discoteche ed i locali assimilati a norma, al fine di destinarli integralmente ed esclusivamente, o prevalentemente, ai fumatori.

La stessa precisava che il suddetto art. 51 avrebbe stabilito un generale divieto di fumare in tutti i locali chiusi, salvo che si trattasse di locali “privati non aperti ad utenti o al pubblico”, ovvero “riservati ai fumatori e come tali contrassegnati”, prevedendo un apposito apparato sanzionatorio.

In attuazione del settimo comma dello stesso art. 51 era stato adottato, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, un accordo per definire “le procedure per l’accertamento delle infrazioni, la relativa modulistica per il rilievo delle sanzioni, nonché l’individuazione dei soggetti legittimati ad elevare i relativi processi verbali, di quelli competenti a ricevere il rapporto sulle infrazioni, accertate ai sensi dell’art. 17 della legge 24/11/1981 n. 689, e di quelli deputati a irrogare le relative sanzioni”; tale accordo avrebbe previsto l’obbligo dei conduttori dei predetti locali, o dei loro delegati, di esercitare una generale vigilanza e segnalare la trasgressione ai soggetti pubblici indicati nell’accordo stesso, enucleandovisi obblighi “positivi” di ammonimento (a non fumare) e di segnalazione a pubblico ufficiale, oltre che obblighi strumentali (ad esempio, iscrizione dei nomi dei responsabili sul cartello contenente il divieto di fumare) in capo a soggetti privati (conduttori di locali privati aperti al pubblico) espletanti una libertà costituzionalmente tutelata (quella di iniziativa economica privata, ex art. 41, Costituzione).

B) – L’originaria ricorrente deduceva:

1) violazione del principio di legalità e della riserva di legge di cui agli artt. 23 e 25, comma 2, e 41, Costituzione; violazione dell’art. 1, legge 24/11/1981 n. 689; violazione dell’art. 51, legge 16/1/2003 n. 3; violazione degli artt. 2 e 7, legge 11/11/1975 n. 584; eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, erronei presupposti e travisamento dei fatti.

Il punto 4 dell’accordo impugnato prevedeva che i conduttori dei locali od i loro collaboratori formalmente delegati alla vigilanza sul rispetto del divieto di fumo, “richiamano i trasgressori all’osservanza del divieto e curano che le infrazioni siano immediatamente segnalate ai soggetti pubblici incaricati, a norma dei punti 2.5 e 3”.

Analoghe disposizioni erano formulate nella circolare egualmente impugnata, così addossandosi ai conduttori di locali privati tre obblighi distinti e coordinati: a) dovere di vigilanza generale sul rispetto del divieto di fumo all’interno del locale privato da essi gestito; b) dovere di richiamare i trasgressori all’osservanza del divieto attraverso interventi attivi e formali di dissuasione e di ammonizione; c) obbligo di curare che le eventuali infrazioni fossero immediatamente segnalate agli agenti o funzionari di polizia, ovvero ai soggetti pubblici incaricati di accertare e contestare la violazione di legge, oltre che di applicare la relativa sanzione.

Veniva, dunque, imposto un preciso dovere di vigilanza a fini pubblici a soggetti privati, del tutto sfornito di base legale e, dunque, illegittimo anzitutto per violazione del principio di legalità, espressamente riconosciuto, nell’ambito del diritto amministrativo depenalizzato, dall’art. 1, legge 24/11/1981 n. 689, ex artt. 23 e/o 25, Costituzione.

L’unica disposizione di legge astrattamente invocabile era quella di cui all’art. 51, commi 5 e 7, legge n. 3/2003; il comma 7 rinviava ad un accordo della Conferenza Stato-regioni la specificazione delle operazioni relative all’accertamento ed alla contestazione delle infrazioni al divieto di fumo, senza alcun riferimento al predetto dovere di vigilanza in capo ai privati gestori, concernendo esso solo le attività (di accertamento delle infrazioni e relativa modulistica) in materia di infrazioni spettanti a soggetti pubblici (agenti ed ufficiali di polizia); il comma 5, a sua volta, faceva rinvio all’art. 7, ed, indirettamente, all’art. 2, legge 11/11/1975 n. 584, che si limitava a stabilire, per i conduttori dei locali, l’obbligo di curare l’osservanza del divieto, “esponendo, in posizione visibile, cartelli riproducenti la norma con l’indicazione della sanzione comminata ai trasgressori”.

2) Violazione dell’art. 41, Costituzione, e dei principi di legalità e riserva di legge; palese irragionevolezza e manifesta illogicità degli atti impugnati nella parte contemplante in capo ai gestori di pubblici esercizi o loro delegati il potere-dovere di vigilare sull’osservanza del divieto di fumare, determinandosi la surrettizia trasformazione giuridica di un soggetto privato (gestore) in una figura pubblica, ovvero in un incaricato di pubblica funzione o di pubblico servizio, in contrasto con l’art. 41, Costituzione.

3) Violazione dell’art. 51, commi 5 e 7, legge n. 3/2003; erronei presupposti; sviamento di potere e travisamento dei fatti, avendo la Conferenza violato apertamente i limiti indicati dalla legge, introducendo illegittimamente ulteriori incombenti in capo ai soggetti responsabili della struttura.

4) In via subordinata: incostituzionalità dell’art. 51, legge n. 3/2003, e degli artt. 2, 5 e 7, legge n. 584/1975, come sostituito dall’art. 52, comma 20, legge n. 448/2001, in relazione agli artt. 2, 3, 23, 25, comma 2, e 41, Costituzione.

5) Violazione dell’art. 51, commi 1 e 2, legge n. 3/2003, e degli artt. 1, comma 1, lett. b), e 3, comma 1, legge n. 584/1975; violazione del d.P.C.M. 23/12/2003; erronei presupposti; sviamento di potere; travisamento dei fatti e manifesta contraddittorietà.

La circolare impugnata, al punto 3, avrebbe inoltre sancito, in violazione delle norme richiamate, l’impossibilità di attrezzare a norma le discoteche ed i locali assimilati (sale chiuse da ballo), per riservarle soltanto o quasi soltanto ai fumatori.

In realtà, l’art. 51, comma 3, prevederebbe in rapporto ai soli esercizi di ristorazione, per i non fumatori, locali di superficie prevalente rispetto a quella complessiva di somministrazione dell’esercizio, con un criterio di prevalenza sancito solo in rapporto agli esercizi di ristorazione, ma non per gli altri esercizi pubblici, per i quali risulterebbe, dunque, ancora vigente il comb. disp. artt. 1 e 3, legge n. 584/1975.

In forza di tali norme sarebbe possibile ottenere l’esenzione dall’osservanza dell’art. 1, legge n. 584/1975, previa installazione di un impianto di condizionamento dell’aria o di un impianto di ventilazione, rispettivamente corrispondenti alle caratteristiche di definizione e classificazione determinate dall’ente nazionale italiano di unificazione, con la correlativa possibilità di destinare ai fumatori l’intera sala da ballo, o, quanto meno, uno spazio prevalente rispetto alla superficie complessiva del locale.

Si costituivano in giudizio le amministrazioni intimate, eccependo l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, in considerazione della natura degli atti impugnati, nonché per difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo, e comunque la sua infondatezza nel merito.

C) – I primi giudici accoglievano in parte il ricorso, con sentenza prontamente impugnata dalle amministrazioni pubbliche soccombenti, che deducevano l’ipotizzabile carenza di potere a monte degli atti gravati, con correlativa sussistenza della giurisdizione ordinaria; la natura meramente interpretativa dell’impugnata circolare ministeriale, di per se stessa non impugnabile; la natura politica (non solo dei provvedimenti assunti dal Governo ma anche) degli atti adottati dalla Conferenza Stato-regioni, pertanto non impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (art. 31, r.d. n. 1054/1924), ma semmai presso quello ordinario, per eventuali sanzioni inflitte per il mancato rispetto degli obblighi di cui sopra; il carattere relativo e non assoluto del principio di legalità, temperato per le norme amministrative depenalizzate, con la connessa possibilità di ampi rinvii a quelle regolamentari (secondarie); l’impossibilità di configurare l’obbligo di vigilanza come una prestazione personale imposta, mancandovi qualsiasi risvolto economico; l’insussistenza di qualunque violazione dell’art. 41, Costituzione, non intendendosi in alcun modo ostacolare l’attività imprenditoriale, ma solo indirizzarla al rispetto di esigenze superiori (come quelle connesse alla salute pubblica: art. 32, Costituzione); il fondamento legislativo del potere esercitato, ravvisabile nella normativa primaria di cui sopra, nella prospettiva di non rendere vani i divieti e gli obblighi qui discussi, preservando l’operatività del relativo apparato sanzionatorio; la sicura possibilità di affidare funzioni pubbliche a soggetti privati preposti ad attività che lo impongano o lo consentano.

All’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione sulle sole conclusioni della parte appellante, non essendosi costituita in giudizio quella appellata.

Diritto

I) – L’appello è infondato e va respinto, dovendosi condividere quanto affermato dai primi giudici, dopo aver considerato preliminarmente ammissibile l’impugnativa avverso la circolare del Ministero della salute 17/12/2004, non trattandosi di una mera circolare interpretativa (atto interno alla p.a., finalizzato essenzialmente ad indirizzare uniformemente l’azione dei vari uffici od organi), ma contenendo la stessa, al contrario, pure “indicazioni attuative dei divieti conseguenti all’entrata in vigore dell’art. 51 della legge 16/1/2003 n. 3 …”.

Né rilevava la circostanza che gli obblighi imposti ai soggetti responsabili della struttura od ai loro delegati fossero in gran parte previsti dall’accordo 16/12/04 intervenuto presso la Conferenza permanente di cui in narrativa, o dalla precedente direttiva P.C.M. in data 14/12/95, ciò non escludendo che i contenuti della circolare, per ragioni di opportunità e chiarezza, riproducessero vincoli per i soggetti terzi estranei alla p.a., con possibili profili di lesività e connessa autonoma impugnabilità.

Analogamente, non poteva che disattendersi l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnativa del citato accordo 16/12/04, motivata con riguardo alla natura non amministrativa, ma politica, di tale atto, asseritamente intercorrente tra soggetti aventi rilevanza costituzionale: il modulo consensuale, nei rapporti tra Stato e regioni, è espressione di quel principio di leale collaborazione che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato come strumento utile nel caso d’interferenze per la competenza legislativa o per quella amministrativa.

Il d.lgs. 28/8/1997 n. 281, rafforzando i compiti della Conferenza permanente, aveva previsto il modulo pattizio, distinguendo tra intese (art. 3) ed accordi (art. 4), i quali ultimi sembrano assumere collocazione prevalente nel campo dell’attività amministrativa, come si desume anche dal testuale riferimento ad accordi conclusi in sede di Conferenza Stato-regioni, “nel perseguimento di obiettivi di funzionalità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa”, “al fine di coordinare l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune”: il che, sul piano oggettivo, non poteva che far escludere la natura di atto politico.

Inoltre, detta Conferenza permanente non è organo del potere esecutivo e non appartiene né all’apparato statale né a quello regionale, trattandosi di un’istituzione attiva nell’ambito della comunità nazionale, quale strumento per l’attuazione della coooperazione (cfr. Corte cost., sent. 31/3/1994 n. 116): il che non poteva che far escludere la natura di atto politico dell’accordo pure dall’angolazione soggettiva, in conformità alla giurisprudenza formatasi sull’art. 31, r.d. 26/6/1924 n. 1054), ritenuto ipotesi eccezionale di sottrazione al sindacato giurisdizionale di atti soggettivamente e formalmente amministrativi, ma costituenti espressione della fondamentale funzione di direzione politica nell’ordinamento.

Per integrare la nozione legislativa di atto politico devono concorrere due requisiti, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo: deve trattarsi di atto o provvedimento emanato dal Governo, nell’esercizio del potere politico, anziché di attività meramente amministrativa (cfr. C.S., sez. IV, dec. 29/2/1996 n. 217), requisiti entrambi assenti nell’accordo in esame, il che non impedisce di ritenere comunque utilmente impugnata in questa sede la circolare, riproduttiva e specificativa del suo contenuto.

II) – Nella specie, oggetto della controversia non è il divieto di fumo, inteso quale limite posto ai privati a tutela del diritto alla salute, bene primario e diritto fondamentale della persona (cfr. Corte cost., sent. 20/12/1996 n. 399), ma lo sono gli “obblighi positivi” (di ammonimento e di segnalazione a pubblico ufficiale), che gli atti impugnati prevedono in capo ai conduttori di locali privati aperti al pubblico.
Gli obblighi ricadenti sui soggetti responsabili della struttura o sui loro delegati sono essenzialmente quelli di: a) richiamare formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di fumare; b) segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento del o dei trasgressori ai pubblici ufficiali od agenti competenti per la contestazione della violazione del divieto e la conseguente redazione del verbale di contravvenzione: prestazione personale senza alcun fondamento legislativo.

Neppure il comma 5 dell’art. 51, riferito alle sanzioni applicabili nel caso d’infrazioni al divieto di fumo, mediante rinvio all’art. 7, legge 11/11/1975 n. 584, contiene una disciplina del contenuto degli obblighi gravanti sui soggetti preposti alla vigilanza.

Infatti, detto art. 7, comma 2, stabilisce solo l’importo della sanzione pecuniaria, mentre l’art. 2, stessa legge n. 584/1975, cui rimanda l’art. 7 cit., prevede soltanto che essi “curano l’osservanza del divieto, esponendo, in posizione visibile, cartelli riproducenti la norma con l’indicazione della sanzione comminata ai trasgressori”.

Appare, dunque, evidente la violazione della riserva relativa di legge contenuta nell’art. 23, Costituzione, dato che le prestazioni personali possono essere imposte per la soddisfazione di interessi pubblici, ma unicamente dalla legge, che deve indicare il soggetto pubblico abilitato ad imporre la prestazione, nonché i limiti dell’imposizione (rispettivamente, soggetto ed oggetto della prestazione imposta).

La distinzione tra riserva assoluta e relativa si fonda, poi, sull’intensità della disciplina legislativa, che nella prima ipotesi deve regolare compiutamente la materia, mentre nel secondo caso deve fissare la disciplina fondamentale, lasciandone il dettaglio ad altre fonti del diritto, gerarchicamente subordinate, anche formalmente amministrative, per cui la riserva di legge si sovrappone al principio di legalità sostanziale, imponendo al legislatore l’individuazione dei limiti di contenuto dell’azione amministrativa (cfr. Corte cost., sent. 5/2/1986 n. 34).

Ciò vale nella prospettiva dell’art. 23, Costituzione, come dell’art. 41, che sancisce la libertà d’iniziativa economica privata e, nell’affermarne la libertà, consente l’apposizione di limiti al suo esercizio, richiedendo, sotto l’aspetto sostanziale, che questi corrispondano all’utilità sociale, e, sotto quello formale, che ne sia imposta la disciplina ad opera della legge (cfr. Corte cost., sent. 8/2/1962 n. 5).
Occorreva, quindi, una previsione legislativa per imporre i descritti doveri di vigilanza nei confronti di soggetti esercenti la propria libertà di iniziativa economica privata nell’ambito di locali aperti al pubblico, in qualche misura trasformati in incaricati di una pubblica funzione, o, quanto meno, di un pubblico servizio; anche sotto tale profilo dovevano apparire, dunque, del tutto inidonei gli impugnati atti amministrativi, svolgenti non già una funzione integrativa della disciplina sul divieto di fumo, ma, in violazione della norma costituzionale attributiva della competenza normativa, disciplinanti funditus i doveri dei gestori privati, al cospetto di un avventore (utente, collaboratore o fornitore) eventualmente trasgressivo.

III) – Non si trattava, peraltro, di un atto adottato in carenza di potere, conoscibile dalla giurisdizione ordinaria, secondo la prospettazione della p.a. appellante, essendosi fuori dell’ambito del difetto assoluto di attribuzione (c.d. carenza in astratto) e manifestandosi piuttosto un cattivo uso del potere, nei cui riguardi il privato vanta una posizione di interesse legittimo, tutelabile dinanzi al giudice amministrativo.
Neppure può condivedersi quanto contenuto nel punto 5) della circolare 17/12/04, secondo cui il rinvio (indiretto) all’art. 2, legge n. 584/75, nell’assetto di cui alla legge n. 3/2003, precluderebbe un’interpretazione restrittiva, tale da limitare l’obbligo dei gestori soltanto alla materiale apposizione del cartello recante il divieto di fumo, in quanto risulterebbe altrimenti irrazionale l’applicazione delle rigorose misure sanzionatorie previste dall’art. 7, comma 2, legge n. 584/1975 (nel testo sostituito dall’art. 52, legge 28/12/2001 n. 448), non potendo la circolare impropriamente fornire un’interpretazione “adeguatrice” della norma, peraltro insanabilmente in contrasto con il testuale dettato normativo: il contenuto dell’obbligo imposto ai conduttori dei locali dall’art. 2, comma 3, legge n. 584/1975, è solo quello di esporre, in posizione visibile, cartelli riproducenti il divieto di fumo, con l’indicazione della sanzione comminata ai trasgressori (l’uso del gerundio specifica proprio il contenuto dell’obbligo enunciato nella proposizione principale).

Si deve poi considerare che la disciplina sul divieto di fumo, introdotta dall’art. 51, legge n. 3/2003, è tale da avere un ambito oggettivo di applicazione esteso a tutti i locali chiusi ma aperti ad utenti od al pubblico (discoteche e simili), per cui la (consentita) riserva di taluni di questi ai fumatori si pone come eccezione alla regola, il che rende ragionevolmente condivisibile l’interpretazione normativa fatta propria dalla circolare, secondo cui, “considerata la libera accessibilità a tutti i locali di fumatori e non fumatori, la possibilità di fumare non può essere consentita se non in spazi di inferiore dimensione attrezzati all’interno dei locali”.

IV) – La legge 25/8/1991 n. 287, all’art. 5, nell’enucleare la tipologia dei pubblici esercizi, distingue tra esercizi di ristorazione (lett. a) ed esercizi per la somministrazione di bevande (lett. b); alla lett. c) prevede, inoltre, che l’esercizio di ristorazione e di somministrazione di bevande possa essere effettuato “congiuntamente ad attività di trattenimento e svago, in sale da ballo, sale da gioco, locali notturni, stabilimenti balneari ed esercizi similari”, con un’accezione ampia di “esercizio di ristorazione” che può, per espressa previsione normativa, interessare anche le discoteche e non esclusivamente i ristoranti.

Il ricorso introduttivo non poteva, dunque, che essere in parte accolto, con conseguente annullamento parziale degli atti impugnati, nella parte in cui imponevano ai soggetti responsabili di locali privati aperti al pubblico, o loro delegati, l’obbligo di richiamare formalmente i trasgressori all’osservanza del divieto di fumare e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a contestare la violazione e ad elevare il conseguente verbale di contravvenzione.
Conclusivamente, l’appello va quindi respinto, con salvezza dell’impugnata sentenza, mentre nulla deve disporsi per spese ed onorari del giudizio di secondo grado, non essendovisi costituita la parte appellata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, sezione V, respinge l’appello e nulla dispone per spese ed onorari del secondo grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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