Cons. Stato Sez. VI, Sent., 02-03-2011, n. 1286 Infortunio sul lavoro

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio -Sede di Roma- ha respinto il ricorso con il quale era stato chiesto dall’ odierno appellante l’annullamento della nota n. 231880 del 29settembre 1997 con cui era stata respinta – in mancanza di idonea documentazione sanitaria – la richiesta da questi avanzata e relativa al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle patologie "disfagia, disfonia e faringite acuta" da cui era stato afflitto.

Il primo Giudice ha rilevato che l’ art. 39 del Regolamento del Personale della Banca d’Italia prevedeva che il riconoscimento dell’infortunio o malattia del dipendente fosse determinato dall’amministrazione su "documentata domanda" dell’interessato, imponendo un onere documentale che indicasse la natura dell’infermità e le cause che l’hanno determinata.

Soddisfatto tale requisito la Banca poteva, quindi, sottoporre il dipendente a visita medicospecialistica per ulteriori accertamenti (questa costituiva una facoltà, ai sensi dell’art. 6 del citato regolamento, qualora il dipendente avesse presentato una domanda in regola con le prescrizioni dettate dal medesimo articolo) non sussistendo alcun preteso obbligo istruttorio.

L’originario ricorrente, invece, aveva prodotto un’istanza incompleta in quanto priva della documentazione sanitaria attestante l’esistenza di un nesso di derivazione causale tra il servizio prestato e l’insorgenza della malattia: il certificato prodotto a corredo della prima richiesta di trasferimento, inoltre, si limitava a formulare una diagnosi senza individuare una correlazione tra la patologia riscontrata e l’ambiente asseritamene insalubre in cui il dipendente svolgeva la sua attività lavorativa, consigliando la frequentazione di "ambienti poco irritativi (es. polvere, fumo..).

L’importanza di assolvere il predetto onere di certificazione era, secondo il primo Giudice, assai significativo in quanto strumento di limitazione di istanze infondate (con particolare riferimento a quelle patologie -come l’affezione lamentata dall’odierno appellante qualificabile come infiammazione della mucosa faringea e delle corde vocali- prive di carattere specifico e che potevano derivare da diversi fattori, non riconducibili all’ambiente di lavoro).

L’amministrazione non aveva, quindi, neanche elementi per evincere se la patologia del dipendente era già in corso ovvero fosse derivata dall’ambiente di lavoro, e non era tenuta a provvedere con autonomi accertamenti sanitari.

Peraltro l’amministrazione aveva diligentemente ed in modo sollecito provveduto a rimuovere eventuali situazioni di disagio del dipendente, accogliendo la sua prima istanza di trasferimento ad altra divisione.

Ne conseguiva la reiezione del ricorso.

L’odierno appellante ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima: egli ha rammentato di avere sofferto della predetta affezione, certificata da un medico chirurgo (che gli aveva suggerito di non frequentare locali pieni di fumo o polveri) e di aver chiesto di essere assegnato, in forza della circolare n. 219/97 della Banca, ad incarico di lavoro che gli "permettesse di svolgere la propria attività insieme a colleghi non fumatori".

L’amministrazione lo aveva trasferito; essa era in possesso dei due certificati medici del 9 e 30 aprile 1997 documentanti la patologia in esame; la disposizione regolamentare richiamata dal Tribunale amministrativo non prescriveva affatto che si dovesse documentare la sussistenza del nesso eziologico; in ogni caso l’amministrazione avrebbe dovuto svolgere per proprio conto accertamenti istruttori, ovvero invitare l’odierno appellante ad integrare la documentazione.

L’appellata amministrazione si è costituita chiedendo la reiezione del gravame.

In via principale ha riproposto l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado assorbita dal Tribunale amministrativo: era stata impugnata una nota di comunicazione priva di valenza lesiva (quella con la quale si era comunicato di non potere prendere in esame la richiesta avanzata dal dipendente perché la documentazione posta a sostegno della medesima era incompleta) ma il dipendente non aveva prodotto la documentazione prescritta dall’art. 39 del Regolamento del personale.

L’impugnazione era altresì infondata nel merito posto che il predetto art. 39 del Regolamento del personale espressamente prevedeva l’onere di indicazione specifica della infermità e del nesso di derivazione causale, a pena di inammissibilità della domanda.
Motivi della decisione

1.Il ricorso in appello è infondato e deve essere respinto.

2.Deve in via preliminare essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado riproposta dalla Banca d’Italia: l’impugnata nota, infatti, non rivestiva mera efficacia di comunicazione atteso che determinava un arresto del procedimento in senso preclusivo della pretesa del dipendente.

Essa possedeva pertanto valenza lesiva e pertanto il mezzo di primo grado volto ad avversarla era ammissibile.

3.Passando ad esaminare adesso il merito dell’appello, ritiene il Collegio che esso meriti la reiezione.

3.1. L’art. 39 comma I del Regolamento del personale della Banca d’Italia prevede che l’impiegato debba presentare "a pena di inammissibilità" una "documentata domanda" (entro sei mesi dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o da quella in cui ha conoscenza della infermità), indicando specificamente "la natura dell’infermità stessa, le circostanze in cui si produsse, le cause che la determinarono, nonché ogni altro utile elemento di valutazione".

Il riferimento alla "documentata domanda" implica di necessità che la richiesta dovesse essere corredata da documentazione; essa doveva vertere, tra l’altro, sulle "cause che determinarono" la patologia.

Il tutto a pena di inammissibilità.

Il tenore inequivoco della prescrizione dimostra la infondatezza del primo motivo di censura e la correttezza della impugnata decisione: l’ appellante a pag. 5 del ricorso in appello, nel richiamare il predetto art. 39 del Regolamento interno ha omesso di citare proprio l’inciso più importante, ai fini per cui è causa (id est: la indicazione ivi contenuta dell’onere della produzione documentale attestante le "cause che determinarono" la patologia).

La propria istanza non recava menzione di tale elemento; né la circostanza che l’affezione di cui egli soffriva fosse nota alla Banca e che quest’ultima lo avesse trasferito presso altra divisione può incidere sulla distinta problematica della riconducibilità a causa di servizio della patologia.

La censura pertanto merita di essere disattesa.

3.2.Quanto al secondo profilo di critica, a fronte di una domanda inammissibile nessun onere di sottoporre a visita specialistica il dipendente poteva gravare sulla Banca.

Tale "facoltà" (di cui al comma VI del citato art. 39 del Regolamento) di cui gode l’Istituto bancario, è riservata, per espressa prescrizione del predetto comma VI alle istanze "avanzate ai termini dei precedenti commi".

Quella dell’appellante non vi rientrava, per le chiarite ragioni, in quanto inammissibile perché non corredata della prescritta documentazione: né può affermarsi il dovere della Banca di supplire a detto radicale vizio provvedendo motu proprio a sottoporre a visita il dipendente predetto.

Nel caso di specie non si verte neppure in tema di "integrazione documentale": l’appellante avanza invece la non accoglibile tesi secondo cui l’amministrazione avrebbe dovuto svolgere ex officio una istruttoria (anche) sul nesso eziologico supplendo alla omissione del dipendente ed omettendo di rilevare la causa di inammissibilità della domanda (il tutto senza che il dipendente predetto si sia attivato per eventualmente integrare la propria domanda corredandola dalla prescritta documentazione).

Anche tale censura merita la reiezione.

La sentenza impugnata conclusivamente resiste alle censure di cui all’appello che deve essere, pertanto, respinto.

Le spese processuali seguono la soccombenza e pertanto l’appellante deve essere condannato al pagamento delle medesime in favore di parte appellata, in misura che appare congruo quantificare, avuto riguardo alla natura della controversia, in Euro millecinquecento (Euro 1.500/00) oltre accessori di legge, se dovuti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali nella misura di Euro millecinquecento (Euro 1.500/00) oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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