T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 01-03-2011, n. 1888

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’atto in questa sede impugnato è stato negato al ricorrente il rinnovo del permesso di soggiorno, avendo la Questura rilevato che dagli atti d’Ufficio si evince che il ricorrente in data 21 marzo 2003 veniva condannato dal Tribunale di Civitavecchia, con sentenza irrevocabile il 24 giugno 2003, alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione per i reati di cui agli artt. 56, 575, 577 n. 4, 62 n. 2 e n. 5, 62 bis, 69 comma 3 cpv.

Tanto premesso, la Questura – nel provvedimento oggetto di impugnazione – ha rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno richiamando il disposto di cui all’art. 4, comma 3, capoverso 3, del Decreto Legislativo n. 286/98 secondo cui "Non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite".

Con una unica censura – ribadita nei motivi aggiunti in relazione al provvedimento reso in data 12 giugno 2008 dalla Questura di Roma – il ricorrente deduce la violazione di legge, la illogicità manifesta dell’atto e l’eccesso di potere.

In particolare, il ricorrente afferma che l’Amministrazione non avrebbe correttamente valutato le circostanze sopravvenute consistenti nella dedotta discrepanza tra il contenuto del dispositivo della sentenza di condanna e le risultanze del casellario giudiziario e, in ogni caso, non avrebbe valutato la sussistenza della riconosciuta "desistenza volontaria" che avrebbe modificato il titolo del reato. L’odierno ricorrente, infatti, secondo la tesi sostenuta in sede di ricorso, non sarebbe stato condannato per il reato di omicidio tentato quanto, piuttosto, per quello di lesioni gravi, fattispecie non rientrante nel disposto di cui all’art. 380 c.p.p.

La censura è infondata.

Così come si evince dal contenuto della sentenza di condanna e dalla correlazione tra capo di imputazione e dispositivo, l’odierno ricorrente è stato condannato per la seguente fattispecie di reato "delitto p. e p. dagli artt. 56, 575, 577 n. 4 in relazione all’art. 61 n. 1 e n. 5 c.p. perché, agendo per futili motivi e profittando della circostanza che Milton Gomes – suo coinquilino – stesse dormendo, vibrando in direzione di quest’ultimo con il coltello meglio descritto nel verbale di sequestro in data 12/06/02 e da intendersi qui integralmente richiamato e trascritto, n. 9 fendenti colpendolo in diversi punti del torace dell’addome, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte del predetto Gomes, non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà", seppure con il riconoscimento della desistenza volontaria. Tale riconoscimento, tuttavia, non ha mutato il "titolo" del reato quanto, piuttosto, ha reso applicabile alla fattispecie di cui all’art. 575 c.p. (omicidio) la "pena" relativa all’ipotesi di cui all’art. 582 c.p. (lesioni gravi) ( art 56, comma 3, c.p. "Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso").

Alcun dubbio, dunque, in merito alla corretta valutazione operata dalla Amministrazione che – in relazione al titolo del reato – ha ritenuto lo stesso rientrare nel disposto di cui all’art. 380 c.p.p. e, conseguentemente, ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno.

Infatti, in base all’art. 4, comma 3, d.lg. n. 286 del 1998, "Non è ammesso in Italia lo straniero (…) che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite".

Tale norma introduce un automatismo che opera nel caso in cui la responsabilità del cittadino straniero risulta essere stata accertata dall’Autorità Giudiziaria con provvedimento irrevocabile anche a seguito di "patteggiamento".

Il riferimento legislativo alle inerenti condanne deve quindi ritenersi come volto ad individuare i fatti probanti (cioè le condanne) la sussistenza di quei requisiti negativi.

Trattasi, in definitiva, di una valutazione di pericolosità sociale già effettuata dal legislatore che ha ritenuto, del tutto ragionevolmente e nell’ambito della discrezionalità che gli compete, la sussistenza di tale elemento nella responsabilità del soggetto, accertata giudizialmente, per la commissione di reati di particolare gravità.

Può quindi condivisibilmente riconoscersi che in tal caso sussiste un automatico impedimento al rinnovo del permesso di soggiorno, senza necessità di una autonoma valutazione della concreta pericolosità sociale, in quanto si tratta di una preclusione che non costituisce un effetto penale, ovvero una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto amministrativo che la legge fa derivare dal fatto storico consistente nell’avere riportato una condanna per determinati reati, quale indice presuntivo di pericolosità sociale o, quanto meno, di riprovevolezza (non meritevolezza, ai fini della permanenza in Italia) del comportamento tenuto nel Paese dallo straniero.

La norma in questione non consente all’Amministrazione alcuna autonoma valutazione in ordine ai fatti oggetto del giudizio penale derivando in modo del tutto automatico dalla sentenza penale la preclusione al rinnovo del permesso di soggiorno.

Non v’è dubbio, allora, che l’intervenuto accertamento con sentenza irrevocabile – così come evidenziato nel provvedimento impugnato – dei fatti penalmente rilevanti indicati dal disposto di cui all’art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 286/1998, giustifica il diniego di rilascio del permesso di soggiorno.

Ne consegue che l’Amministrazione, una volta riscontrata la sussistenza delle condanne ostative al rilascio del permesso di soggiorno non poteva in alcun modo risultare onerata di ulteriori comunicazioni o avvisi al ricorrente.

Conseguentemente e per i motivi esposti, il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.

Sussistono giusti motivi per dichiarare integralmente compensate le spese di lite tra le parti
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, respinge il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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