Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 22-12-2010) 07-03-2011, n. 8903

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del G.u.p. del Tribunale di Brescia del 26 febbraio 2009, ha ridotto ad anni dodici e giorni ventisei di reclusione la pena inflitta a V.S., responsabile di una serie di rapine presso istituti di credito (capi B, C, F) e di sequestri di persona a scopo di estorsione nei confronti di dipendenti di agenzie di credito (capi A, D, E), nonchè del reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4 (capo G), tutti commessi in (OMISSIS), confermando la condanna alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena.

2. – Dalla sentenza risulta che il (OMISSIS) l’imputato avvicinava per strada V.S. e A.M., due dipendenti dell’Istituto di credito CREDEM di (OMISSIS) e sotto la minaccia di una pistola – in seguito risultata essere una pistola giocattolo – prendeva in ostaggio l’ A., intimando alla V. di rientrare in banca e di preparare la somma di Euro 70.000 in contanti da consegnargli secondo le istruzione che avrebbe ricevuto; la dipendente, rientrata in banca, informava il direttore dell’agenzia di credito, il quale avvisava la polizia, che predisponeva un’operazione diretta alla liberazione dell’ostaggio; nel frattempo il direttore riceveva per telefono le istruzioni dal V. per la consegna del denaro; sul luogo della consegna si recava il dirigente della squadra mobile, sostituendosi al direttore dell’agenzia;

entrato in contatto con il V. l’ufficiale di polizia giudiziaria gli consegnava la borsa che avrebbe dovuto contenere il denaro e una volta ottenuto il rilascio dell’ostaggio si qualificava ed intimava all’imputato di arrendersi, il quale, anche per l’intervento di altro personale di polizia giudiziaria, veniva arrestato. A questo punto il V. rendeva piena confessione in ordine alle altre rapine e sequestri di persona di cui all’imputazione, reati che risultavano a lui riconducibili sulla base delle identiche modalità poste in essere e della compatibilità della descrizione resa dalle vittime con i caratteri fisici dell’imputato.

3. – Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione.

3.1. – Con il primo motivo censura la sentenza impugnata per non avere sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 630 c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. questione che ripropone in questa sede.

Il ricorrente assume l’illegittimità costituzionale della norma perchè priva di una cornice sanzionatoria in grado di adeguare la pena da infliggere alle molteplici manifestazioni concrete di configurazione del reato: in particolare, ritiene che l’elevato minimo edittale, pari a venticinque anni di reclusione, unito alla mancata previsione di un’ipotesi di circostanza attenuante speciale per i casi di minore gravità, violi i principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost. In altri termini, lo scarto tra il minimo (25 anni) e il massimo (30 anni) della pena prevista finisce per punire in maniera sostanzialmente analoga condotte con significative differenze quanto a modalità e gravità. L’estrema severità della pena prevista dall’art. 630 c.p. appare, nella ricostruzione del ricorrente, ancora più irragionevole dal confronto con altri reati, quali l’omicidio volontario, la riduzione in schiavitù, la rapina aggravata dalla violenza, che prevedono pene inferiori, almeno nel minimo edittale. Nella specie, i sequestri di persona a scopo di estorsione attribuiti all’imputato sarebbero da considerare oggettivamente di "lieve entità", per le modalità con cui sono stati posti in essere, privando le vittime della loro libertà personale solo per pochi minuti.

Sotto altro profilo la difesa del V. ritiene che la norma sanzionatoria in questione sia in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto l’analoga figura delittuosa prevista dalla L. 26 novembre 1985, n. 718, art. 3 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979), pur prevedendo la stessa cornice edittale di cui all’art. 630 c.p., comma 1, contempla al comma 3 una circostanza attenuante ad effetto speciale per i casi di lieve entità, che comporta l’applicazione della pena prevista dall’art. 605 c.p., aumentata dalla metà a due terzi (ossia la pena della reclusione da nove mesi a tredici anni e quattro mesi). La differente disciplina sanzionatoria dei due reati appare del tutto irragionevole al ricorrente a fronte di situazioni pienamente omogenee.

3.2. – Con un altro motivo il ricorrente censura la sentenza in relazione all’erronea applicazione dell’art. 630 c.p., comma 5, lamentando la mancata applicazione dell’attenuante per i reati di cui ai capi D) ed E). In particolare, viene criticata l’interpretazione data dalla Corte d’appello, secondo cui la citata circostanza attenuante non può applicarsi alle ipotesi di unico agente, facendo espresso riferimento al caso di "concorrente" nel reato che si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuti concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive.

La difesa dell’imputato evidenzia, inoltre, l’incongruità del ragionamento compiuto dai giudici di merito, che danno una diversa lettura della medesima espressione riferita al "concorrente" nelle due ipotesi di attenuanti disciplinate nei commi quarto e quinto dell’art. 630 c.p., riconoscendo l’applicabilità all’agente unico della sola circostanza attenuante di cui all’art. cit., comma 4, laddove l’interpretazione dovrebbe essere identica.

3.3. – Con l’ultimo motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 89 c.p..

Innanzitutto, il ricorrente rileva un travisamento nell’interpretazione della consulenza tecnica di parte sulla patologia mentale dell’imputato, in quanto i giudici si sarebbero limitati a considerare solo il disturbo da gioco d’azzardo, trascurando quanto accertato in relazione alla patologia mentale data dal "disturbo narcisistico di personalità", che sommato all’altro disturbo è in grado, secondo il consulente, di provocare un’alterazione patologica delle funzioni dell’io e di assumere significato e valore di malattia.

Sotto un altro profilo contesta la sentenza per avere escluso che il forte indebitamento del V. derivasse dalla sindrome di gioco d’azzardo patologico, per ritenere, al contrario, che le perdite accumulate dall’imputato dipendessero dalla sua attività di investimento in borsa, attività del tutto lecita che nulla ha a che fare con il gioco d’azzardo.

Infine, censura la decisione per assoluta irragionevolezza là dove, anche considerando il gioco d’azzardo come una vera patologia, finisce per escludere ogni influenza sulla coscienza e volontà dell’imputato, senza indicare su quali basi scientifiche i giudici arrivino a tale conclusione, in presenza di una consulenza tecnica che ha invece concluso per la sussistenza della patologia psichica.
Motivi della decisione

4. – Preliminarmente, si rileva che le eccezioni di costituzionalità riproposte nel ricorso sono manifestamente infondate.

La configurazione delle ipotesi criminose e la determinazione delle sanzioni per ciascuna di esse rientrano, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, nella discrezionalità del legislatore, in quanto presuppongono una valutazione sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa, quindi un apprezzamento in ordine alla meritevolezza e al bisogno di pena, che è valutazione tipicamente politica. Sicchè un sindacato sul merito delle scelte legislative è possibile soltanto quando esse si traducano in forme di irragionevolezza o di arbitrarietà nella scelta di ciò che deve essere punito penalmente e nella selezione delle sanzioni, come nel caso in cui "la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assume aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione" (Corte cost n. 394/2006; n. 144/2005; n. 364/2004; n. 234/2003).

Sulla base di questi criteri deve escludersi che il trattamento sanzionatorio previsto per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione possa considerarsi irragionevole, nel confronto con altre fattispecie di carattere omogeneo. Il ricorrente propone un confronto suggestivo con reati, quali l’omicidio o la riduzione in schiavitù, che però tutelano beni diversi, in ogni caso non del tutto omogenei rispetto al sequestro di persona disciplinato dall’art. 630 c.p., sicchè il giudizio di ragionevolezza circa le differenze nel trattamento sanzionatorio non può utilmente essere fatto, dovendo considerare che la fattispecie in questione, collocata nell’ambito dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, è un reato plurioffensivo, posto a tutela della libertà di locomozione nonchè della libertà di disposizione del patrimonio e, inoltre, nelle sue manifestazioni aggravate, anche dell’integrità psico-fisica della vittima.

Anche la mancata previsione di un’ipotesi "lieve" non può essere considerata un sintomo di irragionevolezza della norma incriminatrice per quanto riguarda il versante sanzionatorio, perchè si tratta di una scelta che rientra nella discrezionalità del legislatore, il quale ha ritenuto, da un lato, che il giudice, nella determinazione in concreto della pena, faccia ricorso alla disciplina generale delle attenuanti, dall’altro, ha preso in considerazione specifiche condotte di ravvedimento operoso, collegate a forme di dissociazione rispetto all’illecito, in grado di abbattere i limiti edittali delle pene, indubbiamente severe, previste dall’art. 630 c.p., peraltro giustificate da una preoccupante diffusione, in epoche non lontane, di questo delitto, che ha rappresentato una vera e propria emergenza di ordine pubblico.

Per quanto riguarda il paragone con la struttura del reato introdotto con la L. 26 novembre 1985, n. 718, in attuazione della Convenzione contro la cattura di ostaggi, che prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale per i casi di lieve entità, deve sottolinearsi come anche in questo caso il diverso e più rigoroso regime sanzionatorio previsto dall’art. 630 c.p. non possa condurre ad un giudizio di irragionevolezza, in quanto la norma incriminatrice di derivazione convenzionale è rivolta a situazioni che non hanno a che fare con sequestri finalizzati all’estorsione, ma che rivestono un ambito diverso, con riferimento al sequestro di ostaggi, sicchè la previsione dell’attenuante non può certo costituire un sintomo dell’irragionevolezza della disciplina del diverso reato di cui al citato art. 630 c.p. Il diverso trattamento esprime una scelta del legislatore che, di fronte a fenomeni criminosi eccezionali, spesso di portata internazionale e collegati a condotte di terrorismo, quindi con ripercussioni anche di carattere politico, ha ritenuto di adottare un’ipotesi attenuata, che consenta di ricomprendervi anche condotte di sequestro di ostaggi caratterizzate da una minore entità. 5. – Passando ad esaminare i motivi di merito, si rileva infondato è il motivo con cui il ricorrente lamenta la mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 630 c.p., comma 5.

Preliminarmente giova precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, nel sequestro di persona a scopo di estorsione l’attenuante della dissociazione deve ritenersi applicabile anche quando vi sia un unico agente (v., Corte cost., n. 143 del 1984; inoltre, Sez. 2, 15 gennaio 1988, n. 2822, Sita; Sez. 2, 9 ottobre 1984, n. 401, Povelato, sebbene le decisioni facciano riferimento all’attenuante di cui all’art. 630 c.p., comma 4).

Tuttavia, nella specie non viene neppure in discussione la questione circa la possibilità di concedere l’attenuante con riferimento all’agente unico, perchè, anche prescindendo dal requisito della "dissociazione" dai concorrenti, manca la stessa condotta di ravvedimento operoso, che giustifica l’applicazione dell’attenuante, cioè l’adoperarsi per evitare le ulteriori conseguenze dell’attività delittuosa ovvero l’aiuto alle autorità nella raccolta di prove per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.

Nella presente fattispecie l’imputato è stato arrestato nella flagranza del reato e non ha dato alcun contributo nè alle indagini, nè per evitare ulteriori conseguenze, dal momento che con l’arresto l’attività delittuosa si è definitivamente interrotta. Il contributo alle indagini ha riguardato altri reati, sicchè rispetto a tale condotta confessoria non vi è spazio per concedere l’attenuante in oggetto. Ed infatti correttamente i giudici hanno ritenuto che la confessione meritasse il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, che trova spazio solo nei casi in cui il ravvedimento attuoso non si realizzi attraverso una delle condotte descritte nella norma in esame.

6. – Del tutto infondato è, infine, il motivo relativo al mancato riconoscimento del vizio parziale di mente, con cui si deduce il vizio di motivazione sul punto.

Occorre ribadire che, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Peraltro, l’illogicità della motivazione, come vizio denunciarle, deve essere evidente ("manifesta illogicità"), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongnienze. In altri termini, l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto.

Nella specie, la sentenza con una motivazione puntuale e coerente, che ha valutato criticamente la consulenza psichiatrica di parte, ha escluso la sussistenza del vizio parziale di mente, e le censure contenute nel ricorso lungi dall’evidenziare una qualche manifesta illogicità o contraddittorietà nelle argomentazioni dei giudici, hanno solo tentato di sostituire le valutazioni del ricorrente a quelle fatte proprie dalla decisione della Corte d’appello.

D’altra parte, la difesa non può lamentarsi, oggi, che non sia stata disposta una perizia sullo stato mentale dell’imputato, in quanto è evidente che il primo giudice, in sede di abbreviato, ha ritenuto di poter decidere allo stato degli atti; quanto alla Corte d’appello, la approfondita motivazione con cui ha confutato le conclusioni del perito di parte dimostra come anche i giudici di secondo grado abbiano escluso ogni necessità di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sul punto.

7. – In conclusione, l’infondatezza dei motivi proposti determina il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 22 dicembre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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