Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, Sentenza dell’8 aprile 2010 n. 8372. Alle associazioni non si applica la disciplina delle clausole vessatorie.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 30 giugno 2005 il Giudice di Pace di Napoli accoglieva l’opposizione proposta da P. A. avvero il decreto ingiuntivo per l’importo di € 888,31 in favore del C. N. P. richiesto a titolo di iscrizione all’associazione, malgrado che il P. avesse comunicato a mezzo di lettera raccomandata la volontà di non proseguire nel rapporto; condannava quindi il C. N. P. al pagamento delle spese.
Il Giudice di Pace aveva accolto l’opposizione sul rilievo che la clausola contrattuale che stabiliva che il pagamento delle quote era dovuto anche in caso di recesso del socio, costituiva clausola vessatoria da approvare specificamente per iscritto.
Propone ricorso per cassazione il C. N. P. con tre motivi.
La parte intimata P. A. non ha svolto difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va premesso che ai sensi dell’art. 339 c.p.c., comma 3, nella formulazione antecedente alla modifica apportata dal D.L. 2 febbraio 2006, n. 40, sono inappellabili le sentenze del Giudice di Pace pronunciate secondo equità. Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 14 dicembre 1998, n. 12542, hanno affermato che avverso le sentenze del Giudice di Pace emesse in cause il cui valore non ecceda l’importo di lire due milioni (oggi € 1.100), é ammissibile il solo ricorso per Cassazione, sia che il Giudice abbia pronunziato sul merito della controversia ovvero si sia limitato ad una pronunzia sulla competenza o altra questione preliminare di rito o di merito o abbia infine pronunziato sul merito e sulla competenza; la sentenza é, diversamente, appellabile qualora il Giudice di Pace abbia deciso una controversia di valore superiore a detto importo e ciò anche nell’ipotesi in cui abbia erroneamente pronunziato secondo equità e non secondo diritto. Lo stesso criterio interpretativo, é stato sostanzialmente seguito anche dalle SS.UU. (20 novembre 1999, n. 803) che, nel valutare il problema della non sottoponibilità delle sentenze del Giudice di Pace a regolamento di competenza in base al combinato disposto dagli artt. 339 c.p.c., comma 3, e art. 113 c.p.c., comma 2, ha ritenuto che sono da ritenersi inappellabili (e perciò immediatamente ricorribili per Cassazione) tutte le sentenze pronunciate dal Giudice di Pace in controversie non eccedenti il valore di lire due milioni, a prescindere dal fatto che esse siano pronunciate secondo diritto o secondo equità, dovendosi a tal fine considerare, appunto, solo il valore della controversia e non il contenuto della decisione (Cass. SS.UU. 16 giugno 2006 n. 13917).
La novella legislativa di cui al D.L. 8 febbraio 2003 n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003 n. 63 (e applicabile ai giudizi introdotti con citazione notificata successivamente al 10 febbraio 2003), ha escluso dal giudizio secondo equità le controversie relative a contratti conclusi secondo le modalità previste dall’art. 1342 c.c. (i cosiddetti "contratti di massa").
La pronunzia resa nella sentenza impugnata è stata resa "secondo equità", trattandosi di importo di € 888,31; le norme processuali prevedono che le sentenze pronunziate dal Giudice di Pace ai sensi dell’art. 113 cod. proc. civ. siano impugnabili con ricorso per cassazione, oltre che per le violazioni e i motivi previsti dai numeri 1 e 2 dell’art. 360 cod. proc. civ., solo – con riferimento al n. 3 dello stesso articolo – per violazioni della Costituzione, delle norme di diritto comunitario sovranazionali, della legge processuale, nonché, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 2004, dei principi informatori della materia, restando pertanto escluse, anche dopo tale pronuncia, le altre violazioni di legge, mentre sono soggette a ricorso per cassazione – in relazione al n. 4 dello stesso art. 360 cod. proc. civ. – per nullità attinente alla motivazione, solo ove questa sia assolutamente mancante o apparente, ovvero fondata su affermazioni contrastanti o perplesse o, comunque, inidonee ad evidenziare la "ratio decidendi" (in tal senso: Cass. 19 marzo 2007 n. 6382).
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1341 e segg. c.c. poichè si trattava di associazione alla quale non erano applicabili le disposizioni sulle clausole vessatorie.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge e la omessa o insufficiente motivazione in relazione alla applicazione dell’art. 1341 c.c..
I due motivi vanno trattati congiuntamente, in quanto connessi.
Il ricorso è ammissibile, ritenuto che si tratta di questione che investe un principio informatore della materia, ossia la applicabilità delle disposizioni previste dall’art. 1341 c.c. in relazione alle condizioni generali di contratto.
Lo statuto e l’atto costitutiva di un’associazione costituiscono espressione di autonomia negoziale e sono regolate dai principi generali del negozio giuridico, salve le deroghe imposte dai particolari caratteri propri del contratto di associazione (Cass. 19 maggio 2006 n. 11756). Ne consegue che non può essere seguita la tesi sostenuta dalla sentenza impugnata, nel senso che si configuri la presenza di un contraente più "debole", meritevole della particolare tutela prevista per le cosiddette "clausole vessatorie"; al contrario, la partecipazione ad una associazione presuppone una comunanza di interessi e di risorse, finalizzati al raggiungimento degli scopi previsti dall’ atto costitutivo, in funzione dei quali sono utilizzati tutti i mezzi disponibili.
La sentenza impugnata merita quindi di essere cassata. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito nel senso del rigetto della opposizione al decreto ingiuntivo impugnato.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’ art. 91 C.P.C. in relazione alla condanna alle spese.
Il motivo è assorbito da quanto sopra.
La sentenza impugnata merita quindi di essere cassata; segue la condanna dell’opponente P. A. al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Civile, accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata. Decidendo nel merito, rigetta l’opposizione e conferma il decreto ingiuntivo opposto.
Condanna P. A. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, che liquida in complessivi € 625, di cui € 350 per onorari, € 215 per diritti ed € 60 per spese; di quelle del giudizio di cassazione che liquida in complessivi € 700, di cui € 500 per onorari, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 9 marzo 2010.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA L’ 8 APRILE 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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