Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 18-11-2010) 07-03-2011, n. 8896

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

dei rispettivi ricorsi.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con sentenza del 4 luglio 2008 la Corte d’assise di Caltanissetta dichiarava B.S. e R.A. responsabili degli omicidi di T.A. (capo g), P. S. (capo h) e C.G. (capo i), condannando entrambi alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno di sei mesi per il primo, di un anno per l’altro; dichiarava, inoltre, A. E. responsabile del tentato omicidio di C.S. (capo a), nonchè degli omicidi di L.O. (capo c) e di P.G. (capo d), condannandolo alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per mesi nove; infine, riteneva F.S.O. responsabile anch’egli dell’omicidio di P.G. (capo d) e lo condannava alla pena di otto anni di reclusione.

2. – Sull’impugnazione degli imputati la Corte di assise di appello di Caltanissetta, con la sentenza in epigrafe, ha confermato le condanne per B., R. e A., mentre ha ridotto ad anni sette di reclusione la pena nei confronti di F., previa esclusione dell’aggravante della premeditazione.

Dalla sentenza si apprende che gli omicidi sono stati decisi e realizzati nel territorio di (OMISSIS) nell’ambito della faida che aveva visto contrapporsi, da sempre, due organizzazioni criminali, da un lato quella originariamente denominata "clan dei pastori" e poi conosciuta come "stidda", dall’altro "cosa nostra", che in quel territorio era rappresentata dal "clan Madonia". Secondo le sentenze di merito i fatti omicidiari oggetto del presente processo sarebbero stati la risposta di cosa nostra ad un’offensiva portata avanti nel corso del 1989 dagli stiddari, in cui va ricompreso anche l’attentato nei confronti di A.E. di (OMISSIS) e di sua moglie.

Infatti, la famiglia A. rivestiva un ruolo di rilievo nell’ambito del clan Madonia, di cui R. all’epoca era il capo e B. anch’egli esponente di rilievo.

3. – B.S. in appello ha ammesso la responsabilità per tutti i delitti contestatigli, tuttavia i giudici di secondo grado non hanno ritenuto di concedergli le richieste attenuanti generiche, nè di operare una diminuzione della pena.

L’affermazione di responsabilità di R.A. si è basata sulle accuse dei collaboratori, confermate dalle sue stesse ammissioni rese nel corso del primo grado. Tuttavia, la Corte di assise d’appello ha condiviso quanto ritenuto dai primi giudici che hanno negato le attenuanti generiche ritenendo di non decisiva rilevanza le ammissioni inviate per iscritto il 21.5.2008 dopo che l’imputato aveva riportato altre condanne alla pena dell’ergastolo.

3.1. – Nei ricorsi presentati nell’interesse di B.S. e R.A. il comune difensore dei due imputati ha dedotto la violazione dell’art. 62 bis c.p. e il connesso vizio di motivazione per avere la sentenza impugnata negato l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche nonostante la confessione degli imputati. Tale decisione è stata giustificata, per la posizione di B., con il fatto che l’ammissione di responsabilità è avvenuta solo nel giudizio di appello, per R., in quanto la sua ammissione sarebbe avvenuta solo per confermare la veridicità delle accuse già mosse da parte dei collaboratori di giustizia: giustificazione contestata dai ricorrenti, secondo i quali i giudici avrebbero dovuto valutare il fatto oggettivo dell’avvenuta confessione e dei contributi dati all’integrazione del patrimonio conoscitivo nell’ambito del processo.

3.2. – I ricorsi dei due imputati sono infondati.

Tra gli elementi positivi valutabili ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche rientrano la confessione spontanea, il corretto comportamento processuale e la collaborazione prestata alle indagini.

Tuttavia deve ritenersi legittimo il diniego delle attenuanti generiche motivato con la esplicita valorizzazione negativa dell’ammissione di colpevolezza, per essere stata la responsabilità già acquisita aliunde, e perchè dettata – tale confessione – non da effettiva resipiscenza ma da intento utilitaristico (in questo senso v., Sez. 1, 24 ottobre 1994, n. 12426, Fiorentino). Ed è questa la valutazione che hanno fatto i giudici di merito nel negare le attenuanti generiche ai due imputati.

In relazione alla posizione di R., la Corte d’appello, confermando sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto di non decisiva rilevanza le dichiarazioni confessorie che l’imputato ha inviato per iscritto, osservando che in tal modo egli si sarebbe limitato a confermare la veridicità di accuse già mosse dai collaboratori in relazione ai fatti oggetto di questo processo, sicchè tali ammissioni sono state valutate come non significative di un ripensamento e di un nuovo atteggiamento processuale da valutare in senso positivo.

Anche per quanto concerne B. la Corte territoriale ha considerato che le ammissioni dell’imputato, rese in sede di spontanee dichiarazioni, non appaiono sintomatiche di un ripensamento e di un nuovo atteggiamento processuale, in quanto riguardanti fatti e responsabilità già oggetto delle accuse mossegli dai collaboratori.

In questo modo la sentenza impugnata ha offerto una coerente e corretta motivazione in ordine alle ragioni del diniego delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p., giustificato in quanto la confessione viene ritenuta opportunistica e processualmente irrilevante, come tale non meritevole di un positivo apprezzamento.

4. – I fatti contestati ad A.E. risalgono al periodo compreso tra il (OMISSIS), epoca in cui l’imputato si trovava agli arresti domiciliari. Tuttavia, i giudici di merito hanno ritenuto la sua responsabilità nel tentativo di omicidio e nei due omicidi a lui contestati riconoscendo il concorso morale nei reati, per avere comunque partecipato all’ideazione e alla programmazione degli stessi. D’altra parte, l’imputato è stato indicato dai collaboratori (soprattutto Bi. e Ce.) come colui, che assieme al fratello S. ha dovuto prendere le decisioni come risposta all’attentato subito dal cugino A. E. di (OMISSIS) e dalla di lui moglie da parte degli "stiddari" e tali accuse, secondo i giudici, non vengono messe in discussione dalla circostanza che l’imputato si trovasse agli arresti domiciliari, anche perchè era proprio nell’abitazione in cui si trovava che si riunivano le persone vicino alla famiglia A., appunto per deliberare le azioni ritorsive. Gli stessi collaboratori hanno riferito che l’imputato in talune occasioni si è anche occupato di fornire loro le armi per poi preoccuparsi di nasconderle, inoltre, è stato lui ad indicare di eliminare L..

4.2. – Nel ricorso presentato nell’interesse di A.E. si deduce, con un primo motivo, la illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ritiene la responsabilità dell’imputato per la "deliberazione" degli omicidi, senza determinare in concreto la condotta concorsuale allo stesso ascrivibile, ora individuata nella "ideazione", ora nella "programmazione" o, ancora, nell’interesse che avrebbe determinato una "direzione delle operazioni".

Con un motivo subordinato il ricorrente deduce anche la violazione dell’art. 521 c.p.p., sul presupposto della mancata correlazione tra contestazione e sentenza, proprio in relazione alla condotta dell’imputato.

4.3. – Il ricorso è infondato.

Riguardo alla dedotta violazione dell’art. 521 c.p.p. deve rilevarsi che sul punto ha già risposto in maniera esauriente la Corte d’appello, le cui argomentazioni questo Collegio condivide pienamente.

Recentemente questa Corte, a sezioni unite, ha avuto modo di ribadire che per aversi mutamento del fatto, rilevante ai sensi dell’art. 521 c.p.p., occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, precisando che "l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione" (Sez. un., 15 luglio 2010, n. 36551, Carelli).

La Corte d’appello ha fatto buon governo di questi principi. Infatti, secondo i giudici di secondo grado non vi è stata alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto fra la contestazione di avere concorso a deliberare i delitti in questione e l’avere in sentenza ritenuto che l’imputato ha partecipato all’ideazione ed alla programmazione degli stessi non vi sarebbe "eterogeneità sostanziale", hi altri termini tanto l’imputazione, quanto la sentenza hanno riconosciuto all’ A. un ruolo comunque deliberativo e ideativo negli omicidi, che attribuiscono allo stesso il ruolo sostanziale di mandante, rispetto al quale, come hanno rilevato i giudici di merito, l’imputato si è potuto difendere senza alcuna possibilità di fraintendimento.

4.4. – Del tutto infondato è il motivo con cui il ricorrente deduce il vizio di motivazione.

Deve, infatti, escludersi ogni ipotesi di manifesta illogicità della sentenza che è pervenuta ad attribuire la responsabilità dei tre omicidi all’ A. a titolo di concorso morale, sulla base delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, alcuni dei quali parteciparono materialmente agli attentati in danno di C., L. e P..

Si tratta delle dettagliate accuse formulate dal Bi., il quale tra l’altro ha riferito del contributo dato dall’imputato nel mettere a disposizione le armi e i veicoli da adoperare negli attentati; delle dichiarazioni rese dallo stesso Bi. e riscontrate da Ce., i due esecutori materiali dell’omicidio L., che hanno indicato l’ A. come colui che, assieme al fratello S., diede loro l’incarico di uccidere L., circostanza riferita anche dal F.; stesso ruolo ha avuto l’imputato nell’omicidio P., secondo quanto riferito da Bi. e confermato da F.M., Ce.Em., A.E. (di An.) e Ce.An.; è ancora Bi., la cui chiamata in correità è stata confermata dai fratelli Ce. e da A.E. (di An.), a dire che l’imputato si fece promotore del tentativo di omicidio ai danni del C..

La sentenza impugnata ha, poi, attentamente preso in considerazione e respinto tutte le critiche contenute nell’atto di appello in ordine al contenuto e alla tenuta delle dichiarazioni accusatorie, offrendo, infine, una logica e coerente ricostruzione sul ruolo avuto dall’imputato nelle vicende a lui contestate, precisando e spiegando in che modo e per quale ragione ha preso parte alle decisioni volte ad eliminare alcuni dei rappresentanti dell’organizzazione avversaria. Anche su questo aspetto la motivazione non presenta alcuna incongruenza o illogicità intrinseca, in quanto all’imputato viene riconosciuta una posizione che, nell’ambito dell’associazione, gli ha consentito di poter decidere e programmare gli attentati, in quanto in quel periodo si era verificato un "vuoto nella catena di comando" a seguito dell’arresto di E.A. di (OMISSIS), cioè dell’esponente di primo piano dell’organizzazione, che sino a quel momento aveva deciso e diretto la strategia criminale del gruppo. E’ in questa situazione che, secondo i giudici di merito, i fratelli A. – E. e S. – si assumono l’onere di decidere e programmare gli attentati, alcuni peraltro "suggeriti" dal carcere dallo stesso A.E. di Guido. La circostanza che il ricorrente si trovasse, all’epoca, agli arresti domiciliari presso la casa della madre è un dato di fatto che la sentenza non considera incompatibile con il ruolo svolto, dal momento che proprio in quell’abitazione, ove viveva anche il fratello, si sarebbero recati gli altri associati per ricevere le indicazioni sui delitti da realizzare.

Deve, pertanto, escludersi la sussistenza del vizio dedotto e ribadire che il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossìa la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Peraltro, l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente ("manifesta illogicità"), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. In altri termini, l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali. Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. I limiti del sindacato della Corte non sono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46, là dove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia sia "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per Cassazione: c.d. autosufficienza) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito.

Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito.

Apprezzamento che nel caso in esame il giudice di merito ha compiuto in maniera coerente, con riferimento al valore riconosciuto alle chiamate in correità dei collaboratori e dei coimputati, e rispetto al quale il ricorrente ha tentato di proporre una diversa e alternativa interpretazione, non deducibile in questa sede.

5. – F.S.O. è stato ritenuto responsabile dell’omicidio di P.G. per avere individuato e comunicato ai correi il luogo in cui si trovava la vittima, dove poi è stata uccisa dai colpi d’arma da fuoco esplosi da Bi.

F.. L’imputato, divenuto collaboratore di giustizia, pur riconoscendo di aver dato la notizia circa la presenza del P., ha tuttavia sempre negato di avere avuto conoscenza e consapevolezza del fatto che questi dovesse essere ucciso, inoltre ha sostenuto di non essersi trovato con il Bi. quando questi apprese dove rintracciare il P..

I giudici d’appello hanno evidenziato come le dichiarazioni del F. siano state smentite dal Bi. il quale ha, innanzitutto, detto che si trovava assieme a L.C. e al F. e che a seguito dell’acquisizione delle notizie da parte del F. tramite la ex fidanzata del P., incontrata casualmente dal F., aveva cambiato programma e avviato i preparativi per l’agguato al P.; inoltre, hanno rilevato che L.C. avrebbe dichiarato di avere appreso dagli stessi protagonisti che F. aveva consapevolmente indicato il luogo dove rintracciare P. affinchè potesse esser ucciso.

5.1. – Nel ricorso presentato nell’interesse di F.S. si censura la sentenza per avere ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato, sotto il profilo del dolo eventuale, e si deduce il conseguente vizio di motivazione. Secondo il ricorrente la motivazione della sentenza impugnata appare contraddittoria là dove, dopo avere riconosciuto l’estraneità dell’imputato all’ideazione e all’organizzazione del delitto, rintraccia nella sua condotta il dolo eventuale in ordine all’uccisione del P., avendo indicato il luogo in cui la vittima si trovava. Si assume che l’imputato, nel dare tale indicazione a coloro che poi materialmente uccideranno il P., non aveva alcuna consapevolezza che la notizia fornita potesse essere utilizzata strumentalmente per eliminare una persona coinvolta nell’attentato fatto alla famiglia degli A.: in altri termini, il F., pur potendo essere a conoscenza che P. fosse contrario alla cosca degli A., non sapeva che lo stesso fosse il responsabile dell’agguato agli A. e non aveva alcuna consapevolezza che per questo dovesse essere ucciso.

D’altra parte, a confermare questa tesi difensiva dell’imputato c’è la dichiarazione di Bi., il quale ha riferito di non poter affermare con certezza che F. sapesse che P. doveva essere ucciso.

In conclusione, si sostiene che nessuna responsabilità può attribuirsi al F. per l’omicidio contestatogli neppure sotto il profilo del dolo eventuale, non avendo lo stesso nè previsto, nè accettato il rischio del verificarsi di tale evento, nè accettato il fatto quale potenziale prezzo di un risultato intenzionalmente perseguito.

Infine, si evidenzia una ulteriore contraddizione della sentenza, che ha riconosciuto all’imputato l’attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, ma non lo ritiene credibile nell’unico episodio che gli è stato contestato.

5.2. – Il ricorso è infondato.

Il F. non contesta di avere dato la notizia sul luogo dove si trovava il P., ma di non avere avuto alcuna consapevolezza che fornendo tale notizia avrebbe potuto concorrere nell’omicidio, neppure a livello di dolo eventuale.

Invero, dalla ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza emerge che: a) l’imputato aveva perfetta cognizione che in quel periodo era in atto a (OMISSIS) una cruenta faida fra gli "stiddari" e "Cosa Nostra", associazione a cui appartenevano gli A.; b) sapeva che P. era affiliato al clan "stiddaro"; c) era anche a conoscenza che il P. era coinvolto nell’attentato subito dagli A.; d) sapeva che da tale episodio era derivata un’accelerazione dell’offensiva diretta ad eliminare gli appartenenti alla "stidda" da parte degli affiliati di Cosa Nostra, sicchè nel momento in cui aveva indicato al Bi. e al L.C., ritenuti i killers degli A., dove trovare il P. non poteva non raffigurarsi che questi fosse ricercato per essere ucciso.

Sulla base di questi elementi, tratti dalle convergenti dichiarazioni di Bi., Ce. e L.C., i giudici hanno ritenuto che la condotta dell’imputato fosse caratterizzata da dolo eventuale in ordine all’evento dell’uccisione del P., da porsi in relazione causale con la notizia offerta circa il luogo in cui questi si trovava e dove venne effettivamente rintracciato e ucciso;

tuttavia, in considerazione dell’estraneità dell’imputato all’ideazione e all’organizzazione dell’omicidio e tenuto conto che il suo apporto causale è stato determinato dall’incontro casuale con la ex fidanzata del P., hanno escluso la premeditazione, originariamente contestata.

La questione in oggetto riguarda, quindi, la verifica circa la sussistenza del contributo consapevole che avrebbe dato il F. nell’omicidio del P. e in questo accertamento, che attiene anche all’elemento soggettivo, appare fondamentale prendere in considerazione anche la sentenza di primo grado che offre spunti interessanti e rilevanti per ricostruire l’atteggiamento dell’imputato.

Infatti, dalla decisione della Corte d’assise di Caltanissetta si apprende che il F. ebbe a ricevere l’incarico dal cognato, A.S., di "verificare la presenza di P. G. sul pontile di (OMISSIS)" e che in sede di confronto con Ce.An. egli riconobbe di avere "sospettato" che il P. dovesse essere ucciso, circostanza che avrebbe confermato anche nel corso del confronto con Bi..

Che si trattasse di qualcosa di più di un semplice sospetto lo dimostrano una serie di dichiarazioni dei collaboratori, secondo cui l’imputato "era ben consapevole della decisione di uccidere P.": lo confermano Bi., E. ed Ce.An., quest’ultimo in particolare riferisce di avere appreso dallo stesso F. che fu lui a portare la notizia dell’uccisione ai cognati, E. e A.S., cioè a coloro che gli avevano commissionato di accertare dove si trovasse la vittima designata.

Particolare rilievo viene dato nella sentenza di primo grado all’utilizzazione del motorino per l’esecuzione del delitto. A questo proposito appaiono rilevanti, nella ricostruzione di entrambe le sentenze, le dichiarazioni rese dai fratelli dell’imputato, M. e F.C., i quali hanno confermato che venne utilizzato il motorino di c., tanto che quest’ultimo si lamentò del fatto con lo stesso imputato. I giudici di merito ritengono acquisita l’utilizzazione del motorino da parte degli esecutori del delitto, B. e L.C., i quali hanno confermato tale circostanza, e a questo punto hanno ritenuto che l’insistenza di F.S. nel dire che era stato utilizzata una moto enduro, altro non sarebbe che il tentativo di ridimensionare il suo ruolo svolto nel delitto.

Da questa compiuta ricostruzione dei fatti risulta che l’imputato avrebbe ricevuto l’incarico di verificare la presenza della vittima sul pontile, incarico puntualmente svolto, con la segnalazione della posizione del P. – appresa nell’incontro casuale con la co. – al Bi. e avrebbe, infine, dato un ulteriore contributo all’azione "cedendo" il motorino del fratello a Bi. o a L.C. (dichiarazioni di F.M.), cioè agli esecutori materiali dell’omicidio. Se a tali elementi si aggiunge quanto sostenuto coerentemente in sentenza circa la piena cognizione che il P. dovesse essere eliminato, deve riconoscersi che l’affermazione della responsabilità a titolo di concorso del F. nell’omicidio trova una razionale e logica giustificazione nelle prove acquisite.

In questo caso la responsabilità concorsuale del F. si regge sulla valutazione contestuale dell’efficacia causale della condotta e dell’elemento soggettivo del reato, nel senso che la consapevolezza che la notizia richiesta e poi fornita, circa la presenza della vittima, fosse il presupposto per la sua eliminazione attribuisce rilievo causale alla condotta stessa.

Nella specie, i giudici d’appello hanno qualificato il dolo come eventuale, ritenendo che l’imputato abbia "accettato il rischio del verificarsi dell’evento" omicidiario. Tuttavia, sulla base degli elementi che la stessa sentenza ha posto a base della sua decisione, appare più coerente indicare come elemento soggettivo quello del dolo diretto, tenuto conto che l’evento costitutivo del reato, sebbene estraneo all’obiettivo in vista del quale l’imputato ha posto in essere il suo contributo, è stato comunque da questi rappresentato come risultato quantomeno altamente probabile, essendo egli consapevole che la "ricerca" del P. poteva essere finalizzata alla sua eliminazione fisica.

5.3. – Infondata è, infine, anche la doglianza con cui il ricorrente rileva una presunta contraddizione nella motivazione della sentenza che, da un lato riconosce l’attenuante della collaborazione ex L. n. 203 del 1991, art. 8, al F. dall’alto, non lo ritiene credibile nell’episodio in esame: infatti l’attribuzione della speciale attenuante non può certo vincolare il giudice nella valutazione della credibilità del collaboratore rispetto ad alle vicende.

6. – Alla riconosciuta infondatezza dei motivi proposti consegue il rigetto di tutti i ricorsi, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *