CGA – SEZ. GIURISDIZIONALE – 21 aprile 2010, n.558. In materia di acquisizione sanante.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

F A T T O e D I R I T T O

1. – Giunge in decisione l’impugnazione interposta dalla V. s.a.s. (d’ora in poi “V.”) contro la sentenza, di estremi specificati in epigrafe, con la quale il T.A.R. della Sicilia, sede di Palermo, ha respinto il ricorso, promosso in primo grado dall’odierna appellante, onde ottenere per l’annullamento (e il conseguente risarcimento del danno) dei seguenti atti:

a) il provvedimento ai sensi dell’art.43 del D.P.R. n. 327/2001, adottato con determinazione dirigenziale n. 77 dell’11 marzo 2007, con il quale il Comune di Palma di Montechiaro ha disposto l’acquisizione al proprio patrimonio indisponibile del Castello Chiaramontano di Montechiaro di proprietà della appellante;

b) la nota n. 12 gab. del 1° febbraio 2007, con la quale il Sindaco del predetto Comune ha impartito al capo dell’Ufficio tecnico una direttiva al fine avviare il procedimento volto all’acquisizione del Castello succitato ai sensi del sunnominato art. 43;

c) l’ordinanza dirigenziale n. 29 del 21 marzo 2007 con la quale il dirigente dell’Ufficio tecnico comunale ha disposto il deposito delle some dovute per risarcimento del danno in relazione all’atto di acquisizione in parola;

d) nonché la nota, prot. n. 462, del 6 marzo 2007 della Soprintendenza BB.CC.AA.; il provvedimento, prot. n. 22175 dell’8 marzo 2007 con cui l’Assessorato regionale BB.CC.AA. ha autorizzato il Comune di Palma di Montechiaro ad avviare la procedura prevista dall’art.43 D.P.R. n. 327/2001 e a porre in essere gli atti del relativo procedimento; la delibera di G.M. n. 37/2007 del 10 marzo 2007; la nota 11926/1234/96 del 22 novembre 1996, recante la valutazione, da parte dell’Ufficio del territorio di Agrigento, del Castello Chiaramontano, stimato in lire 175.000.000.

2. – Si sono costituiti per resistere all’impugnazione l’Assessorato regionale, la Soprintendenza e l’Ufficio Territorio di Agrigento sopra indicati, nonché il Comune di Palma di Montechiaro.

3. – All’udienza pubblica del 17 dicembre 2009 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

4. – Giova premettere alla successiva esposizione delle ragioni che sorreggono la presente decisione una succinta ricostruzione della complessa vicenda sulla quale si è innestato l’appello in disamina. A tal fine può attingersi alla compiuta narrativa contenuta nella sentenza impugnata.

4.1. – Nel 1972 la società V. acquistò dagli eredi Tomasi di Lampedusa il Castello di Montechiaro.

L’immobile fu sottoposto a vincolo ai sensi della L. n. 1089/1939, con D.A. 6660 del 6 novembre 1992, successivamente integrato da altro D.A. n. 5680 del 13 marzo 1993.

4.2. – Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso il Comune di Palma di Montechiaro manifestò l’intenzione di acquistare il Castello, ma la trattativa con la V. non giunse a buon fine per mancato accordo sul prezzo di vendita.

4.3. – Il Comune di Palma di Montechiaro avviò la procedura finalizzata all’acquisto del Castello con i contributi previsti dalla L.R. n. 80/1977 e, su richiesta dell’Assessorato regionale competente, l’Uffi-cio del territorio di Agrigento (ex U.T.E.) rese una valutazione dell’immobile, quantificando in lire 175.000.000 il relativo valore alla data del 21 novembre 1996 (applicando il metodo del costo di costruzione deprezzato, più il valore dell’area di sedime e del fondo circostante), prezzo ritenuto non congruo dalla società appellante.

4.4. – Nel 2001 il Comune approvò un progetto di lavori di restauro, da eseguire in danno della V., giacché rimasta inadempiente rispetto agli ordini in tal senso della Soprintendenza.

4.5. – Il Comune iniziò altresì una procedura ablatoria per l’espropria-zione del manufatto, senza tuttavia dare comunicazione alla V. dell’avvio del procedimento.

4.6. – Per tutelarsi quest’ultima adì il T.A.R. della Sicilia che, con sentenza n. 1646/2005, annullò gli atti della procedura espropriativa. La sentenza fu confermata in parte da questo C.G.A. con la decisione n. 788 del 27 dicembre 2006: in dettaglio, l’appello del Comune fu accolto nella parte relativa alla legittimità dell’approvazione del progetto di restauro in danno della V. (tenuta, per l’effetto, a corrispondere all’Amministrazione le somme spese), mentre l’impugnazio-ne fu respinta nella parte riguardante la procedura ablatoria, stante l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

4.7. – Successivamente il Comune, con determinazione dirigenziale n. 77 dell’11 marzo 2007, dispose, in applicazione dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Castello Chiaramontano di Montechiaro.

4.8. – La V. ricorse nuovamente al T.A.R. della Sicilia, chiedendo l’annullamento della suddetta determinazione e degli altri atti sopra indicati, formulando altresì una domanda risarcitoria in forma specifica, con richiesta di condanna dell’Amministrazione alla restituzione del bene, oltre che alla riparazione dei danni per il mancato godimento dello stesso fino all’effettiva restituzione e, in via gradata, chiese il risarcimento del danno rappresentato dalla perdita della proprietà dell’immobile.

4.9. – In prossimità dell’udienza pubblica di discussione avanti al T.A.R., il Comune di Palma di Montechiaro depositò una istanza ai sensi dell’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 327/2001, domandando che fosse escluso l’obbligo della restituzione del bene acquisito, e che, se del caso, fosse disposta unicamente la condanna al risarcimento del danno.

5. – Il T.A.R. ha respinto il ricorso della V. e, per l’effetto, ha dichiarato improcedibile la richiesta del Comune ex art. 43 del D.P.R. n. 327/2001.

6. – Avverso la sentenza la V. ha dedotto plurimi mezzi di gravame.

7. – In via preliminare debbono essere scrutinate le eccezioni di irricevibilità dell’appello sollevate sia dal Comune sia dall’Avvocatura dello Stato.

7.1. – Sul punto l’ente civico ha eccepito l’irricevibilità dell’impugnazione, notificata presso il domiciliatario del Comune soltanto l’8 luglio 2009, sul presupposto della intervenuta pubblicazione della sentenza appellata in data 3 marzo 2009: di qui la deduzione dell’inosservanza del termine di centoventi giorni dal deposito della pronuncia avversata.

7.2. – Dal canto suo, la difesa della Regione ha rilevato di aver notificato la sentenza alla V. il 3 aprile 2009 e di aver ricevuto la notifica dell’appello solo in data 1° luglio 2009 e, quindi, oltre il termine di legge.

7.3. – L’eccezione del Comune è infondata. Sulla base dei documenti in possesso del Collegio emerge che il primo tentativo di notifica dell’appello risale al 26 giugno 2009, data nella quale gli atti da partecipare all’amministrazione furono consegnati all’Ufficiale giudiziario. Orbene, giacché la notificazione è stata effettuata avvalendosi del servizio postale, essa a norma dell’art. 149 c.p.c. (siccome modificato dalla L. n. 263/2005 sulla scia della sentenza della Corte costituzionale n. 477/2002), deve pertanto ritenersi tempestiva. Non rileva invero, ai fini della ricevibilità, che tale primo tentativo di notifica non sia andato a buon fine per trasferimento medio tempore del domiciliatario, non emergendo dagli atti la prova certa della conoscenza, in capo alla V., dell’intervenuto trasferimento. Tale prova (il cui onere ricade su chi eccepisce l’eccezione di tardività) costituisce difatti un elemento imprescindibile ai fini della dichiarazione dell’irricevibilità.

7.4. – Lo scrutinio dell’eccezione dell’Avvocatura erariale si presenta di maggiore problematicità.

7.5. – Nella memoria depositata dalla V. il 1° dicembre 2009 si deduce, in sostanza, la falsità della relata di notifica dalla quale risulta l’avvenuta consegna, in data 3 aprile 2009, di copia della sentenza impugnata al domiciliatario della società appellante, avv. Leonardo Cucchiara, in Palermo, viale Regina Margherita, n. 42.

Sostiene la V. di non aver mai ricevuto tale notifica, giacché in realtà effettuata dall’Ufficiale giudiziario in via Oberdan n. 5, presso lo studio di altro professionista, peraltro a mani di persona non dipendente del predetto avv. Cucchiara.

7.6. – Onde corroborare le proprie argomentazioni la V. ha tra l’altro prodotto una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, sottoscritta da certo signor Franco Caliò, qualificatosi come addetto all’UNEP presso la Corte di appello di Palermo, nella quale – contrariamente al riferito contenuto della relata in discorso – risulta affermato quanto segue: «… preciso di aver eseguito la … notifica in Palermo nella via Oberdan n. 5 presso lo studio dell’avv. …, dove in altre occasioni avevo effettuato notifiche indirizzate all’avv. Cucchiara».

7.7. – La V. ha pertanto concluso per la tempestività dell’appello e, in subordine, ha chiesto di essere rimessa in termini in applicazione dell’istituto dell’errore scusabile, stante la “svista” nella quale sarebbe incorso l’Ufficiale giudiziario; l’appellante ha comunque richiesto la concessione di un termine ai sensi dell’art. 41 del R.D. n. 642/1907 allo scopo di poter instaurare, avanti al competente giudice ordinario, un giudizio per querela di falso.

7.8. – Secondo una diversa traiettoria argomentativa la V. ha anche prospettato al Collegio la possibilità di considerare l’appello solo parzialmente tardivo (ovvero unicamente nei confronti dell’Assessorato regionale), sostenendo la tesi della natura scindibile della controversia promossa nei confronti delle due amministrazioni appellate, regionale e comunale.

7.9. – L’ultima argomentazione è palesemente infondata. Diversamente da quanto opinato dalla V., la causa sottoposta al vaglio del Collegio non è affatto scindibile per l’evidente ragione che il Comune di Palma di Montechiaro ha disposto l’acquisizione dell’immo-bile ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 anche sul presupposto rappresentato dall’autorizzazione assessorile dell’8 marzo 2007 (impugnata in prime cure). Sussiste, pertanto, una connessione oggettiva tra i vari atti gravati che è di ostacolo a qualunque artificiosa separazione delle questioni devolute in appello.

7.10. – Il Collegio non può inoltre condividere la bonaria valutazione del comportamento dell’Ufficiale giudiziario alla stregua di una semplice “svista”. Ed invero, la richiesta di notifica era inequivocabile “All’Avv. Leonardo Cucchiara n.q. di proc. cost. della V. s.a.s. nel domicilio eletto presso il suo studio in Palermo via R. Margherita n. 42 ivi recandomi e consegnandone copia a mani di”.

E’ poi incomprensibile come tale specifica indicazione possa essere disattesa dall’ufficiale giudiziario il quale, come dianzi rilevato ha dichiarato di aver consegnato l’atto in Palermo, via Oberdan n. 5.

Peraltro, anche qualora corrispondessero al vero le dichiarazioni rese dal predetto ufficiale, si sarebbe in presenza, quanto meno, di una grave negligenza, suscettibile di valutazione e di sanzione da parte dell’organo di vigilanza.

La vicenda in ogni caso merita di essere segnalata anche all’Autorità giudiziaria inquirente, in considerazione delle consistenti perplessità in ordine al contenuto delle suddette dichiarazioni.

7.11. – Per tali ragioni appare doveroso disporre, a cura della segreteria di questo C.G.A., l’invio di copia della presente decisione al signor Presidente della Corte di appello di Palermo, a norma dell’art. 59 del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, per i profili attinenti alla sorveglianza e alla disciplina sugli Ufficiali giudiziari nonché, ai sensi dell’art. 331, comma 4, c.p.p., al signor Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo per gli eventuali aspetti di rilievo penale.

7.12. – Nonostante le superiori considerazioni il Collegio ritiene comunque di poter considerare ammissibile l’impugnazione. Ed invero, promana da una lettura costituzionalmente orientata delle norme processuali il dovere, per ogni giudice della Repubblica, di prediligere le opzioni esegetiche e applicative che risultino maggiormente coerenti con i principi di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.) e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

In forza delle richiamate coordinate ermeneutiche occorre verificare in quali termini si atteggi l’obbligo di sospendere il giudizio amministrativo quando sia proposta querela di falso (o richiesto un termine per la relativa proposizione).

Al riguardo va osservato che detto obbligo, ancorché sancito da norme di rango primario (tale è notoriamente anche il R.D. n. 642/1907; cfr. Corte cost. 9 dicembre 2005, n. 441), si presenta recessivo di fronte ai surrichiamati cogenti canoni costituzionali ogniqualvolta la domanda proposta al giudice competente in ultima istanza a decidere della controversia (quale è il C.G.A.) si riveli manifestamente infondata nel merito (come nella fattispecie; sul punto, v. la successiva motivazione). Al ricorrere di queste condizioni difatti la sospensione del presente giudizio al solo fine di giungere, al più (ed eventualmente, ossia nell’ipotesi di un ipotetico accoglimento della querela), allo svolgimento di uno scrutinio di merito che può essere compiuto fin d’ora, lungi dal costituire una reale garanzia per la società appellante, si risolverebbe in un inutile aggravamento processuale, svantaggioso per tutte le parti in lite, in quanto idoneo unicamente ad allontanare nel tempo il momento della stabilizzazione, in tutto o in parte, degli effetti della sentenza di primo grado o, alternativamente, a differire l’epoca della futura proponibilità dei residui rimedi attivabili contro la decisione d’appello.

Muovendo da una diversa prospettiva, mette conto considerare che il concetto di “rilevanza” di un documento ai fini del decidere (di cui all’art. 222 c.p.c.) può e deve esser calibrato sulla natura e sul contenuto della pronuncia che il giudice ritiene in via prognostica di dover adottare nel caso concreto sottoposto al suo scrutinio, di guisa che, rispetto allo scenario di una possibile definizione della controversia nel merito (come nella specie), la relata di notificazione della sentenza della quale sia controversa la veridicità non può reputarsi documento rilevante ai fini, per l’appunto, dell’esame dei profili di merito per la controversia; per contro, l’ipotetico futuro rigetto della querela di falso non migliorerebbe affatto la posizione delle parti appellate, mentre priverebbe l’appellante della possibilità di veder esaminata compiutamente, per una seconda volta, la sua domanda.

Per tutto quanto sopra osservato il dovere di somministrare una pronta ed effettiva giustizia autorizza e, anzi, obbliga il Collegio, quale giudice di ultima istanza, a procedere direttamente all’esame del merito della controversia, ritenendo la suddetta relata non rilevante ai fini della decisione.

8. – Tanto necessariamente premesso, si spiegano, di seguito, le ragioni della manifesta infondatezza dell’appello.

9. – Con una prima censura la V. deduce che il T.A.R. avrebbe giudicato legittimo il provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, nonostante quest’ultimo fosse stato adottato dopo l’intervento di una pronuncia costitutiva del giudice amministrativo recante, in via definitiva, l’ordine rivolto all’ammi-nistrazione di restituire l’immobile. Tale obbligo, in particolare, sarebbe scaturito dalla citata decisione di questo C.G.A. n. 788/2006, contenente expressis verbis una statuizione in ordine alla restituzione del Castello.

9.1. – La doglianza non coglie nel segno per due convergenti ragioni.

9.2. – La giurisprudenza amministrativa ha sì in più occasioni affermato il principio, qui meritevole di conferma, secondo il quale il potere di acquisizione in disamina incontra un limite insuperabile nel passaggio in giudicato della dichiarazione giurisdizionale del diritto dei proprietari alla restituzione del bene immobile conteso (cfr., tra i molti precedenti, si cita Cons. St., sez. IV, 17 febbraio 2009, n. 915), ma il suddetto principio non trova applicazione nei casi, come quello di specie, in cui a) la condanna alla restituzione non sia ancora irrevocabile al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione, e b) l’obbligo alla restituzione, seppur promanante da una pronuncia giudiziaria, si presenti sospensivamente condizionato e la relativa condizione non si sia verificata.

9.3. – Quanto al primo aspetto, va osservato che il Comune appellato ha eccepito – e la circostanza non è stata contestata – che la V. ebbe a proporre ricorso per cassazione contro la decisione n. 788/2006 e che tale impugnazione fu definita in data 29 luglio 2008, ossia ben dopo l’emanazione dell’atto avversato. Quest’ultimo pertanto venne a giuridica esistenza prima della completa formazione del giudicato, non apparendo contestabile che le decisioni di questo Consiglio (al pari di quelle del Consiglio di Stato) passino in cosa giudicata soltanto dopo la pronuncia del Supremo Collegio (qualora risulti contro di esse proposto un ricorso per motivi di giurisdizione).

9.4. – In ordine al secondo profilo è sufficiente osservare che la decisione n. 788/2006 statuì sulla restituzione, ma del pari sottopose il relativo obbligo del Comune appellato alla condizione sospensiva del pagamento, da parte della V., delle spese, sopportate dall’ente civico, relative all’esecuzione in danno della società ricor-rente dei lavori di ristrutturazione. L’esistenza di detta condizione è ampiamente argomentata nella decisione di questo Consiglio n. 1066/2007 che, non a caso, ha dichiarato inammissibile il ricorso della V. mirante a ottenere, in esecuzione della pronuncia n. 788/2006, la restituzione del Castello di Palma di Montechiaro. Si considerino al riguardo le seguenti considerazioni: «(…) la decisione da eseguire, quanto alla restituzione dell’immobile, dispone che “… l’immobile per cui è causa dovrà essere restituito alla V. s.a.s., che ne è tuttora la legittima proprietaria; la quale società resta comunque tenuta al pagamento delle somme spese per il restauro dell’immobile, legittimamente effettuato “in danno” della proprietaria rimasta inerte”.

In tal senso, sussiste un nesso inscindibile tra la restituzione dell’immobile ed il contestuale pagamento delle somme spese dal Comune per il restauro dello stesso.

Nella specie, invece, la V. s.a.s. ha avviato l’azione di esecuzione della decisione, per ottenere la restituzione del bene, non ottemperando, da parte sua, contestualmente al pagamento delle somme spese dal Comune per il suo restauro.

Pertanto, in sede di diffida all’esecuzione della decisione, la V. s.a.s. avrebbe dovuto se non corrispondere, quantomeno, formulare l’offerta reale delle somme in questione.

Pertanto, in assenza del necessario presupposto esecutivo, il ricorso in epigrafe va dichiarato inammissibile.» (così la decisione n. 1066/2007 cit.).

Orbene, non emerge dagli atti del presente giudizio (ed, anzi, come osservato, la circostanza è esclusa dalla riferita decisione n. 1066 del 24 ottobre 2007) che la V. abbia mai versato al Comune detti importi (o, quanto meno, che essi siano stati corrisposti prima dell’adozione dell’atto di acquisizione).

9.5. – Al lume dei superiori dirimenti rilievi può dunque tranquillamente dichiararsi l’infondatezza del primo motivo di impugnazione, non rilevando in contrario gli inconferenti (nel caso in esame) principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo invocati dalla V..

10. – Con una seconda censura la società appellante sostiene che l’acquisizione sanante non sarebbe esperibile nei confronti di beni culturali (quale è il Castello in discorso) e ciò perché l’istituto non sarebbe contemplato dagli artt. 95, 96, 97 e 100 del D.Lgs. n. 42/2004 e 52 del D.P.R. n. 327/2001 né con essi compatibile.

10.1. – La tesi è da disattendere. La normativa invocata dalla V. a sostegno della doglianza non reca affatto un’univoca indicazione nel senso della preclusione del ricorso all’istituto dell’acquisi-zione sanante per l’ablazione dei beni culturali. Piuttosto la suddetta normativa circoscrive il rinvio alle disposizioni generali in materia di espropriazione per pubblica utilità nei limiti della compatibilità con quelle sui beni culturali.

Non vi è dubbio però che l’acquisizione sanante sia un istituto di carattere generale avente la specifica finalità di far conseguire all’amministrazione pubblica un bene anche nel caso del mancato esito fruttuoso di procedure espropriative in precedenza svolte. Il Collegio non ravvisa pertanto alcun ostacolo all’applicabilità dell’istituto nelle ipotesi in cui la medesima esigenza acquisitiva venga in rilievo in rapporto a beni culturali. Sarebbe del resto illogico e non costituzionalmente orientato un diverso opinare giacché – come condivisibilmente osservato dal T.A.R. – i beni culturali (per di più, nella specie, già vincolati) sono maggiormente bisognosi di una tutela pubblica, soprattutto se compromessi sul piano strutturale o funzionale; avrebbe quindi poco senso consentire il ricorso al succitato art. 43 per tutti i beni e negarlo unicamente per i beni culturali. Non a caso il provvedimento impugnato richiama a proprio fondamento anche gli artt. 85, 96, 98 e 100 del D.Lgs. n. 42/2004.

In assenza di un espresso divieto (del quale comunque la V. non ha saputo indicare l’esatta fonte normativa), l’argomento difensivo dell’asserita inapplicabilità dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 ai beni culturali non trova dunque alcun supporto nel diritto positivo.

10.2. – In aggiunta a quanto già osservato occorre inoltre segnalare – e si tratta di un profilo di per sé decisivo – che l’art. 21, terzo comma, della L.R. n. 80/1977 (Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali ed ambientali nel territorio della Regione siciliana), norma che integra la base legislativa sulla quale poggia il provvedimento amministrativo impugnato in prime cure, prevede che: «(g)li enti locali nel cui territorio ricade l’edificio o il bene culturale sono autorizzati, previa deliberazione del consiglio, adottata con maggioranza assoluta dei consiglieri, a procedere all’acquisto "ed al restauro" degli stessi beni sulla base della valutazione del competente ufficio tecnico erariale». Ebbene, questo Consiglio, nella pronuncia n. 788/2006, ha interpretato il termine “acquisto” come comprensivo delle ipotesi di acquisizione in via coattiva, al cui novero appartiene indubbiamente anche la fattispecie disciplinata dal suddetto art. 43.

11. – Con una terza lagnanza l’appellante afferma che il citato art. 43 riguarderebbe solo i terreni e non anche i fabbricati.

11.1. – Contro tale esegesi militano plurimi, convergenti argomenti di segno contrario.

11.2. – Innanzitutto la norma, al pari dell’art. 1 dello stesso decreto, usa l’espressione «bene immobile», sicuramente riferibile sia ai terreni sia ai fabbricati.

11.3. – Inoltre la circostanza che i commi 5 e 6 dell’art. 43 dettino previsioni specifiche per i terreni non autorizza l’interprete a ritenere, in difetto di contrarie indicazioni normative e stante la riferita ampiezza semantica del primo comma della stessa disposizione, che l’acquisi-zione sanante non sia esperibile per gli edifici. Non si ravvisano difatti i presupposti per approdare a tale conclusione sulla base dell’argumentum a contrario.

12. – Con l’articolato quarto mezzo di gravame la V. eccepisce l’incompetenza del Comune di Palma di Montechiaro ad adottare l’atto impugnato, in quanto asseritamente privo di attribuzioni istituzionali nella materia dei beni culturali.

Soggiunge l’appellante che il suddetto vizio non potrebbe reputarsi sanato dal provvedimento, prot. n. 22175 dell’8 marzo 2007, con il quale l’Assessorato regionale BB.CC.AA. avrebbe autorizzato il Comune ad avviare la procedura prevista dall’art. 43 del D.Lgs. n. 327/2001 e ciò per due ragioni: innanzitutto perché l’Assessorato non avrebbe compiuto alcuna valutazione degli interessi in conflitto e, soprattutto, perché la suddetta amministrazione avrebbe illegittimamente disposto una delega dell’esercizio di funzioni riservate alla Regione in forza dell’art. 31, comma 2, lett. i), della L.R. 15 maggio 2002, n. 10 (non essendo stata ancora emanata la legge regionale recante l’individuazione delle funzioni e dei compiti in materia di beni culturali delegabili ai Comuni).

12.1. – La censura è del tutto priva di pregio. L’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 è chiaro nell’imputare una competenza specifica all’ado-zione dell’atto di acquisizione in capo all’«autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico». Erroneamente dunque la V. invoca la pretesa competenza diretta del Ministero dei beni culturali o, rectius, in Sicilia (in base allo Statuto e ai DD.PP.RR. nn. 635 e 636 del 1977), dell’Assessorato sopra nominato, in quanto le predette autorità sono competenti per l’ordinario procedimento ablatorio.

Inoltre, nonostante gli inani sforzi argomentativi dell’appellante è assolutamente incontrovertibile che, nella fattispecie, il Comune di Palma di Montechiaro – oltre ad aver realizzato le opere di restauro e di consolidamento indispensabili per porre rimedio alla protratta incuria gestionale della società appellante – fosse altresì l’unico ente ad utilizzare proficuamente il Castello. Nemmeno è confutabile che tale uso rispondesse effettivamente a un interesse pubblico: invero sussiste certamente l’interesse della collettività di Palma di Montechiaro a fruire di una struttura per lo svolgimento di attività culturali polivalenti e congressi, vieppiù destinata a museo del territorio, sale espositive, santuario della Madonna del Castello (la cui statua è notoriamente oggetto di diffusa e profonda devozione popolare).

D’altro canto è idonea a fugare ogni residua perplessità in ordine all’infondatezza della censura la considerazione che il Comune si è anche fatto carico di ottenere dal predetto Assessorato, ai sensi dell’art. 95 del D.Lgs. n. 42/2004, il surrichiamato provvedimento di autorizzazione del 2007 e che un parere favorevole all’acquisizione ebbe a rendere pure la Soprintendenza (con atto n. 462 del 6 marzo 2007), condividendo la sussistenza degli scopi per l’utilizzo d’interesse pubblico del bene.

Inoltre, diversamente da quanto opinato dalla V., l’atto dell’Assessorato non è affatto una delega di funzioni (che non vi è stata né avrebbe potuto disporsi stante l’inequivoco tenore dell’art. 43), ma, per l’appunto, un’autorizzazione ai sensi del citato art. 95, ossia l’esplicitazione, da parte dell’autorità provvista di competenze generali in materia di tutela dei beni culturali, dell’inesistenza di ragioni contrarie all’esercizio della potestà (nel caso in esame, comunale) di ablazione.

13. – Con la quinta doglianza la V. sostiene che il dirigente dell’Ufficio espropri fosse incompetente ad adottare l’atto in questione, spettando invece la relativa competenza al Consiglio comunale ai sensi dell’art. 21 della L.R. n. 80/1977.

13.1. – La censura è priva di pregio. Come già osservato dal T.A.R. con argomentazioni pienamente condivisibili, l’art. 6, comma 7, del D.P.R. n. 327/2001 assegna la competenza in ordine ai provvedimenti ablativi – categoria alla quale indiscutibilmente appartiene, come già osservato, anche l’atto previsto e disciplinato dall’art. 43 del citato decreto – è del dirigente dell’ufficio per le espropriazioni, a nulla rilevando la distinta competenza del Consiglio sulle variazioni di bilancio. D’altronde, nel provvedimento impugnato si dà atto di tre precedenti delibere del consiglio comunale (le nn. 209/89, 40/96, 87/99) con le quali si era già deciso all’unanimità di acquisire il bene e nemmeno può obliterarsi l’esistenza di una ulteriore delibera di Giunta comunale (la n. 37 del 10 marzo 2007) con la quale si è autorizzato il sunnominato dirigente a procedere all’acquisizione in considerazione del prevalente interesse pubblico all’adozione di tale atto (il cui schema del resto è stato contestualmente approvato dalla Giunta).

Risulta inoltre rispettato anche l’art. 21 della L.R. n. 80/1977, invocato dall’appellante, in quanto la disposizione si limita a prescrivere una preventiva delibera del Consiglio comunale e non l’adozione diretta dell’atto, tanto più quando tale attività giuridica sia riservata per legge a un diverso organo dell’ente.

14. – Con gli ultimi quattro motivi la V. nega, sotto vari profili, la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato e, segnatamente, deduce che:

a) il T.A.R. avrebbe erroneamente affermato, senza compiere alcuna preventiva, adeguata istruttoria, che il Castello, all’epoca dell’acquisto avvenuto nel 1973, fosse un rudere;

b) i lavori di restauro conservativo eseguiti dal Comune non comportarono alcuna rilevante «modifica» ai sensi dell’art. 43 succitato;

c) non sussisteva, all’epoca dell’acquisizione sanante, alcuna reale utilizzazione del bene per scopi di pubblico interesse, non essendo stati ancora completati i lavori e difettando persino il collaudo statico e tecnico-amministrativo dell’immobile;

d) il Comune e il T.A.R. non avrebbero correttamente valutato gli interessi, pubblici e privati, in conflitto;

f) erroneamente il T.A.R. avrebbe respinto la censura con la quale si era contestata la determinazione del danno risarcibile a fronte dell’acquisizione, avendo il primo Giudice ritenuto congrua la metodologia di computo essenzialmente basata su una valutazione, peraltro parziale, compiuta dall’U.t.e. circa 11 anni prima dell’adozione dell’atto impugnato e senza tener conto dei pregi storici, artistici e ambientali dell’immobile e del valore della scultura, denominata “Madonna del Castello”, asseritamente di proprietà della stessa V..

14.1. – Le deduzioni indicate sub a) e b), considerata la loro evidente connessione logica, possono essere trattate congiuntamente.

14.2. – È infondata la tesi secondo la quale sarebbe mancata, nella specie, una modifica del bene «in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», siccome richiesta dall’art. 43. La previsione del requisito oggettivo dell’inter-venuta modifica del bene risponde invero all’evidente finalità di scongiurare il prodursi del pregiudizio economico rappresentato dalla definitiva perdita, da parte dell’amministrazione, di utilità connesse ad opere o lavori realizzati, con denaro pubblico, sull’immobile oggetto di acquisizione.

Il Legislatore ha così inteso contemperare la tutela della proprietà privata con l’esigenza di evitare lo spreco di risorse finanziarie pubbliche.

Non occorre pertanto, ai fini dell’applicazione dell’art. 43, una rilevante modifica del bene e, tanto meno, la sua irreversibile trasformazione, ma unicamente l’esistenza di apprezzabili immutazioni, economicamente valutabili, realizzate in forza del correlativo impiego di fondi pubblici. Lo scopo, insomma, è di non disperdere le utilità comunque scaturite dall’intervento della pubblica amministrazione.

Calando le superiori considerazioni al caso di specie, è del tutto evidente come il Comune di Palma di Montechiaro abbia operato una modificazione del manufatto, certamente rilevante ai fini dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, attesa la valorizzazione del Castello conseguente agli interventi di restauro conservativo.

Da disattendere è dunque l’obiezione volta a contestare che, nel 1973, il Castello fosse un mero rudere (a prescindere dal dato incontrovertibile delle pessime condizioni nelle quali esso versava, tenuto conto delle diverse diffide della Soprintendenza onde spingere, vanamente, la V. a dar corso al restauro del manufatto): infatti l’intervento sostitutivo del Comune, di significativo spessore economico (prossimo ai due miliardi di lire), avrebbe comunque giustificato, a prescindere cioé da quali fossero esattamente le condizioni del Castello, l’attivazione dell’ente civico al fine di conservare all’utilità della collettività di Palma di Montechiaro i vantaggi derivanti dal consolidamento della costruzione.

14.3. – Non va incontro a miglior sorte l’altra argomentazione, incentrata sulla contestazione della sussistenza, all’epoca dell’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, di una utilizzazione del bene per scopi di pubblico interesse.

Emerge invero dagli atti di causa che il Comune ha intrapreso numerose attività che implicano l’utilizzo dell’immobile: orbene, la comprovata esistenza di siffatto uso implica la sussistenza del requisito previsto dall’art. 43, del D.P.R. n. 327/2001; in ordine poi all’obiezione circa l’asserita carenza del collaudo dei lavori disposti dal Comune, va osservato che la mera prospettazione di detta irregolarità (negata tuttavia dal Comune che si è dichiarato in possesso del certificato di collaudo provvisorio) potrebbe, al più, venire in rilievo sotto il profilo sanzionatorio, ma certamente non è idonea a porre nel nulla, tamquam non esset, una acclarata situazione di uso che giustifica il ricorso all’acquisizione sanante.

14.4. – Anche tenendo conto delle rigorose coordinate ermeneutiche tracciate dall’Adunanza plenaria nella decisione n. 2/2005, il Collegio non ritiene poi che difetti, nel provvedimento impugnato, una esaustiva valutazione dei vari interessi, pubblici e privati, in conflitto. Nell’atto in parola è ripercorsa in maniera analitica la pregressa vicenda che ha condotto all’acquisizione sanante. Ebbene, nella prospettiva dell’individuazione dell’interesse pubblico sottostante, vengono indubbiamente in considerazione i riferimenti ai motivi che indussero il Comune, per un verso, a intraprendere la procedura ablatoria (annullata) e, per altro verso, a impiegare ingenti risorse finanziarie pubbliche per restaurare e consolidare il bene onde restituirlo all’uso pubblico per “attività culturali polivalenti e congressi, museo del territorio, sale espositive, santuario della Madonna del Castello”.

Tale interesse è da considerarsi certamente prevalente rispetto a quello privato ad esso contrapposto. Quest’ultimo, innanzitutto, non è affatto individuabile, come sostenuto dalla V., nell’aspettativa di spuntare un equo risarcimento (tale giustificato interesse economico è semmai sorto per effetto e a causa dell’acquisizione sanante e dunque non è da tenere in conto ai fini di una valutazione ex ante dell’assetto degli interessi coinvolti nella vicenda); piuttosto, ad una interpretazione obiettiva degli accadimenti, la V. ha mostrato di avere unicamente interesse a minimizzare i costi per la società della proprietà (essendosi sempre sottratta al dovere, e ai connessi oneri, di restaurare il Castello) e a massimizzarne piuttosto il valore di scambio, giacché interamente privatizzabile. Solo in tempi recenti, dopo decenni di assoluto disinteresse, la V. ha proposto soluzioni – peraltro, mai concretizzatesi – per uno sfruttamento economico del bene: quest’ultime tuttavia, oltre ad essere poco credibili (in considerazione della pregressa e protratta inerzia serbata dalla società appellante, nonché della mancata rifusione degli oneri economici sostenuti dal Comune), apparivano (anche a prescindere dalle perplessità circa la loro effettiva sostenibilità) inidonee ad arrecare un prioritario vantaggio per la collettività di Palma di Montechiaro.

Sfugge pertanto a qualunque censura di eccesso di potere la valutazione con la quale il Comune ha ritenuto, nella specie, prevalente l’interesse all’attuale godimento pubblico del bene, in ragione della destinazione impressagli dallo stesso ente civico. È, insomma, certamente prioritario, rispetto alle finalizzazioni speculative private, l’interesse a preservare dal degrado un bene che, proprio per la sua natura di significativa testimonianza storica e culturale di Palma di Montechiaro, presenta un’obiettiva vocazione alla fruizione collettiva, sia in ragione della tradizionale venerazione popolare nei confronti dell’effigie della Vergine sia per la manifesta idoneità all’uso quale sede di attività museali e di aggregazione sociale.

14.5. – Infine va respinto l’ultimo motivo di appello con il quale si censurano le modalità con le quali il Comune ha calcolato l’entità del risarcimento del danno spettante alla V. in conseguenza dell’acquisizione.

Sono infatti meritevoli di integrale conferma le ampie e articolate argomentazioni con le quali il Giudice di primo grado ha giudicato il suddetto computo privo di mende e coerente con le disposizioni normative. In particolare, non evidenzia alcun eccesso di potere la circostanza che l’amministrazione civica abbia posto a base della determinazione del risarcimento la stima, peraltro mai impugnata dall’odierna appellante, fatta dall’U.t.e. nel 1996: ed invero, detta valutazione non si palesa illogica né inadeguata rispetto alle condizioni del bene, il cui valore era ovviamente da stimare al netto degli incrementi derivanti dalle innovazioni successivamente realizzate dal Comune. Tanto premesso, non è controvertibile che, nel 1973, il Castello non avesse ricevuto una valutazione autonoma rispetto ai fondi rustici ai quali accedeva (anzi, ha giustamente rilevato il T.A.R., che si trattava di ruderi comportanti un deprezzamento dei terreni); non emerge poi con certezza che la V. sia l’effettiva proprietaria della statua della Madonna del Castello e comunque il profilo è irrilevante perché la scultura, comunque priva di un reale valore commerciale, giacché non amovibile dal Castello del quale costituisce un elemento indissolubile in virtù dello specifico vincolo su di essa imposto, non ha costituito autonomo oggetto dell’acquisizione sanante, non essendovene evidentemente la necessità (stante l’esistenza del ridetto vincolo). Orbene, posto che la V., dopo aver acquistato il bene e fino all’intervento in via sostitutiva del Comune, non ha investito alcunché sull’immobile, lasciandolo in condizioni di totale abbandono, è del tutto ragionevole che il Comune, nel procedere alla quantificazione del risarcimento, abbia preso in considerazione, al netto degli incrementi e delle attualizzazioni, la stima compiuta dall’U.t.e. nel 1996, ossia l’unica – redatta da un organo terzo, tecnicamente competente e sulla base di dati tecnici oggettivi – relativa ad un periodo anteriore alla ristrutturazione.

15. – Al lume dei precedenti rilievi deve essere riconosciuta la piena legittimità dell’operato comunale e, pertanto, è da respingersi, per difetto dei presupposti, anche la domanda risarcitoria riproposta in appello dalla V..

16. – Ritiene il Collegio che ogni altro motivo od eccezione possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

17. – In conclusione, la sentenza impugnata si rivela immune dai vizi denunciati e merita integrale conferma, previo rigetto dell’appello.

18. – Il regolamento delle spese processuali del grado – liquidate come da dispositivo – segue la soccombenza. In particolare, reputati alla stregua di un’unica parte gli organi difesi dall’Avvocatura erariale, appare equa e congrua la condanna della V. alla rifusione di €. 7.500,00 (settemilacinquecento/00) per ciascun controinteressato costituitosi in giudizio, per complessivi 15.000 (quindicimila/00).

P. Q. M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello.

Condanna l’appellante alla rifusione, nei confronti delle controparti costituite, delle spese processuali del secondo grado del giudizio liquidate in complessivi €. 15.000,00 (quindicimila/00).

Manda la Segreteria della Sezione per gli aspetti di competenza.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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