Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-04-2011, n. 9404 Danno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenze del 23/4/2001 (non definitiva) e del 23/1/2006 (definitiva) la Corte d’Appello di Roma, in parziale accoglimento dei gravami interposti dal Ministero dell’industria, commercio e artigianato (poi Ministero delle attività produttive), rispettivamente confermava (nell’an) e riformava parzialmente (nella determinazione del quantum liquidato) la pronunzia Trib. Roma 18/11/1998 di condanna al risarcimento dei danni dagli originari attori sigg.ri P.I. ed altri subiti in conseguenza della totale perdita delle somme affidate in gestione fiduciaria alla società Previdenza s.p.a., su cui esso esercitava potere di vigilanza.

Avverso la suindicate pronunzie della corte di merito il Ministero dello sviluppo economico (già Ministero dell’industria, commercio e artigianato, e poi Ministero delle attività produttive) propone ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi.

Resistono con controricorso i sigg.ri P.I. ed altri, che hanno presentato anche memoria.
Motivi della decisione

Con il 1 motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2969, 2909 c.c. degli artt. 112, 116, 278, 324, 342, 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente separato la questione dell’an da quella del quantum di risarcimento, trattandosi di domanda proposta unitariamente, sicchè, in difetto di prova sul quantum del risarcimento, si imponeva il rigetto integrale della domanda.

Lamenta che il censurato provvedimento di scissione è stato dal giudice nel caso adottato in difetto di relativa istanza di parte, risultando a tale stregua integrato un evidente vizio di ultrapetizione.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nell’ipotesi in cui con la domanda iniziale sia stata richiesta una condanna specifica, ai fini della scissione del giudizio sull’an da quello sul quantum, occorre distinguere secondo che essa avvenga all’interno dello stesso processo, o dia invece luogo a due diversi processi.

Mentre in quest’ultimo caso la scissione richiede l’istanza dell’attore ed il consenso del convenuto, nel primo, in cui rientra invero l’ipotesi in esame, l’adesione della controparte non è necessaria, e la separazione può essere disposta anche d’ufficio (v.

Cass., 27/7/2005, n. 15686).

Si è al riguardo altresì precisato che l’avere il giudice operato d’ufficio la scissione delle pronunce sull’an e sul quantum, anzichè su istanza di parte, come previsto dall’art. 278 c.p.c., in ogni caso non comporta violazione di principi di ordine pubblico, e non incide sulla realizzazione delle finalità essenziali del processo, che non vengono compromesse dal frazionamento del giudizio in due fasi, sicchè non risultano vulnerati i principi fondamentali del sistema processuale, nè pregiudicato il diritto di difesa (v. Cass., 22/10/1987, n. 7806), stante la possibilità di riesaminare la decisione mediante l’impugnazione (v. Cass., 14/3/2000, n. 2904).

In tale ipotesi incombe comunque pur sempre all’attore assolvere all’onere di indicare i mezzi di prova dei quali intende avvalersi per la determinazione del quantum, incorrendo altrimenti nel rigetto della domanda, laddove questa risulti non adeguatamente provata (v.

Cass., 27/7/2005, n. 15686).

Orbene, in presenza di impugnazione dell’allora appellante Ministero dell’industria, commercio e artigianato in ordine al criterio della liquidazione del danno, adottando il quale il Tribunale si è attenuto alle dichiarazioni dei danneggiati, senza accertarne l’effettiva entità, nell’emettere sentenza non definitiva, disponendo per il prosieguo del giudizio avanti a sè in quanto allo stato non in grado di determinare i danni subiti da ciascun degli attori personalmente avendo i medesimi dedotto che a fronte di un credito originario e degli interessi sullo stesso maturati medio tempore c’è stata l’ammissione di detto credito nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, per cui non è da escludere che lo stesso sia stato in parte saldato, dei suindicati principi la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.

Con il 2 motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697, 2909 c.c. degli artt. 40, 41 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; nonchè omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che il nesso di causalità tra il comunicato stampa del Ministro dell’industria del 10/5/1985 (nel riportato tenore secondo cui le indagini svolte nei confronti della Previdenza hanno tra l’altro consentito di accertare che allo stato non esistono inadempimenti nei confronti dei fiducianti nè risultano da parte loro avanzati rilievi nei confronti della società fiduciaria … le ulteriori garanzie offerte rafforzano la posizione di fiducianti e appaiono ragionevolmente adeguate …) e i danni lamentati dai fiducianti risulti nel caso dai medesimi non provato e apoditticamente affermato dalla corte di merito, laddove, essendo esso stato esso emesso nella fase finale della vicenda della Previdenza, quando ormai dal febbraio 1985 la raccolta era cessata, e poco prima che, il 13.6.85, alla Previdenza venisse revocata l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività fiduciaria e, il 16.10.85, la società venisse posta in liquidazione coatta amministrativa (fatti e date pacifiche, riportate dalla sentenza di primo grado e a pag. 3 dell’appello), non poteva invero darsi per presupposta la solvibilità della società alla data del 10.5.85, e si sarebbe dovuto provare, ma non fu provato, da chi ne aveva l’interesse e l’onere, che all’epoca del comunicato stampa la Previdenza sarebbe stata ancora in grado di restituire integralmente le somme conferitele dai fiducianti.

Lamenta, ancora, che con la mancata publicizzazione del provvedimento Consob non è stato violato alcun obbligo giuridico da parte sua, in quanto sarebbe stata quest’ultima la sola autorità competente a dargli, se lo riteneva necessario, adeguata pubblicità.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio dì motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierno ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come il medesimo faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., al "comunicato stampa 10.5.85", alle iniziative descritte alle pagg. 8-10 della conclusionale dell’Amministrazione e riportate a pag. 25 della sentenza 1734/94, a pag. 13 della conclusionale di appello, agli scritti degli appellati, alle affermazioni perplesse da parte degli stessi attori, al provvedimento della Consob) limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti e, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, se siano stati prodotti anche in sede di legittimità (v. Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279).

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Osservato che l’onere del rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione -valido oltre che per il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche per il vizio di violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – sussiste invero pure quando si reputi che una data circostanza debba ritenersi sottratta al thema decidendum, in quanto non contestata (v.

Cass., 23/7/2009, n. 17253; Cass., 19/4/2006, n. 9076), va altresì ribadito che anche alla denunzia della violazione dell’art. 112 c.p.c. integrante error in procedendo il principio di autosufficienza deve essere invero osservato, dovendo specificamente indicarsi l’atto difensivo o il verbale di udienza nei quali le domande o le eccezioni sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 31/1/2006, n. 2138; Cass., 27/1/2006, n. 1732; Cass., 4/4/2005, n. 6972; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., 16/4/2003, n. 6055).

E’ infatti al riguardo noto che, pur divenendo nell’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo la Corte di legittimità giudice anche del fatto (processuale) ed abbia quindi il potere – dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali, preliminare ad ogni altra questione si prospetta invero quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diviene possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo, sicchè esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v. Cass., 23/1/2006, n. 1221).

Nel caso, va al riguardo peraltro posto in rilievo, la pur formalmente denunziata violazione dell’art. 112 c.p.c. non risulta invero argomentata.

Quanto alla doglianza concernente la prova del nesso di causalità tra il fatto illecito ed i danni lamentati dai risparmiatori – investitori odierni contro ricorrenti, atteso che in base a principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità il relativo accertamento rientra tra i compiti del giudice di merito, ed è sottratto al sindacato di legittimità, essendo questa Corte legittimata – nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – al mero controllo in ordine all’idoneità delle ragioni addotte dal giudice del merito a fondamento della propria decisione (v. Cass., 9/11/2005, n. 21684; Cass., 10/5/2005, n. 9754), va in particolare osservato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare e di recentemente ribadire proprio con riferimento a caso analogo, la P.A. è responsabile per i danni subiti dai risparmiatori – investitori che siano causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti nella vigilanza e nel controllo sulle società fiduciarie imposti da norme di legge ( L. n. 1966 del 1939, art. 2 e R.D. n. 531 del 1940, art. 3) e costituenti limiti esterni alla sua attività discrezionale che integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. Comportamenti cui è essa invero tenuta già in base all’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale, che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale, in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonchè volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio -, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462;

Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056).

Condotta che assume i connotati dell’illecito e provoca la lesione di diritti e interessi meritevoli di tutela dei risparmiatori – investitori allorquando risulti invero tardiva e comunque carente, (anche) nell’adozione di provvedimenti e iniziative – pure di tipo informativo – idonei a salvaguardare i medesimi dal pericolo di perdita degli investimenti effettuati (cfr. Cass., 27/3/2009, n. 7531), che il corretto e tempestivo esercizio da parte della P.A. dei poteri attribuitile è funzionalmente volta ad ovviare con il consentire agli interessati di valutare il contenuto delle notizie e di attivarsi per verificarne la corrispondenza al vero e di eventualmente adottare soluzioni differenti, non investendo nell’operazione o provvedendo a disinvestire prontamente i capitali, evitando o limitando le perdite (cfr. Cass., 25/2/2009, n. 4587. Cfr. anche Cass., Sez. Un., 27/7/1998, n. 7339).

A tale stregua, in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tendeva a prevenire, la considerazione del comportamento dovuto e della condotta mantenuta assume decisivo rilievo, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582).

Orbene, dall’impugnata sentenza si evince che i danni lamentati dai risparmiatori – investitori odierni ricorrenti risultano causalmente ascritti alla condotta nel caso mantenuta dalla P.A., argomentandosi dalla ravvisata macroscopica colpa omissiva affettante la medesima, in ragione della tardiva adozione e pubblicazione del provvedimento di revoca nei confronti della società Previdenza s.p.a. dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività fiduciaria di raccolta di fondi, nonchè dell’omessa informazione ai risparmiatori circa i rischi connessi alla situazione patrimoniale e gestionale della società rilevante. Ancora, movendosi dalla ritenuta idoneità di tali condotte a provocare la volatizzazione dei fondi investiti, evidentemente secondo la regola di inferenza probatoria del "più probabile che non (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., 13/6/2008, n. 15986; Cass., 16/10/2007, n. 21619; e, da ultimo, Cass., 17/2/2011, n. 3847), che l’esercizio della attività di controllo e di informazione in argomento era appunto volta a prevenire.

A tale stregua, i suesposti principi risultano non essere stati dalla corte di merito invero disattesi nell’impugnata sentenza.

Con il 3 motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2056, 1223 c.c. dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; nonchè omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole essersi dalla corte di merito erroneamente determinato il danno liquidato con la pronunzia definitiva, facendosi riferimento, quanto al danno emergente, al capitale investito e ai rendimenti promessi, laddove trattasi nella specie di contratti di investimento di puro rischio, perchè il capitale conferito sarebbe stato investito in intraprese di varia natura e sarebbe stato restituito e remunerato se e nella misura in cui i risultati di tali intraprese ne avessero consentito la conservazione e l’accrescimento, sicchè era per converso onere degli attori provare quali aspettative di conservazione e di accrescimento il loro capitale avrebbe avuto in rapporto agli investimenti prospettati o ad investimenti simili e un danno risarcibile avrebbe potuto essere liquidato soltanto se e nei limiti in cui tale accertamento avesse avuto esiti positivi.

Quanto al lucro cessante, liquidato in difetto di relativa domanda e pertanto con evidente vizio di ultrapetizione, facendosi erroneamente riferimento all’investimento in BOT, forma di investimento a basso rendimento e del tutto priva di rischio (c.d. investimento a reddito fisso), laddove l’investimento prescelto dai fiducianti della Previdenza era ad alto rischio e, correlativamente, ad alto rendimento, evidente invero emergendo che trattasi di ipotesi inammissibilmente eterogenee.

Il motivo è fondato, nei limiti di seguito indicati.

Come questa Corte ha avuto recentemente modo, proprio in un caso analogo, di affermare, ai fini della liquidazione del danno subito dai risparmiatori per la perdita delle somme di denaro affidate in gestione a società fiduciarie, ai sensi della normativa di cui alla L. n. 1966 del 1939, non possono essere riconosciuti, oltre al valore nominale del capitale versato, anche i frutti (sotto forma di interessi) che quei capitali avrebbero prodotto se fossero stati investiti (nella specie, in BOT), atteso che il rapporto di amministrazione fiduciaria, implicando o comunque autorizzando investimenti con margini di rischio e possibilità di perdite, non attribuisce al fiduciante il diritto ad un rendimento minimo o a un utile garantito (v. Cass., 27/3/2009, n. 7531).

Orbene, nell’affermare (nella sentenza definitiva) che il danno da lucro cessante consiste nella mancata percezione dei frutti civili pari al rendimento dei B.O.T. nel periodo compreso dalla data dei singoli depositi a quella della messa in liquidazione coatta delle due società, rivalutando all’attualità le somme risultanti in base agli indici ISTAT di svalutazione della moneta, e nell’applicare tale criterio in sede di determinazione dell’ammontare dovuto ai singoli danneggiati, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso il suindicato principio.

Della medesima s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma perchè, in diversa composizione, proceda a nuovo esame, facendo del medesimo applicazione.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il 3 motivo di ricorso, rigettati gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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