Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04-11-2010) 07-03-2011, n. 8894 violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

. Martines M., che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1- Il Tribunale di Forlì, con sentenza 17/9/2008, dichiarava – tra l’altro – G.F. colpevole dei reati di falso per soppressione (capo A), truffa aggravata (capo I), violenza a p.u.

(capo J), tentativo di abuso d’ufficio, falso ideologico mediato, favoreggiamento della permanenza in Italia di persona clandestina (capi H, K), peculato (capo N), falsificazione di documento d’identità (capo O), concussione consumata e tentata, violenza sessuale consumata e tentata (capi B, C, D, E, F, P, V), esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona (così qualificato il capo W, originariamente contestato come tentativo di concussione) e lo condannava a pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

2- A seguito di impugnazione proposta dall’imputato, dal P.M. e dalla parte civile V.W., la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza 10/7/2009, riformando in parte quella di primo grado, assolveva il G. dagli episodi di concussione, violenza sessuale, tentativo d’abuso d’ufficio, falso ideologico mediato di cui ai capi D, F, H, perchè il fatto non sussiste, qualificava il fatto articolato al capo W come tentativo di concussione, così come originariamente contestato, rideterminava la misura della pena complessiva in anni otto di reclusione, liquidava il maggior danno in favore della parte civile V., confermava nel resto la decisione del Tribunale.

Il Giudice distrettuale chiariva che le indagini avevano preso avvio dalla denunzia contro ignoti sporta da tale C.N. ed avente ad oggetto la sottrazione di un assegno INPS di pertinenza della predetta, negoziato da terzi presso una banca di (OMISSIS): si era accertato che il G., vigile urbano distaccato presso l’ufficio anagrafe del Comune di Meldola, avendo per ragione del suo ufficio la disponibilità dei moduli di carte d’identità, si era appropriato di uno di tali moduli, omettendo di annotarne l’utilizzo, e lo aveva falsamente compilato con le generalità della C. e la fotografia di tale D.S., per consentire a quest’ultima l’incasso del titolo di credito oggetto della denunzia di furto.

L’ulteriore sviluppo delle indagini, concretizzatesi anche nell’attività di captazione di conversazioni telefoniche, aveva consentito di accertare che il G., già destinatario di provvedimento di sospensione dal servizio, quindi riammesso e distaccato, dapprima, presso l’Ufficio tecnico, poi presso l’Ufficio anagrafe, poi ancora presso l’Ufficio che curava le pratiche relative alla cessione di fabbricati a stranieri e, da ultimo, addetto al controllo della regolarità delle notifiche dei verbali di contravvenzione da iscrivere nel ruolo esattoriale, aveva intrattenuto frequentissimi contatti con cittadine extracomunitarie, che lavoravano in locali notturni della zona, inducendole, con abuso della sua qualità e con la minaccia di revoca del permesso di soggiorno o di espulsione o di multarle per somme rilevanti, a prestazioni sessuali, così come confermato dalle concordi testimonianze delle ragazze. Era emerso, inoltre, che il G. quasi quotidianamente, dopo avere timbrato il cartellino di presenza in ufficio, si era allontanato per intrattenersi a lungo nel vicino bar e, in relazione a tale vicenda sulla quale stava indagando l’ispettore B., aveva minacciato pesantemente costui per costringerlo a non dare corso ad ulteriori accertamenti; aveva fatto sparire, nell’espletamento dell’attività di controllo della regolarità delle notifiche dei verbali di contravvenzione al codice della strada, cinque verbali elevati a suo carico; aveva favorito la permanenza sul territorio nazionale della cittadina straniera C. A., attestando falsamente di ospitarla presso la sua abitazione e inducendo così in errore il funzionario della Questura di Forlì, che rilasciava il permesso di soggiorno; aveva simulato un controllo di polizia nei confronti di V.W., nel mentre costui s’intratteneva nell’autovettura in atteggiamento intimo con una donna (dalla quale, concorrente nel reato, era stato appositamente adescato), per costringerlo o comunque indurlo a versare a tale R.E. (altro concorrente nel reato) il denaro che costui pretendeva per asseriti lavori svolti, minacciando, in caso contrario, di denunciarlo per atti osceni e di portare a conoscenza della famiglia le fotografie scattate nell’occasione. La Corte territoriale analizzava i singoli capi d’imputazione per i quali pronunciava condanna ed evidenziava, per ciascuno di essi, le relative fonti di prova, ritenendole affidabili e coerenti con l’ipotesi d’accusa così come formulata.

3 – Ha proposto ricorso per Cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato e ha censurato la sentenza di merito sotto più profili, che vengono qui di seguito esaminati con riferimento a ciascun capo d’imputazione e raggruppando quelli per i quali sono state poste le stesse questioni.

4- Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.

4a- In relazione al reato di falso per soppressione di cui al capo A dell’imputazione, la sentenza impugnata ritiene ragionevolmente di addebitare soggettivamente tale condotta illecita al G., partendo dal dato oggettivo e incontestato che tra le diverse centinaia di verbali per contravvenzioni al codice della strada erano spariti proprio i cinque verbali che interessavano direttamente il predetto, al quale era stato affidato il compito di verificare la regolarità delle relative notifiche per la conseguente iscrizione nei ruoli esattoriali; l’imputato aveva interesse a fare sparire detta documentazione, per evitare di pagare le spese di notifica e gli interessi di mora.

Il ricorrente lamenta la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per non essere stata presa in considerazione la diversa e alternativa interpretazione del fatto prospettata con l’atto di appello.

La doglianza è inammissibile, risolvendosi in una non consentita censura in fatto al discorso giustificativo, ancorato a precisi dati di fatto e non manifestamente illogico, della Corte di merito, che non aveva l’obbligo di prendere in esame una mera ipotesi formulata in quella sede dall’appellante in maniera meramente congetturale.

4b- Il reato di truffa aggravata di cui al capo I, consistito nell’essersi l’imputato sottratto di fatto alla propria prestazione lavorativa in favore del Comune di Meldola, ricorrendo all’artificio di timbrare regolarmente il cartellino di presenza per allontanarsi subito dopo dall’ufficio, non è contestato nella sua storicità.

La sentenza impugnata sottolinea, inoltre, che non rileva, al fine di escludere il connotato della fraudolenza, la circostanza che tale comportamento antigiuridico del G. fosse noto a molti;

elemento qualificante è l’effetto comunque conseguito, vale a dire l’induzione in errore dell’Amministrazione circa l’effettiva prestazione lavorativa da parte del dipendente, che, invece, allontanandosi arbitrariamente dal posto di lavoro, aveva conseguito l’ingiusto profitto di una retribuzione non dovuta, con conseguente danno per l’Ente locale.

Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 640 c.p., e art. 62 c.p., n. 4, nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per non essersi considerato che egli aveva agito alla luce del sole e che il danno cagionato era comunque di lieve entità. Rileva la Corte che anche tali doglianze sono inammissibili per carenza del requisito di specificità, in quanto si limitano a riproporre argomenti già sottoposti all’esame del giudice d’appello, senza alcun riferimento alle valutazioni in proposito espresse dalla sentenza in verifica, che, invece, come si è detto, individua l’artificio nella timbratura del cartellino di presenza, dato formale idoneo ad indurre in errore l’Amministrazione, ed esclude la ricorrenza dell’attenuante del danno di speciale tenuità, che deve essere rapportato non solo all’importo della retribuzione riferibile al periodo di assenza dall’ufficio, ma anche ai plurimi riflessi negativi di tale assenza sul rendimento lavorativo, sulle esigenze dell’utenza, sull’efficienza e sull’immagine dalla Pubblica Amministrazione.

4c- Il reato di minaccia a pubblico ufficiale di cui al capo J è provato, secondo la sentenza impugnata, dalla testimonianza di B.L., che, nel corso della telefonata 14/10/2006 con il G., era stato da costui ripetutamente minacciato e invitato ad astenersi dagli accertamenti che stava conducendo in ordine al reato di truffa di cui al punto che precede.

Al riguardo, il ricorrente deduce la violazione della legge penale, con riferimento agli artt. 336 e 341 c.p. e il vizio di motivazione sotto il profilo che egli si sarebbe limitato a reagire alla "inurbanità" del B..

Anche tale motivo di ricorso è generico e, quindi, inidoneo ad attivare il sollecitato sindacato di legittimità, in quanto non coglie il nucleo essenziale e più qualificante degli argomenti utilizzati dalla sentenza di merito a dimostrazione della sussistenza del reato di cui all’art. 336 c.p. addebitato all’imputato, che aveva chiaramente voluto intimorire l’ispettore B., al fine di condizionarne l’attività d’ufficio relativa all’indagine sulla truffa in danno dell’Amministrazione comunale.

4d- Sul reato di falsa attestazione circa l’ospitalità data alla cittadina straniera C.A., per favorirne la illegale permanenza sul territorio nazionale (capo K), la sentenza impugnata fa leva sugli esiti delle intercettazioni telefoniche del 20 ottobre e del 14 novembre 2006, da cui chiaramente emergeva che la predetta non aveva mai dimorato in casa dell’imputato, con l’effetto che il rilascio alla medesima del permesso di soggiorno da parte del funzionario della Questura di Forlì si basava su un presupposto di fatto falso. Il ricorrente lamenta il vizio di motivazione, non potendosi escludere, sulla base delle sole intercettazioni prese in considerazione, che egli avesse, sia pure per pochi giorni, effettivamente ospitato in casa propria la straniera.

La doglianza, in quanto basata su argomento meramente ipotetico e non idoneo ad evidenziare il denunciato vizio di motivazione, non può trovare spazio in questa sede.

4e- La prova dell’appropriazione del modulo di carta d’identità e della falsa compilazione dello stesso con la fotografia di S. D. e le generalità di C.N. (capi N, O) è offerta, secondo la sentenza in verifica, dai seguenti elementi: a) la denunzia e le dichiarazioni rese dalla C. circa la sottrazione dell’assegno di sua pertinenza; b) la documentazione bancaria attestante l’incasso del titolo di credito da parte di tale D.G.Falco, amico dell’imputato; c) le testimonianze di M.A. e C.R., impiegati presso l’Ufficio anagrafe del Comune di Mendola, i quali avevano riferito che la carta d’identità falsa era stata rilasciata dall’imputato (addetto allo sportello), il quale aveva anche omesso di annotare, secondo prassi, l’operazione nell’apposito registro; d) dichiarazioni confessorie e accusatorie della S., la quale aveva riferito in ordine al ruolo avuto nella vicenda dal suo amico D.F., che aveva agito in accordo con un impiegato del Comune, prestatosi al rilascio della carta d’identità contraffatta. Il ricorrente lamenta il vizio di motivazione della sentenza, che non aveva tenuto conto della diversa e alternativa ricostruzione in fatto prospettata con l’atto di appello. La doglianza è inammissibile, perchè contrappone all’apparato argomentativo della sentenza di merito, ancorato a precisi dati fattuali, apprezzati e valutati secondo logica, una "ricostruzione astratta" e "ipotetica" della vicenda, ricostruzione alla quale correttamente la Corte territoriale non ha dato alcun rilievo, perchè totalmente disancorata, nella sua stessa prospettazione, dalle emergenze processuali acquisite.

4f- In relazione agli episodi di concussione e violenza sessuale di cui ai capi B, C, E, P, la sentenza impugnata, dopo avere precisato che l’imputato, in quanto addetto alla ricezione e alla registrazione delle cessioni di fabbricati, delle comunicazioni di ospitalità o di assunzione di stranieri e ai compiti connessi a tale attività (cfr. ordine di servizio 30/6/2006), rivestiva la qualità di incaricato di pubblico servizio, ritiene che la colpevolezza era provata dalle attendibili e precise testimonianze delle persone offese, al cui racconto facevano da riscontro le testimonianze di S.T. e R.P., gestori di locali notturni, i quali avevano riferito di avere appreso dalle ragazze che lavoravano in detti locali delle minacce loro rivolte dall’imputato al fine di ottenere prestazioni sessuali; ed ancora la testimonianza del vigile urbano A.F., che aveva riferito di essere stato invitato, in una occasione, dal G. ad effettuare un controllo presso le abitazioni di donne straniere, con il preciso scopo che, ove queste non fossero state trovate in regola con i documenti, le avrebbero costrette ad offrire le loro prestazioni sessuali. La sentenza sottolinea, inoltre, che l’ufficio, dove le ragazze – secondo il loro racconto – sarebbero rimaste vittime della condotta illecita posta in essere dall’imputato, era ubicato in un posto riservato (ultimo piano) e ben controllabile da eventuali incursioni di terzi (raggiungibile solo con ascensore), sicchè l’agente poteva operare in piena tranquillità.

Il ricorrente censura tale iter argomentativo, deducendo: 1) violazione dell’art. 358 c.p., per non avere egli rivestito, all’epoca dei fatti, la qualità di incaricato di pubblico servizio;

2) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità delle persone offese e alla ritenuta sussistenza della prova circa l’episodio di concussione sessuale in danno di P.A.C. (capo E); 3) violazione degli artt. 15, 317 e 609 bis c.p., sotto il profilo che doveva essere ravvisato solo un concorso apparente delle norme incriminatici, nel senso che la violenza sessuale commessa da incaricato di pubblico servizio assorbiva la concussione c.d. sessuale o viceversa, considerato che le due norme in questione coinciderebbero "in tutti i relativi elementi anche circostanziali".

Tali doglianze sono prive di fondamento.

Il G., tenuto conto dei compiti a lui affidati e specificamente illustrati nella sentenza in verifica, rivestiva certamente la qualità di incaricato di pubblico servizio, considerato che non si limitava ad espletare la mera attività materiale di ricezione e registrazione degli atti, ma provvedeva anche ad effettuare le relative comunicazioni alla Questura e ai Carabinieri, a predisporre i verbali in caso di riscontrati inadempimenti, ponendo così in essere un’attività strumentale o accessoria a quella dei suoi superiori gerarchici, il che implicava intuibilmente anche compiti di natura valutativa e, per così dire, di rango intermedio tra le pubbliche funzioni e le mansioni di ordine o materiali.

Il racconto delle persone offese, che costituisce la fonte primaria di prova dei reati in esame, è ritenuto motivatamente dalla Corte di merito attendibile, quanto meno nel suo nucleo essenziale, ed è indirettamente riscontrato dalle altre testimonianze acquisite.

I rilievi del ricorrente al riguardo si risolvono in non consentite censure in fatto alla valutazione, immune da vizi di manifesta illogicità, dei giudici di merito. La doglianza relativa all’episodio delittuoso in danno di P.A.C. difetta di specificità, considerato che non prende in considerazione gli argomenti sui quali fa leva, con riferimento a tale posizione processuale, la sentenza in verifica (cfr. pgg. 18 e 19 della sentenza). Sembra accennarsi in ricorso (cfr. pg. 2) ad una asserita inutilizzabilità, che sarebbe stata riconosciuta dalla Corte d’Appello in accoglimento del corrispondente motivo di gravame, delle dichiarazioni della P., circostanza questa non corrispondente al vero, non essendovene traccia nella sentenza in verifica.

Il reato di violenza sessuale commesso mediante abuso della qualità e dei poteri del pubblico ufficiale concorre formalmente con il reato di concussione, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, posti a salvaguardia di distinti valori costituzionali, rappresentati rispettivamente dalla libertà di autodeterminazione della persona nella sfera sessuale e dal buon andamento della Pubblica Amministrazione (cfr. Cass sez. 3, 20/11/2007, Rizza; sez. 6, 9/1/2009, Romano).

Non sussiste, invero, un rapporto di genere a specie tra le fattispecie astratte di cui si discute. In ogni caso, la specialità sarebbe reciproca o bilaterale: l’art. 317 c.p. presenta l’elemento specializzante della qualità del soggetto attivo e l’art. 609 bis c.p. quello dell’oggetto materiale della condotta. Il disvalore giuridico della condotta non è compreso per intero in ciascuno dei due delitti in esame, con l’effetto che entrambi devono trovare concreta applicazione, ricorrendo un’ipotesi di concorso formale eterogeneo delle due disposizioni incriminatrici.

4g – Sul tentativo di concussione in danno di V.W. (capi V, W), la sentenza impugnata, accogliendo l’appello del PM e della parte civile, dato atto che pacificamente l’imputato, in concorso col R. e con la G., si era prestato "a costruire una situazione compromettente", si da costringere o indurre la vittima a corrispondere al R. la somma pretesa per asseriti lavori eseguiti, ritiene che, a prescindere dalla legittimità della richiesta, le modalità operative attraverso le quali si era tentato di raggiungere l’obiettivo perseguito, con evidente abuso della qualità e dei poteri di vigile urbano da parte del G., integravano il reato di cui agli artt. 56 e 317 c.p..

Con il ricorso si denuncia la violazione della legge penale ( art. 317 c.p.) e il vizio di motivazione sotto il profilo che non poteva considerarsi "indebita" l’utilità che si intendeva conseguire, con l’effetto che la condotta andava inquadrata, così come ritenuto dal giudice di primo grado, nel paradigma dell’art. 393 c.p..

La doglianza, circoscritta – in verità – al solo episodio di tentata concussione di cui al capo W e non estesa anche a quello analogo di cui al capo V, non è fondata.

Ritiene, in ogni caso, la Corte che il delitto di concussione, nella forma tentata o consumata, sussista anche nel caso in cui l’atto di prevaricazione sia finalizzato a soddisfare un credito privato del pubblico ufficiale o di un terzo, al quale il primo sia interessato.

Il pubblico ufficiale, infatti, per soddisfare un suo credito o quello di una terza persona, deve valersi dei mezzi ordinari concessi dall’ordinamento e non può abusare della sua qualità o dei suoi poteri, per procurarsi in tal modo un vantaggio indebito. L’avverbio "indebitamente", che compare nel testo della norma di cui all’art. 317 c.p., qualifica, infatti, piuttosto che il contenuto della pretesa del concussore, la quale – in ipotesi – potrebbe anche non essere oggettivamente illecita, le particolari modalità di richiesta e di realizzazione della medesima pretesa. Integra, pertanto, il tentativo di concussione il comportamento del pubblico ufficiale che, con fare ricattatorio e abusando della propria posizione con strumentalizzazione dello ius imperii, compie atti idonei diretti a condizionare la controparte, per costringerla o indurla a pagare un suo debito.

5 – Il rigetto del ricorso consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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