Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con ordinanza in data 20.04.2010 il Tribunale di Sorveglianza di Roma rigettava nel merito il reclamo proposto da N.A., detenuto in espiazione dell’ergastolo, avverso il decreto 05.11.2009 del Ministro della Giustizia di proroga per anni due, nei suoi confronti, del regime detentivo particolare ex art. 41 bis Ord. Pen..
Peraltro, in relazione alle questioni proposte afferenti – con riferimento alla novella introdotta con L. n. 94 del 2009 – la riduzione delle ore all’aperto e di socialità e la limitazione del reclamo, sulle quali detto Tribunale aveva ritenuto, già in altri procedimenti, non manifestamente infondate le sollevate questioni di costituzionalità, era disposto lo stralcio.- Nel merito, a fronte di un reclamo che lamentava la mera reiterazione nel decreto ministeriale di dati pregressi, rilevava il Tribunale come – di contro – esso fosse fondato su informative del tutto recenti da parte degli organi preposti che segnalavano la perdurante pericolosità del predetto detenuto, capo indiscusso dell’omonimo clan camorristico, già a lungo latitante, in un quadro di permanente operatività dell’associazione delinquenziale in parola dedita ad attività criminose plurime e di massima rilevanza. Erano così ritenute giustificate le singole restrizioni imposte, salvi i profili suddetti, rimandati in attesa della decisione del Giudice delle leggi.
2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per Cassazione l’anzidetto condannato che motivava l’impugnazione, fornita anche di corposi allegati, svolgendo le seguenti deduzioni: a) vizio di motivazione mancante, in quanto non erano state esaminate le deduzioni proposte con memorie depositate nei termini, da valere quali motivi nuovi ex art. 585 c.p.p., comma 4; b) questione di legittimità costituzionale della limitazione dei colloqui con il difensore anche in relazione all’art. 6 CEDU; in relazione al complessivo trattamento, degradante ed inumano; si lamenta poi la mancata introduzione nell’ordinamento interno del reato di tortura nel quale si traduce – secondo il ricorrente – il regime in parola.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi argomentata requisitoria con la quale richiedeva declaratoria di inammissibilità del ricorso in ogni sua prospettazione.
4. Il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve essere dichiarato inammissibile con tutte le dovute conseguenze di legge.
Va premesso che nessuna deduzione specifica è sollevata dal ricorrente in ordine al merito del provvedimento impugnato, quanto alla rilevata pericolosità posta a base del Decreto ministeriale e confermata dall’impugnata ordinanza; ed invero l’unico spunto in proposito si rinviene a f. 9 del ricorso, consistente in una mera elencazione di temi del tutto generica ed aspecifica, senza alcuna concreta argomentazione a sostegno.
Il primo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la mancata risposta, da parte del Tribunale di Sorveglianza, ai temi proposti con i "motivi nuovi", tali qualificati dalla difesa ex art. 585 c.p.p., comma 4, (si sostiene presentati nei termini), è del tutto infondato. Ed invero, ancorchè il reclamo in materia di procedimento di sorveglianza abbia tendenziale natura impugnatoria (come ritenuto da questa Corte), tale natura deve essere però contemperata con la disciplina specifica, come tale prioritaria. Orbene, il comma 3 dell’art. 14 ter Ord. Pen., che regola la procedura del reclamo, ammette la presentazione di "memorie", ma non accenna a "motivi nuovi" (strictu sensu) di reclamo. L’art. 41 bis Ord. Pen. richiama, a proposito del reclamo, gli artt. 666 e 678 c.p.p. e quest’ultimo, a sua volta, richiama l’art. 667 c.p.p., tutte norme -in materia esecutiva- che non prevedono, nè direttamente, nè per rinvio, "motivi nuovi" in senso specifico (con riferimento all’art. 585 c.p.p., comma 4). Vi è, peraltro, in proposito, un argomento dirimente: i "motivi nuovi" di impugnazione, di cui all’art. 585 c.p.p., comma 4, devono essere depositati, a pena di decadenza, "fino a 15 giorni prima dell’udienza", mentre il reclamo deve essere deciso, secondo la previsione edittale dell’art. 14 ter, comma 2, Ord. Pen., "entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo", termine di dieci giorni ribadito, nella specifica materia, dall’art. 41 bis Ord. Pen.- Poco importa, a questi fini, che si tratti di termini ordinatori (non essendo prevista alcuna conseguenza processuale in caso di decisione che non li rispetti), quanto rileva che tale previsione (decisione entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo) implicitamente rende incompatibile la norma dell’art. 585 c.p.p., comma 4 che ammette "motivi nuovi" solo fino a 15 giorni prima dell’udienza, interpretazione che viene confermata dalla previsione, nella specifica materia del reclamo, della mera possibilità di presentare "memorie". Varrà anche ricordare – ad indiretta conferma di quanto qui si assume – che questa Corte, con sentenza della Sez. 1, n. 2334 in data 18.12.2009, Rv. 246314, Alvaro, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 14 e 41 Ord. Pen. nella parte in cui non prevedono la possibilità di proporre veri e propri "motivi nuovi" di reclamo.- Ciò posto, è di tutta evidenza la conseguenza:
l’ulteriore atto difensivo presentato al Tribunale di Sorveglianza che debba decidere un reclamo, avendo natura di "memoria", ne deve rispettare i limiti, e cioè essere mera illustrazione dei temi già proposti con il reclamo (unico atto di parte avente vera e propria natura impugnatoria) e non può rivestire efficacia devolutiva.
Bene, dunque, il Tribunale di Sorveglianza, nella presente vicenda, ha considerato i c.d. "motivi nuovi" quale "memoria", al di là della questione sui termini di presentazione.
Ciò posto, poichè peraltro anche la memoria deve essere oggetto di esame da parte del giudice, occorre rilevare come in tal senso si debba ritenere che tale compito risulti adeguatamente assolto, anche in eventuale mancanza di specifici e puntuali passaggi motivazionali, ove il corpo della pronuncia, nel suo complesso, dia sostanziale risposta agli argomenti illustrati con la memoria stessa, dando comunque mostra di non avere eluso le proposte problematiche. Ciò è quanto si riviene, nel complesso della decisione impugnata, che affronta anche il tema della compatibilità del regime in questione con la salvaguardia dei diritti umani. Infine – ed ai fini del presente scrutinio del proposto ricorso risulta assorbente – si tratta di critiche generiche alla normativa, del tutto aspecifiche rispetto al caso singolo, critiche peraltro poi ripetute -altrettanto genericamente- nell’atto di ricorso.
Il ricorrente pone quindi questione di costituzionalità: – della limitazione mensile dei colloqui con il difensore (con riferimento a norme della Costituzione e della CEDU); -delle limitazioni alla socialità interna (per violazione alla Costituzione, alla CEDU ed a varie Convenzioni internazionali); – in genere, del trattamento, configurante trattamento inumano ed anche sostanziale tortura (stessi motivi).
Il ricorrente sostiene quanto propone, esponendo ampia critica a tutto l’impianto della specifica normativa (ed allegando un ricco collage di elementi di varia natura: scritti teorici, sentenze, dichiarazioni, citazione, ecc). Vanno subito, e senz’altro, dichiarate non rilevanti nello specifico le proposte questioni relative a tutti quei profili per i quali manca qualsivoglia riferimento al caso concreto (in ordine allo specifico trattamento in capo al N.: quali spazi a sua disposizione in cella o nella socialità, ecc.) e ciò vale anche per la deduzione (invero in tal senso quanto meno affrettata) di trattamento inumano, addirittura integrante tortura ai sensi delle Convenzioni internazionali, che non può discendere dal Decreto ministeriale in senso generale, ma dalla sua singola attuazione, caso per caso: così è anche il senso della decisione della Corte Costituzionale con sentenza n. 190/2010 proprio in tema di limitazioni alla socialità e trattamento in genere.
Tali temi sono dunque superati, per forza di tale pronuncia.
Altrettanto è a dirsi in ordine alla questione relativa alla limitazione dei colloqui con i difensori, per la quale la Corte Costituzionale, già investita di analogo ricorso, ne ha dichiarato l’inammissibilità, con sentenza n. 220/2010, rilevando come difettasse la rilevanza concreta ove non se ne dimostri l’incidenza nella specifica situazione, il che è quanto parimenti qui è a dirsi, avendo il ricorrente esposto tesi del tutto e quanto mai aspecifiche.
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile, ex art. 591 c.p.p. e art. 606, comma 3.
Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso così generico e totalmente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente N. A. al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende.
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