Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-02-2011) 04-03-2011, n. 8812

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La Corte d’appello di Torino ha dichiarato sussistere le condizioni per l’estradizione del cittadino albanese B.M. o M., per l’esecuzione della sentenza di condanna del Tribunale di Diber del 3.6.2003 per il reato di omicidio premeditato.

2. Due i ricorsi proposti nell’interesse dell’estradando, che deducono gli stessi motivi.

2.1 Il ricorso del difensore denuncia:

– erronea applicazione dell’art. 707 c.p.p. e vizi della motivazione, perchè stante la precedente sentenza della medesima Corte distrettuale in data 9.2.2004, di diniego della consegna per la medesima condanna ed adottata quando in realtà la sentenza del Tribunale di Diber era già esecutiva (contrariamente a quanto affermato dalla sentenza 9.2.2004), l’odierna richiesta sarebbe basata sui medesimi presupposti alla stregua dei quali vi era stata la precedente reiezione;

– erronea applicazione dell’art. 705 c.p.p., perchè il difensore che aveva tutelato la posizione del B.M. era stato nominato dai familiari e non dall’estradando odierno, in un contesto nel quale imputati erano due fratelli, dei quali uno poi assolto, quindi con possibili interessi contingenti di favorire uno dei due.

2.2 Il ricorso personale dell’estradando deduce:

– violazione degli artt. 606, 706 e 707 c.p.p. in relazione al giudicato estradizionale che sarebbe intervenuto con la sentenza 9.2.2004, che coprirebbe anche le statuizioni adottate per ragioni in rito (nella fattispecie la mancanza di copia del mandato di cattura e la non esecutività della sentenza attivata), con valutazione deliberata in udienza e con sentenza, il che differenzierebbe il caso in questione da quello risolto da Sez. 6, sent. 39944/2009;

– violazione di legge in relazione agli artt. 606, 705.2, 706 c.p.p. per essere stato il processo albanese celebrato nella contumacia del B. con il rito "accelerato", corrispondente al nostro giudizio abbreviato, in assenza di specifica scelta personale dell’imputato e con istanza proposta da difensore munito di procura speciale rilasciata solo dai familiari.

3. I ricorsi sono infondati. Il ricorrente va pertanto condannato al pagamento delle spese processuali.

3.1 Sono innanzitutto inammissibili, perchè manifestamente infondati ed anche sostanzialmente generici, i due motivi che censurano la celebrazione del processo albanese con il rito corrispondente al nostro giudizio abbreviato. Posto che dalla sentenza albanese risulta che a seguito della scelta di quel rito al B. è stata applicata la pena di anni quattordici in luogo di quella di anni ventuno, il che attesta con immediatezza le evidenti conseguenze favorevoli della scelta contingente per l’imputato, è altresì pacifico in atti che tale scelta è stata compiuta nell’interesse dell’imputato dal difensore fiduciario nominato dai familiari, in modo conforme alla disciplina processualpenalistica albanese.

Orbene, la scelta del rito come esito di strategia difensiva decisa personalmente dal difensore fiduciario, ritualmente nominato dai prossimi congiunti, non costituisce affatto lesione di un principio fondamentale dell’ordinamento italiano: basti pensare da un lato che anche il nostro ordinamento conosce l’istituto della nomina del difensore da parte di un prossimo congiunto ( art. 96 c.p.p., comma 3), dall’altro che anche nel nostro sistema processuale il difensore fiduciario ha la facoltà di consentire l’acquisizione delle prove raccolte dalla parte pubblica al di fuori del contraddittorio dibattimentale ( art. 493 c.p.p., comma 3, e si veda sul punto Sez. 6, sent. 7061 del 11-20.2.2010). Pertanto, la previsione nel nostro ordinamento di una scelta personale dell’imputato per la celebrazione del processo con rito "contratto" non può essere elevata a principio fondamentale dell’ordinamento italiano.

Per il resto, le deduzioni sulla possibilità, nella fattispecie, di una infedele difesa sono da un lato irrilevanti (trattandosi di aspetto in fatto e non in diritto, come tale inidoneo ad influire sulla configurabilità o meno di un principio fondamentale dell’ordinamento: del resto, l’eventuale infedeltà ben avrebbe potuto manifestarsi anche in processo con rito ordinario), e dall’altro del tutto apodittiche (posto che, a fronte del beneficio "robusto" di diminuzione della pena, le prospettive assolutorie di una diversa scelta del rito non sono anche solo accennate).

3.2 I motivi sul giudicato estradizionale sono infondati.

Risulta dalla sentenza impugnata e dagli atti di ricorso che per i medesimi fatti (omicidio premeditato e porto abusivo di armi militari e munizioni) il Governo albanese aveva già richiesto l’estradizione del B. in data 18.11.2003, tuttavia "azionando" la sola sentenza di primo grado del 3.6.2003. La stessa Corte d’appello di Torino con sentenza del 9.2.2004, divenuta irrevocabile il 23.3.2004, aveva respinto quella richiesta estradizionale per due motivi pregiudiziali di natura processuale: la mancanza del provvedimento di cattura e la non esecutività della sentenza, in allora risultante impugnata davanti alla Corte d’appello di Tirana.

Correttamente la Corte torinese ha giudicato che la riproposizione della domanda in questa fattispecie non violasse l’art. 707 c.p.p..

Tale norma prevede che la sentenza contraria all’estradizione preclude la pronuncia di una successiva sentenza favorevole a seguito di un’ulteriore domanda presentata per i medesimi fatti dallo stesso Stato, salvo che la domanda sia fondata su elementi che non siano già stati valutati dall’autorità giudiziaria.

Deve in proposito affermarsi il principio di diritto che il cosiddetto "giudicato estradizionale" (in realtà una mera preclusione allo stato degli atti) attiene alla sola deliberazione sul merito della richiesta, e non comprende le decisioni che per questioni in rito o pregiudiziali non abbiano appunto esaminato tale merito della richiesta e, quindi, non abbiano espressamente deliberato sulla sua conformità al sistema internazionale o, in assenza di convenzioni, ai principi di cui all’art. 705 c.p.p..

Appare infatti fuorviante affrontare il tema guardando ad una sorta di "diritto di azione" riconosciuto allo Stato estero "una tantum", un diritto di azione che quindi si consumerebbe con il suo mero esercizio a prescindere dall’effettivamente avvenuta delibazione del merito della richiesta. innanzitutto la norma dell’art. 707 c.p.p. non lo prevede espressamente e, anzi, una tale interpretazione – ove non supportata appunto da specifica e conforme previsione normativa, come non è – si porrebbe in contrasto con il corretto ed efficace adempimento degli obblighi internazionali, che prevedono in particolare la leale collaborazione per il perseguimento di finalità di cooperazione ritenute utili e condivise da norme pattizie.

E’ anche significativo che in realtà dal sistema processuale nazionale si evinca il principio contrario, laddove l’art. 649 c.p.p. – norma generale specifica sul tema del giudicato – fa espressamente salvi i casi in cui sopravviene la condizione di procedibilità la cui mancanza aveva determinato la chiusura del giudizio per gli stessi fatti (art. 345 e, per il caso particolare della inesistente morte dell’imputato, l’art. 69 c.p.p., comma 2).

Del resto, che il concetto di ne bis in idem (ed ancor più quello – più "debole" – di preclusione allo stato degli atti) abbia tendenzialmente riferimento all’avvenuta deliberazione di merito, quindi all’effettivo apprezzamento in fatto e in diritto della richiesta e non alle decisioni che definiscono la procedura in relazione ad aspetti meramente procedurali che impediscono l’esame del merito, è assunto insegnato anche recentemente da questa stessa Corte pure in tema di misure cautelari (Sez. 6, sent. 43213 del 27.10- 6.12.2010).

Nella specifica materia estradizionale questa Corte ha già affermato i principi che il giudicato di cui all’art. 707 c.p.p. non opera quando a seguito della precedente domanda di estradizione non sia stata adottata alcuna decisione nel merito della stessa (Sez. 6, sent. 39944 del 22.9-13.10.2009), o quando le vicende processuali intervenute dopo l’adozione della prima decisione modifichino il contesto della decisione precedente (Sez. 6, sent. 18505 del 4.3- 15.5.2010).

Si tratta di decisioni che, pur relative a fattispecie concrete in parte diverse da quella odierna (la sentenza 39944/2009 si riferiva a caso in cui in precedenza era stata adottata ordinanza di non luogo a procedere, e tuttavia risolve la questione ritenendo insufficiente il solo dato formale del tipo di provvedimento – ordinanza piuttosto che sentenza – evidenziando insieme anche il dato dell’assenza di alcuna decisione di merito; la sentenza 18505/2010 si riferisce a situazione in cui il sopravvenuto venir meno del giudicato aveva imposto il mutamento del titolo fondante la richiesta di consegna), presuppongono entrambe l’assunto che l’effetto preclusivo si determini solo quando è intervenuta pronuncia giurisdizionale sul merito della richiesta, con identità dei contesti fattuali, in fatto e in rito, esaminati.

E’ poi vero che con la sentenza 40167 del 18.10-6.12.2006 questa stessa sezione ha ritenuto che la sentenza in rito che prendeva atto dell’intervenuta rinuncia alla procedura estradizionale da parte dello Stato emittente avesse efficacia preclusiva ai sensi dell’art. 707 c.p.p. rispetto a successiva domanda, per i medesimi fatti, prospettando in proposito il "concetto di consunzione o perenzione dell’esercizio del peculiare diritto di estradizione attiva". Ma la motivazione della sentenza, oltre a dare peculiare rilievo alla particolarità del caso concreto esaminato, collega il concetto di perenzione alla fattispecie dell’autonoma ed insindacabile decisione dello Stato straniero di ritirare o revocare l’anteriore richiesta estradizionale. Si tratta, all’evidenza, di una fattispecie astratta del tutto diversa rispetto a quella per cui oggi si procede: lì vi è stata la manifestazione positiva di un’espressa volontà di rinuncia (quindi della volontà di nessuna pronuncia), qui la manifestazione della reiterata volontà di una pronuncia favorevole.

In ogni caso, come ben osservato dalla Corte piemontese, ove si ritenesse che anche la soluzione "in rito" determini il giudicato allo stato degli atti, per coerenza sistematica occorrerebbe allora dare rilievo anche ai nuovi "elementi" (ex art. 707 c.p.p.) "in rito" in ipotesi sopravvenuti, sì che la decisione di reiezione (in rito o nel merito) avrebbe valenza allo stato degli atti, sia quanto al loro contenuto che quanto alla loro stessa materiale e formale esistenza.

Sul punto, la sentenza impugnata da atto che solo nel nuovo procedimento estradizionale è "entrato" positivamente il dato dell’esecutività della sentenza di condanna, assente nella prima procedura, mentre la doglianza (primo motivo dell’atto presentato dal difensore) è non solo generica, laddove afferma apoditticamente che in realtà al momento della prima domanda estradizionale la sentenza d’appello era oltre che intervenuta (udienza 12.11.2003 rispetto a domanda estradizionale del 18.11.2003) anche esecutiva, ma in definitiva non rilevante, perchè ciò che rileva sono gli "elementi" concretamente posti a disposizione per ottenere la decisione nel merito.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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