Sul reato di ingiuria. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE – 15 marzo 2010, n.10248.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo – motivi della decisione

1. Con sentenza del Giudice di Pace di Ancona resa il 26.9.2006, S.D. veniva condannato alla pena di Euro 1500,00 di multa perchè giudicato colpevole del reato di ingiuria mediante scritto diretto alla persona offesa, T.L., fatti commessi in (OMISSIS).

Detta sentenza veniva riformata il 21.7.2007, in sede di appello, dal tribunale, il quale assolveva l’imputato dal reato ascrittogli.

Avverso la pronuncia assolutoria proponevano ricorso per cassazione il p.m. e la parte civile ed il 9.10.2008, la quinta sezione della Corte di legittimità, con sentenza 3240/09, annullava la decisione impugnata, perchè insufficientemente motivata e rinviava al Tribunale di Ancona per nuovo giudizio.

Giudicando a questo punto in sede di rinvio, il Tribunale di Ancona, in composizione monocratica, in data 4.5.2009, confermava il giudizio di colpevolezza espresso in prime cure dal Giudice di Pace e riformava la sentenza di primo grado quanto alla pena, che riduceva ad Euro 400,00 di multa, confermandola nel resto.

1.2 A sostegno della condanna il tribunale, dopo aver inquadrato la vicenda nel "vivo antagonismo" che contrappone l’imputato e la parte offesa, osservava che:

– la frase "il suo essere gay" è stata utilizzata con specifico riferimento a due episodi precisi, la vacanza in montagna con un marinaio e l’allontanamento del T. da un club sportivo frequentato da ragazzini;

– l’uno e l’altro, per il contesto della loro utilizzazione, esprimevano riprovazione per le tendenze omosessuali del contraddittore ed un "inequivoco ed intrinseco intento denigratorio" riferito all’allontanamento da un luogo frequentato da minori;

– la denuncia di sottrazione di documenti pubblici dagli uffici municipali di Ancona, collegata al malcostume dell’abusiva cancellazione di contravvenzioni (la cd. "multopoli") l’aver favorito in un concorso pubblico M.O., nipote dell’imputato, descrivono comportamenti riprovevoli, come tali percepiti anche dall’imputato;

– non ricorre nel caso in esame l’esimente della verità dei fatti attribuiti alla p.l., perchè non desumibile essa da atti giudiziari non definitivi, riferibili all’imputato che viene con essi scagionato e perchè non data una prova piena e completa della verità dei fatti ingiuriosi;

non ricorre, nel caso in esame, l’esimente dell’art. 599 c.p., perchè esclusa dalla dinamica dei fatti una reazione immediata, posto che la lettera venne formulata il giorno seguente, dopo essere stata concepita, scritta e meditata.

2. Ricorre per cassazione avverso la condanna del giudice di secondo grado l’imputato, con l’assistenza del difensore di fiducia, illustrando tre motivi di impugnazione.

2.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente la violazione dell’art. 627 c.p.p. e la illogicità della motivazione articolata dal giudice a quo, osservando, a sostegno dell’assunto, che:

– il giudice territoriale avrebbe ritenuto denigratorio il termine "gay" per il semplice fatto che è stato esso accostato agli episodi della vacanza in montagna con il marinaio e dell’allontanamento del club frequentato da minori, peraltro ignorando il reale contenuto della missiva incriminata, nella quale l’omosessualità e lo stesso episodio della vacanza col marinaio vengono evocati al solo scopo di giustificare le ragioni per le quali non si istaurarono tra le parti rapporti di familiarità;

– anche l’episodio dell’allontanamento dal club non può ragionevolmente essere accostato ad un’accusa di pedofilia, ma all’atteggiamento dell’imputato il quale, nonostante una "grande simpatia" formatasi col decorso di 15 anni di lavoro comune, per tale episodio ammette che non potè mai stringere "una profonda amicizia";

– il collegamento tra l’espressione "essere gay" e la "vicenda dei ragazzini" sarebbe stato fatto arbitrariamente dal giudice di rinvio, nonostante nulla fosse stato detto al riguardo dal giudice di primo grado e nulla fosse stato denunciato dalla stessa p.l. con la sua querela.

2.2 Con il secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente violazione dell’art. 627 c.p.p., omessa assunzione di prove rilevanti e difetto di motivazione, a sostegno della doglianza osservando che:

– illegittimamente sarebbe stata rigettata la richiesta di acquisizioni documentali, pure rilevanti per il giudizio dappoichè direttamente collegati alle frasi ritenute denigratorie relative alla cancellazione delle contravvenzioni, al concorso fatto dalla nipote dell’imputato, alla denuncia di sottrazione di documenti pubblici;

– illegittimamente sarebbe stata omessa ogni considerazione comparativa delle prove offerte dalla difesa;

– illogicamente sarebbero state valutate le espressioni contenute nella missiva denigratoria;

– le espressioni, se colte nel loro reale contesto, sono di autodifesa dell’imputato in relazione alle vicende giudiziarie in corso (amministrative e penali) e di rimprovero, senza intento denigratorio, per le false accuse della p.l.;

– il giudice di secondo grado avrebbe omesso di considerare una serie di precise circostanze puntigliosamente indicate nell’atto di appello ed indicate, altresì, nel ricorso di legittimità alla pagina 15 del ricorso stesso;

– quanto, in particolare, alla vicenda relativa all’interessamento in favore della nipote dell’imputato nel concorso a vigile urbano di Ancona, non avrebbe considerato il giudice a quo che l’episodio è stato evocato dal prevenuto con intento di apprezzamento e non già di censura.

2.3 Col terzo motivo di ricorso, infine, denuncia la difesa ricorrente la inosservanza dell’art. 627 c.p.p. e difetto di motivazione in relazione all’elemento psicologico del reato ed al diniego del riconoscimento della scriminante della provocazione, sul punto deducendo che:

– nulla avrebbe detto il giudice a quo in ordine all’elemento psicologico del reato contestato;

– nulla avrebbe detto il giudice a quo in ordine alle deduzioni illustrate dall’appellante;

– i rapporti tesi tra le parti giustificano espressioni colorite che perdono, per questo, la loro valenza denigratoria;

– le espressioni rivolte dalla p.l. all’imputato integrano fatto inquadrabile nella nozione della provocazione penalmente rilevante e la lettera venne scritta nello stato d’ira da esse provocate;

– l’imputato agì nella convinzione di essere stato ingiustamente accusato di fatti penalmente rilevanti.

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

3.1 Giova prendere le mosse dalla sentenza di questa Corte, sezione quinta, che annullò con rinvio quella del Tribunale di Ancona, assolutoria del ricorrente, in essa ravvisando insufficienza della motivazione.

Orbene, si legge nella citata pronuncia: "…. lo S. aveva infatti rinfacciato all’antagonista una serie di fatti ritenuti disdicevoli, focalizzati come tali con inequivoco intento denigratorio, e cioè la sua omosessualità, menzionata non in modo generico, ma con specifico riferimento a due precise circostanze di fatto, e cioè una vacanza in montagna fatta con un marinaio e molestie rivolte, nella sede della società sportiva ……….. a giovinetti che praticavano la pallacanestro, aggiungendo tendenziosamente che a seguito della suddetta vicenda l’attuale ricorrente sarebbe stato espulso dal club. Ulteriori comportamenti riprovevoli, di valenza certamente offensiva, erano costituite dall’accusa di illecita cancellazioni di contravvenzioni; dall’avere favorito la giovane M.O., nipote dello stesso S., in un concorso per aspiranti vigili urbani; dall’aver sporto nei suoi confronti la denuncia calunniosa di sottrazione di documenti pubblici dagli Uffici della polizia municipale di Ancona;

dall’aver affermato il falso dinanzi al Consiglio di Stato, in una controversia che contrapponeva fin dal 1995 le parti, ciascuna delle quali sosteneva di aver diritto all’incarico di comandante della polizia municipale di Ancona. Il Tribunale aveva ritenuto che la menzione nella lettera delle suddette circostanze non avesse valenza denigratoria, affermando genericamente che il termine "gay" di per sè non è offensivo, e nella specie non c’era animus nocendi, dal momento che l’imputato nel contesto della lettera dichiarava di nutrire simpatia per il T., di essere "laico ed apertissimo", e di "non giudicare i costumi sessuali di nessuno".

Come ha esattamente osservato il P.M. ricorrente, la suddetta motivazione è contraddittoria, proprio perchè la stessa declamatoria di apertura culturale ed agnosticismo nei confronti della omosessualità, denota chiaramente la riprovazione dell’imputato per le tendenze omosessuali del contraddittore, e la valenza offensiva che attribuiva al termine "gay" ed alla peculiare diversità che evidentemente a suo avviso esprimeva. Ma del resto il Tribunale ha del tutto trascurato di esaminare le due specifiche circostanze riferite nella lettera in relazione alla omosessualità di cui s’è detto, e cioè la vacanza con un marinaio e l’accusa di pedofilia, circostanze che erano di assoluto rilievo perchè, al di là della loro eventuale inveridicità, dimostravano inconfutabilmente l’intento denigratorio dello S.. L’assenza di ogni disamina sul punto rende non percepibile la ratio della decisione.

Non diverse considerazioni vanno fatte in ordine agli altri fatti citati nella lettera, sui quali il Tribunale o sorvola, o ne da un’interpretazione fortemente riduttiva.

Quanto poi alla scriminante dell’esercizio di un diritto, adombrato immotivatamente nella sentenza impugnata, la stessa fugacità dell’argomentazione relativa ne evidenzia la gratuità." Ciò detto giova rammentare, sul piano dei principi, che la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’inadempimento dell’obbligo della motivazione. Ne deriva che il giudice di rinvio, pur conservando la libertà di determinare il proprio convincimento di merito mediante un’autonoma valutazione della situazione di fatto concernente il punto annullato e con gli stessi poteri dei quali era titolare il giudice il cui provvedimento è stato cassato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali ovvero al compimento di una determinata indagine, in precedenza omessa, di determinante rilevanza ai fini della decisione, o ancora all’esame, non effettuato, di specifiche istanze difensive incidenti sul giudizio conclusivo, con l’unico limite di non ripetere i vizi della motivazione rilevati nella sentenza annullata (Cass., Sez. 1^, 15/01/2007, n. 7963; Cass., Sez. 1^, Sent, 13/11/2007, n. 43685).

Orbene, reputa la Corte che il Tribunale di Ancona, in sede di rinvio, abbia correttamente svolto la sua funzione, inquadrando per un verso, il termine "gay" utilizzato nella lettera agli episodi che la sentenza annullata aveva omesso di considerare, la vacanza con il marinaio e l’allontanamento dal club frequentato da minori, e valutando le ulteriori accuse, presenti nella missiva ritenuta offensiva, come denigratorie, con giudizio di merito logicamente motivato.

Oltre questo, v’è, evidentemente, il giudizio sui fatti, inammissibile in questa sede ancorchè abbondantemente utilizzato dalla difesa ricorrente nella sua impugnazione, ove si accredita una lettura delle espressioni denigratorie in una prospettiva diversa da quella accolta dal giudice territoriale secondo precise indicazioni del giudice dell’annullamento, che proprio in questo aveva rilevato le lacune motivazionali della pronuncia cassata. Tanto, quanto alla prima censura.

3.2 Con riferimento, invece, alla doglianza di cui al secondo motivo di ricorso, rammenta la Corte che il giudice di rinvio, a meno che l’annullamento della sentenza sia stato disposto proprio a tal fine, non è tenuto a disporre la rinnovazione del dibattimento ogni volta che le parti ne facciano richiesta. I poteri di rinnovazione, infatti, sono sostanzialmente uguali a quelli che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, con la utile precisazione che la prova da assumersi nella eccezionale ipotesi di nuova istruttoria dibattimentale, deve atteggiarsi come indispensabile per la decisione ai sensi dell’art. 603 c.p.p., in tal guisa interpretandosi l’aggettivo "rilevante", riportato al comma secondo, ultima parte, dell’art. 627 c.p.p. (Cass., Sez. 4^, 21/06/2005, n. 30422; Cass., Sez. 2^ Sent. 13/07/2007, n. 35616) che certo non ha inteso ampliare la regola generale portata dall’art. 603 c.p.p., bensì confermarla.

Su tali premesse ben non si comprende la censura della difesa ricorrente, la quale si lamenta della mancata acquisizione di documenti in relazione ai quali il Tribunale ha poi trattato nella motivazione al fine di dimostrarne, correttamente sul piano logico e dialettico, l’irrilevanza ai fini della decisione, perchè, da un lato, inidonei a provare la veridicità dei fatti denigratori (evidentemente soltanto di alcuni e precisamente quelli non connessi con l’espressione "essere gay", per i quali non v’è spazio per la prova liberatoria) e, per altro verso, volti a rappresentare circostanze fattuali ininfluenti sul giudizio di offensività relativo a quanto scritto nella missiva per cui è causa.

3.3 Generiche ed aspecifiche si appalesano, infine, le ultime doglianze illustrate dalla difesa ricorrente e riguardanti l’elemento psicologico del reato e la scriminante della provocazione, rispetto alle quali la difesa ricorrente ripropone tesi adeguatamente confutate dal giudice di merito con argomentazioni rispetto alle quali non appaiono riconoscibili repliche apprezzabili. L’elemento psicologico del reato di ingiuria, ha rammentato il giudice a quo secondo costante indirizzo interpretativo di questa Corte di legittimità, è in re ipsa, e la provocazione nel caso di specie va esclusa dalla considerazione che la supposta reazione immediata è in contraddizione con il tempo trascorso rispetto ai fatti indicati come provocatori, dappoichè una lettera inviata dopo un giorno da essi, col corollario del tempo necessario per concepirla e scriverla, escludono in radice il concetto di immediatezza. Oltre la logicità delle sintetizzate considerazioni, v’è, anche in questo caso, il giudizio di merito, precluso in questa fase del processo.

4. Il ricorso è, in conclusione, inammissibile ed alla declaratoria di inammissibilità consegue sia la condanna al pagamento delle spese del procedimento, sia quella al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1000,00.

Ulteriore conseguenza della indicata pronuncia è la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile costituita e comparsa.

P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida complessivamente in Euro 3000,00 (tremila) oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *