Cass. civ. Sez. V, Sent., 05-05-2011, n. 9892 Accertamento Imposta reddito persone giuridiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso alla Corte di cassazione ritualmente notificato, l’Agenzia delle entrate ha esposto che con ricorso del 24 gennaio 1989 la Costruzioni Metallo Legno s.r.l. aveva chiesto l’annullamento dell’avviso di accertamento per IRPEG/ILOR n. 674 relativo all’anno 1983, con cui l’amministrazione finanziaria aveva recuperato a tassazione alcune poste, tra le quali, per quanto qui ancora interessa, L. 113.869.000 per costi iscritti al c/immobili non documentati "ai sensi del D.P.R. n. 598 del 1973, art. 12". La Commissione tributaria provinciale aveva respinto il ricorso della società per questa posta, ma la Commissione di secondo grado prima e la Commissione tributaria centrale poi avevano accolto le ragioni della contribuente.

Contro quest’ultima pronunzia l’Agenzia delle entrate ha opposto i due motivi di censura che verranno esaminati nel successivo paragrafo. La Costruzioni Metallo Legno s.r.l. ha depositato controricorso ed una successiva memoria illustrativa.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 74 e del D.P.R. n. 636 del 1972, artt. 1, 16, 22, 24, 26 e 29 nonchè violazione dei principi generali del processo tributario e motivazione carente illogica e contraddittoria su un punto decisivo della controversia.

Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione del D.P.R. n. 598 del 1973, art. 12 nonchè carenza e contraddittorietà della motivazione.

Le disposizioni legislative delle quali il primo motivo censura la violazione appaiono tutte inconferenti e comunque il motivo non chiarisce quale sia la norma o la disciplina ricavabile in tesi dalla combinazione di esse nè quale ne sia il rapporto con la statuizione della sentenza impugnata.

La denunzia di violazione di non precisati principi generali del processo tributario è con tutta evidenza inammissibile per la sua totale mancanza di specificazione.

La denuncia di carenza e contraddittorietà della motivazione si indirizza al passo della sentenza impugnata in cui la Commissione tributaria centrale ha affermato che "l’onere probatorio relativo alla natura e alla inerenza di tali costi quali risultanti dalle fatture in atti non poteva che incombere sull’ufficio, che avrebbe dovuto contestare puntualmente tali qualità in merito a quanto esibito dalla contribuente e non limitarsi incongruamente ad addurre vizi della pronuncia di secondo grado per non aver verificato analiticamente e per non aver fatto verificare all’organo accertatore la validità ai fini fiscali di quanto esibito".

Tale assunto – si legge nel ricorso – è illegittimo essendo stato costantemente ribadito dalla giurisprudenza della Cassazione che incombe sul contribuente l’onere della prova dei presupposti per la deducibilità dei costi e oneri concorrenti alla determinazione del reddito di impresa, e quindi la prova della loro inerenza e della loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi".

L’Agenzia delle entrate osserva che "invero (…) in sede di accertamento, l’Ufficio aveva richiesto la distinta e la documentazione di tutti i costi patrimoniali ed economici e il contribuente, pur rispondendo al questionario mod. 55, aveva fornito solo in sede contenziosa e precisamente in secondo grado ulteriore documentazione, peraltro manchevole di "pezze d’appoggio".

Va qui subito osservato, con riguardo a quest’ultimo rilievo, che esso è inconferente, dato che la fattispecie è regolata dalle norme precedenti alla L. 18 febbraio 1999, n. 28, art. 25 (secondo cui la mancata o incompleta risposta al questionario da parte del contribuente preclude, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, la considerazione a suo favore degli elementi non addotti). Secondo la disciplina vigente ratione temporis anche il contribuente che non avesse risposto al questionario – situazione che peraltro nella fattispecie non si era verificata – poteva far valere e documentare le sue deduzioni in giudizio.

Occorre anche rilevare, in secondo luogo, che l’agenzia non deduce la violazione di norme procedurali per quanto riguarda le dedotte nuove produzioni in appello.

Il ricorso ricorda che la decisione della Commissione di primo grado dava atto che la contribuente "pur avendo dato risposta al questionario Mod. 55, aveva prodotto in quella sede, in riferimento al rilievo relativo ai costi "una documentazione manchevole, cioè sfornita di pezze d’appoggio". Ma il ricorso prosegue dando espressamente "atto che detta documentazione è stata fornita (solo) in secondo grado -e sostenendo poi che il giudice tributario, peraltro, quale giudice del rapporto, avrebbe dovuto e potuto valutare la sussistenza delle condizioni previste per la deducibilità dei costi.

Il ricorso appare quindi essenzialmente incentrato sul rilievo che, pur ammessa la prova dei costi, non è stata verificata la deducibilità degli stessi. Per implicito viene sostenuto anche che tale verifica avrebbe dovuto essere fatta dal giudice anche in assenza di specifiche contestazioni al riguardo da parte dell’ufficio.

Il ricorso prosegue infatti affermando che qui non si poneva il problema di carattere generale in ordine al riparto dell’onere della prova.

Tale osservazione, mentre trova corrispondenza nella mancanza di una denunzia di violazione dell’art. 2697 cod. civ., contribuisce a rendere poco comprensibile l’impostazione censoria del ricorso. Lo stesso afferma infatti che il problema era quello di verificare se – con la documentazione offerta (solo) in secondo grado – il contribuente avesse in concreto fornito gli elementi documentali per ottenere la deduzione, ossia si poneva il problema di valutare la concreta idoneità dei documenti offerti al fine predetto.

Correttamente pertanto l’Ufficio aveva censurato dinanzi alla C.T.C., la carenza di motivazione della Commissione di secondo grado. Ed in effetti, trattandosi di giudizio a cognizione piena, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto offrire una motivazione congrua in ordine alla idoneità della stessa soddisfare le condizioni di legge.

Secondo l’agenzia ricorrente spettava alla Commissione tributaria regionale prima e alla Commissione tributaria centrale poi, quali giudici del rapporto, verificare se la discrepanza tra costi e ricavi dava luogo a reddito sotto altro profilo.

Come il ricorso quindi appare riconoscere, la Commissione tributaria centrale, e prima di essa, la Commissione tributaria regionale, non hanno fondato la loro decisione assegnando all’Ufficio l’onere di provare la insussistenza in fatto di oneri deducibili ovvero la insussistenza delle condizioni di fatto idonee a consentirne la deduzione. La espressione testuale che il ricorso trascrive dalla pronunzia della Commissione tributaria centrale presa a sè e nel suo significato letterale è certamente imprecisa, ma, così intesa, essa non corrisponde alla ratio decidendi effettiva della sentenza impugnata. Ed è alla ratio decidendi effettiva e non alla forma rappresentativa di essa che occorre aver riguardo per verificare la legittimità o meno della pronunzia giurisdizionale.

La Commissione tributaria centrale fornisce un resoconto molto preciso della vicenda processuale e delle posizioni che le parti avevano assunto in ordine alla questione ora sottoposta alla Corte.

Vi si legge che la Commissione tributaria provinciale su tale punto aveva respinto il ricorso in quanto, "pur avendo la società inviato la risposta al questionario mod. 55, in assenza di deduzioni da parte dell’Ufficio si è venuta a trovare nell’impossibilità di effettuare ogni necessario riscontro". Tale pronunzia era stata ribaltata dalla Commissione tributaria regionale e davanti alla Commissione tributaria centrale l’ufficio si era lamentato che il giudice di secondo grado non avesse "verificato analiticamente la natura , l’afferenza, la certezza e l’inerenza dei costi quali risultanti dalla documentazione prodotta dalla società".

A fronte di questa impostazione – sostanzialmente riprodotta nel ricorso per cassazione – meglio si comprende il vero significato e l’ineccepibile correttezza della considerazione espressa dalla Commissione tributaria centrale e censurata dall’agenzia ricorrente.

L’onere che il giudice di terzo grado ha giustamente attribuito all’amministrazione finanziaria non è quello probatorio ma quello di contestazione (specifica) della documentazione prodotta dalla contribuente su richiesta dell’ufficio. In una procedura improntata al principio del contraddittorio, quale quella prefigurata, anche prima della riforma del 1999, con la richiesta di informazioni e documenti mediante questionari ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 una volta che il contribuente abbia ottemperato alla richiesta di chiarimenti, informazioni e documenti, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di contestarne in modo specifico la completezza, la veridicità, l’idoneità probatoria, la qualificazione giuridica del fatto rappresentato e più in generale la "correttezza" in termini di effettiva deducibilità dei costi così documentati. E’ solo dopo l’adempimento di tale onere di contestazione che può sorgere, in capo al contribuente, l’onere di provare le circostanze di fatto rilevanti per smentire le contestazioni dell’ufficio.

Nè si comprende quale rilievo potrebbe avere il fatto che alcuni di tali documenti sarebbero stati prodotti solo in appello: la controparte aveva ugualmente la possibilità e l’onere di esaminarli e di controdedurre in ordine ad essi.

La tesi poi, sostenuta dall’Agenzia delle entrate , che tale compito (compreso quello di verificare la deducibilità dei costi documentati) spetti al giudice appare attribuire a quest’ultimo una funzione inquirente attiva che egli certamente non ha, dovendo il giudice decidere secondo le allegazioni delle parti.

Quanto al secondo motivo (con cui si denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 598 del 1973, art. 12. Motivazione omessa e contraddittoria su un punto decisivo della controversia"), il ricorso espone che secondo costante giurisprudenza di codesta Corte "il maggior valore iscritto in bilancio e attribuito al cespite attraverso la patrimonializzazione di costi non documentati e non inerenti è comunque recuperabile a tassazione in qualità di plusvalenza iscritta, indipendentemente dalla cessione dei beni e della distribuzione ai soci, secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 598 del 1973, art. 12. Infatti tale patrimonializzazione determinerebbe, se non tempestivamente rilevata e tassata, una corrispondente area di franchigia nella eventuale plusvalenza emergente al momento della eventuale cessione del bene, dato che la società precostituirebbe in più favorevole valore di riferimento senza avere scontato alcuna imposta" (Cass., S.U., 1997 n. 5290 e Cass. n. 373/2006).

Il motivo ha come presupposto l’insussistenza dei costi e quindi resta assorbito da quanto deciso in ordine alla censura precedente.

Il ricorso deve quindi essere respinto con conseguente condanna dell’Agenzia delle entrate alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

– rigetta il ricorso;

– condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese liquidate in complessivi 3000 Euro, di cui 100 Euro per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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