CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – 6 maggio 2010, n.17234. In tema di concussione.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del progetto – motivi della decisione

Con sentenza in data 25/5/06 il G.U.P. del Tribunale di Catania dichiarava A.M. colpevole di nove episodi di concussione ex art. 317 c.p., contestati ai capi a), c), d), e), g), h), i), j), n), di due episodi di tentata concussione ai capi b), e f ), di due episodi di istigazione alla corruzione ai capi k) e 1), nonché di un episodio di corruzione impropria susseguente al capo m) della rubrica e lo condannava alla pena di giustizia oltre al risarcimento del danno alle costituite parti civili.

Si addebitava all’ A., quale Direttore dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia, titolare del potere di stabilire il "piano operatorio", decidendo il medico e la data in cui dovessero essere operati i diversi pazienti, che si rivolgevano a quella struttura ospedaliera, per sottoporsi a delicati interventi chirurgici, aveva utilizzato o tentato di utilizzare tali poteri decisionali per uno scopo diverso da quello, per cui era stato investito, prospettando a costoro la possibilità, in alternativa all’intervento condotto in regime ospedaliero ordinario e gratuito, soggetto a lunghe liste di attesa, di un intervento intramoenia con possibilità di scegliere l’equipe chirurgica di propria fiducia, dietro pagamento all’azienda di circa Euro 12.000, metà dei quali destinati al Direttore dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia, ovvero di un intervento condotto da lui personalmente, facendo figurare comunque il regime ospedaliero gratuito, a condizione però che gli fosse corrisposta direttamente e in contanti una somma di danaro da versare dopo l’intervento – di solito inferiore rispetto a quella prevista per gli interventi intramoenia – e che venisse sottoscritta una lettera, da cui doveva risultare contrariamente al vero che tale dazione di danaro era una spontanea iniziativa dei soggetti operati, destinata ad opere di beneficenza. In altre occasioni il predetto, sempre nella qualità, si faceva consegnare, pur senza aver esercitato pressioni, dai pazienti operati in regime ospedaliero ordinario gratuito, una somma di danaro non dovuta per l’attività da lui espletata in adempimento di un atto del proprio ufficio, così come si adoperava per sollecitarli a promettere o a versare una somma di danaro in cambio della sua prestazione. Secondo il giudice di primo grado l’affermazione della colpevolezza si fondava sulle dichiarazioni delle persone offese, o di persone informate sui fatti, sull’esito delle disposte intercettazioni ambientali e sulle indagini compiute dalla Guardia di Finanza, che accertavano che nel periodo in contestazione nella Divisione di Cardiochirurgia de qua non risultava essersi svolta alcuna attività in regime intramoenia, che non esisteva alcuna lista di attesa, che i colleghi dell’imputato non avevano mai ricevuto somme di danaro a titolo di retribuzione per gli interventi svolti e che l’Associazione (OMISSIS) non aveva mai ricevuto contributi da parte di soggetti residenti a (OMISSIS) e Provincia.

A seguito di gravame dell’imputato e delle parti civili la Corte di Appello di Catania con la sentenza indicata in epigrafe in parziale riforma della decisione di primo grado, qualificato il fatto di cui al capo e) della rubrica come corruzione impropria susseguente ex art. 318 c.p., comma 2, rideterminava la pena da anni otto ad anni sei, mesi otto giorni venti di reclusione, liquidava in misura maggiore i danni sofferti dalle parti civili confermando nel resto l’impugnata sentenza.

In motivazione la corte di merito condivideva in fatto la ricostruzione della vicenda, come operata in prima grado, facendo propri i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado sul punto.

In diritto non dubitava del requisito dell’induzione nella condotta persuasiva ed ingannevole dell’imputato consistita nel segnalare ai pazienti o ai loro parenti che la grave malattia cardiaca, da lui pronosticata non consentiva, di procrastinare, se non a rischio di morte, l’intervento chirurgico a causa della lunga lista di attesa. Di fronte poi all’indisponibilità finanziaria dei suoi interlocutori si dichiarava disponibile a eseguire lui stesso l’intervento in cambio di una offerta in danaro da destinare a beneficenza, così come di fronte alla riluttanza dei pazienti di farsi operare da lui personalmente, prospettava l’opportunità che fosse lui ad operare, in quanto più "esperto, chiedendo in cambio una minor somma di danaro rispetto a quella prevista per il regime intramoenia (capi h, i, j).

Quanto al requisito del metus publicae potestatis, osservava che la consegna o la promessa di una somma di danaro in cambio della prestazione professionale non avveniva per effetto di una libera determinazione del soggetto passivo, né in funzione di un rapporto sinallagmatico paritario, ma per effetto della pressione psicologica esercitata dall’imputato sui pazienti attraverso la prospettazione implicita o esplicita di un danno alla salute, che sarebbe stato evitato solo se i destinatari avessero accettato la richiesta di danaro, che peraltro non era dovuta, stante che l’intervento veniva eseguito in regime gratuito ospedaliere.

Quindi la Corte di merito nel passare all’esame delle tesi difensive, escludeva che nei casi in esame potesse ravvisarsi l’ipotesi alternativa della truffa, richiamando l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità in materia, che aveva individuato il discrimine tra le due ipotesi nella doverosità oggettiva della dazione o della promessa; riteneva poi un post-factum irrilevante la circostanza che la dazione avvenisse dopo l’intervento chirurgico.

Quanto agli episodi di tentata concussione (capi b e f) la corte di merito evidenziava come l’imputato, discreditando i suoi collaboratori e rappresentando ai suoi interlocutori un male maggiore, ove l’intervento non fosse stato da lui eseguito, aveva posto in essere una condotta certamente idonea a porre i soggetti passivi in una condizione di soggezione, così come per gli episodi di istigazione alla corruzione (capi k e l) segnalava come la richiesta di danaro avanzata dopo l’esecuzione dell’intervento integrasse ugualmente il reato contestato e non quello della truffa, come prospettato dalla difesa.

Analogamente per gli episodi di corruzione impropria susseguente (capi e) ed m), ravvisava gli estremi del reato e non quello della truffa nella condotta dell’imputato, che, pur non avendo esercitato pressioni psicologiche sulla volontà del paziente, aveva ricevuto una somma di danaro non dovuta, essendo stato l’intervento eseguito in regime ospedaliere gratuito e in adempimento di un atto del proprio ufficio.

Contro tale decisione ricorre l’imputato a mezzo dei suoi difensori, i quali a sostegno della richiesta di annullamento articolano quattro motivi.

Con il primo motivo denunciano la mancanza e manifesta illogicità della motivazione e l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità in riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti. Osservano che i giudici del merito non avevano dato risposta all’argomento difensivo sulla natura dei compensi, secondo il quale il prof A. era autorizzato all’esecuzione di attività professionali al di fuori delle trentotto ore settimanali, onde oltre tale debito orario chi avesse voluto avvalersi del prof. A. non avrebbe potuto confidare nel trattamento a carico del servizio sanitario, ma avrebbe dovuto pagare i relativi compensi accedendo al regime intramoenia. Si sarebbe dovuto accertare, ad avviso della difesa, se l’imputato avesse in qualche modo cercato di orientare la scelta dei pazienti affinché fosse lui ad eseguire l’intervento, e nella negativa appurare se il prof. A. fosse tenuto al trattamento a spese del servizio sanitario o se invece assistendoli oltre le ore dovute potesse richiedere i propri compensi.

Evidenziano, quanto agli ulteriori elementi costitutivi del reato, l’alcatorietà del concetto di induzione, e le oscillazioni, che si riscontrano nella giurisprudenza di legittimità tra ciò che è e ciò che non è punibile come induzione, per affermare che i giudici del merito avevano inglobato nel calderone dell’induzione concussoria anche vicende, in cui inesistente è la presunta trattativa prima dell’intervento, essendovi prova di una dazione di danaro solo all’esito dell’operazione, e trasformato in induzione punibile ex art. 317 c.p., ciò che altrimenti si palesava come incontro di volontà per un reciproco interesse. La condotta concussiva, incalza la difesa, è costituita da un’attività di convincimento portata a termine in modo tale da determinare la volontà del soggetto passivo, nel quale viene ingenerata la convinzione di sottostare alle ingiuste pretese, laddove le richieste di danaro nella fattispecie concreta non furono mai subordinate alla prospettazione di un pericolo nel caso in cui non si "fosse accondiscesi alle sue pretese. I giudici del merito avevano dato una interpretazione fuorviante del "metus publicae potestatis", finendo col relegare il reato di corruzione a ipotesi residuale, verificabile solo nei casi in cui sia il privato a assumere l’iniziativa "tangentizia", e svuotare di applicazione pratica l’ipotesi di istigazione alla corruzione, posto che ogni richiesta di danaro, per il solo fatto di pervenire da un pubblico ufficiale, presupporrebbe quello sbilanciamento dei rapporti per la supremazia insita nei suoi poteri.

Quindi la difesa passava in rassegna tutti gli episodi contestati, secondo l’ordine affrontato in sentenza, per dimostrare che delle tre indicazioni fornite dall’imputato e ritenute induttive, la prima, concernente l’esposizione di un grave quadro clinico per porre i pazienti e i loro familiari in una condizione d’ansia e maggiore vulnerabilità alle richieste di danaro, corrispondeva alla realtà clinica del soggetto, onde non solo non poteva sostenersi l’impiego strumentale della circostanza, ma anzi sussisteva un dovere informativo, la cui omissione sarebbe stata sanzionabile; la seconda, rappresentata dal riferimento alla lista di attesa, per convincere i malati a un’adesione alle richieste del sanitario per accelerare i tempi di cura, era smentita dalle intercettazioni ambientali, che non evidenziavano alcun riferimento a liste d’attesa, ma solo a programmi operatori, con cui gli interventi venivano pianificati, e mai a lunghi tempi per l’esecuzione dell’intervento; la terza, costituita dallo screditamento degli altri medici dell’equipe, per piegare chi doveva subire un delicato intervento chirurgico ad avvalersi del primario del reparto non si era mai verificata, giacché affermare che vi erano medici in formazione, corrispondeva ad una circostanza reale, riferita del sanitario non come allusione a chi eventualmente avrebbe potuto compiere gli interventi, ma come giustificazione degli impedimenti del primario, che non poteva dedicarsi solo alla cura dei pazienti, ma anche all’attività didattica.

Con il secondo motivo, concernente la determinazione della pena e la riduzione per effetto delle generiche la difesa lamenta l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale e processuale, e sostiene che dal dispositivo della sentenza mancava il riferimento alla concessione delle generiche e che l’interesse a rilevare l’omissione derivava dalla mancata esplicitazione del calcolo, che, essendosi discostati dalla pena minima e dalla riduzione ex art. 62 bis c.p., nella massima espansione esigeva l’assolvimento dell’onere della motivazione.

Con il terzo motivo, concernente la determinazione dell’aumento a titolo di continuazione, eccepisce la mancanza e manifesta illogicità della motivazione e l’inosservanza e erronea applicazione della legge penale e processuale, censurando l’errore in cui erano incorsi i giudici del gravame, i quali avevano quantificato l’aumento nella identica misura stabilita dal G.I.P., omettendo di considerare in tale computo la concessione delle generiche secondo la più autorevole giurisprudenza di legittimità, a mente della quale nel caso di più reati, uniti tra loro con il vincolo della continuazione le attenuanti generiche, riconosciute con riguardo a quello di essi ritenuto più grave, devono ritenersi operanti anche con riguardo ad altri reati, onde nel caso in esame si dovevano considerare le concesse generiche anche in riferimento agli aumenti per la continuazione, che di conseguenza dovevano essere disposti in misura inferiore rispetto a quelli ritenuti dal G.I.P..

Infine con il quarto e ultimo motivo, concernente le disposizioni civili, la difesa deduce la mancanza della sentenza e l’inosservanza della legge processuale, censurando l’omessa motivazione della riforma in termini peggiorativi del capo della sentenza, concernente i danni liquidati alle parti civili.

Le censure di cui al primo motivo di ricorso, quanto alla ricostruzione dei fatti che hanno dato luogo alla vicenda giudiziaria all’esame di questa Corte, esulano dal catalogo dei casi di ricorso, disciplinati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, profilandosi come doglianze non consentite ai sensi del comma 3, cit. art., volte, come esse appaiono ad accreditare una valutazione della prova diversa da quella operata di giudici del merito e una versione alternativa dei vari episodi contestati, indicata come preferibile rispetta a quella adottata nella sentenza impugnata, entrambe precluse in sede di scrutinio di legittimità.

E’ lo stesso ricorrente che, nel sostenere alla pag. 4 del ricorso, che se i fatti, che avevano dato luogo al processo si fossero svolti secondo la sequenza descritta in sentenza, si sarebbe potuto convenire anche sulla ricostruzione giuridica degli stessi, implicitamente ammette di dover introdurre un motivo diverso da quello consentito. Ricorda il collegio che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate e i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari (ex multis Cass. Sez. Un. 24/9/03 Petrella Rv. 226074; n. 12 del 23/6/00; n.6402 del 2/7/97; n.930 del 29/1/96).

In particolare è stato più volte chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è, per espressa disposizione legislativa, rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta nei suoi punti essenziali da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il "senso della realtà" degli appartenenti alla collettività ed infine esenti da vistose ed insormontabili incongruenze tra di loro. Al giudice di legittimità è quindi preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti. Queste operazioni trasformerebbero la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici del merito rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Nel caso in esame tale controllo non può che sortire effetti positivi, giacché la Corte territoriale ha dato adeguatamente conto del proprio convincimento con gli argomenti, ricordati in premessa, fondando "l’affermazione della responsabilità su di un quadro probatorio ben definito, che ha come elemento decisivo le dichiarazioni delle persone offese o delle persone informate sui fatti, l’esito delle intercettazioni ambientali e delle indagini di p.g., e non mancando di vagliare analiticamente le deduzioni difensive sottoposte al suo esame.

Destituite di fondamento sono le censure in ordine alla qualificazione giuridica delle condotte poste in essere dall’A b.. Ritiene il collegio, alla stregua dei fatti così come ricostruiti nella sentenza impugnata, che correttamente i giudici del merito hanno qualificato le condotte contestate all’imputato come concussione ai capi a), c), d), g), h), i), j), n) e come tentativo di concussione ai capi b) e f), evidenziando come nella condotta dell’imputato fossero ravvisabili tutti gli elementi costitutivi di tale reato: l’abuso dei poteri inerenti il pubblico servizio e la induzione del privato a promettere indebitamente danaro.

Nessun dubbio che la posizione di direttore dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia di un Ente Ospedaliere, come l’Ospedale (OMISSIS), comporti l’attribuzione della qualità di pubblico ufficiale e,: quindi la configurabilità del reato di concussione in danno dei pazienti (Cass. Sez. 6^ 1/4/1980 n.1017 Dattolo).

La condotta dell’imputato, come descritta nei vari capi di accusa e come accertata dall’istruttoria dibattimentale ha senza dubbio determinato un oggettivo condizionamento della libertà morale dei pazienti, i quali ricoverati per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici, aderivano alla proposta in una situazione di soggezione psicologica nei confronti del primario, che li sottoponeva a pressioni anche indirette per ottenere quelle dazioni di danaro, di cui le persone offese percepivano l’ingiustizia.

In analoga fattispecie questa Corte ha avuto modo di affermare che l’induzione, sufficiente per la configurazione del reato di cui all’art. 317 c.p., sussiste anche in presenza della sola richiesta di compensi indebiti da parte del medico, preposto al servizio pubblico sanitario, rivolta a persone malate o ai loro familiari, dal momento che questi soggetti si trovano particolarmente indifesi di fronte ad un medico, dalle cui prestazione dipende la conservazione di un bene fondamentale, quale la salute (Cass. Sez. 6^ 29/3/1995 n. 5806 Azzano). Nella fattispecie si è di fronte a condotte che, così come ricostruite in sentenza, configurano indubbiamente una induzione che, com’è noto, non è vincolata a forme predeterminate e tassative, potendo concretizzarsi anche in frasi indirette ovvero in atteggiamenti o comportamenti surrettizi, che si esplicitano in suggestione tacita, ammissioni o silenzi, purché siano idonee ad influenzare la volontà della vittima, convincendola dell’opportunità di provvedere al pagamento indebito richiesto (Cass. Sez. 6^ 1/10 – 31/12/03 n. 49538 Rv. 228368).

Pienamente condivisibile si ravvisa poi l’interpretazione che i giudici del merito hanno dato al concetto di "metus publicae potestatis", allineandosi alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale tale elemento deve essere ravvisato non solo quando la volontà del privato sia coartata dall’esplicita minaccia di un danno o fuorviata dall’inganno, ma anche ove venga repressa dalla posizione di preminenza del pubblico ufficiale, il quale pur senza avanzare esplicite e aperte pretese, di fatto agisca in modo da ingenerare nella vittima la fondata convinzione di dover sottostare alle decisioni del pubblico ufficiale, per evitare il pericolo di subire un pregiudizio, inducendolo così a dare o promettere danaro o altra utilità (Cass. Sez. 6^ 23/10 – 3/12/09 n. 46514 Rv. 245335).

Nessun dubbio poi sulla correttezza della qualificazione giuridica come concussione tentata dei due episodi ai capi b) e f), in cui le vittime rifiutarono la proposta del Direttore dell’Unità Cardiochirurgica, formulata con le solite modalità.

Secondo un consolidato orientamento di questa Corte per la configurabilità del tentativo è sufficiente che siano stati posti in essere atti idonei a indurre taluno a dare o a promettere danaro o altre utilità, indipendentemente dal verificarsi dello stato di soggezione della vittima per effetto del "metus publicae potestatis", bastando che la condotta del pubblico ufficiale abbia determinato una situazione idonea in astratto a generare quel timore per integrare "l’ipotesi di concussione tentata (Cass. Sez. 6^ 25/2/94 n. 6113 Fumarola).

Ne consegue che qualora la persona offesa resista alla proposta, come nei casi di cui ai capi summenzionati, non può parlarsi di inidoneità degli atti, nè di desistenza, ma deve aversi riguardo alla adeguatezza della condotta rispetto al fine che l’imputato intendeva perseguire, potendosi configurare il tentativo di concussione.

Di questo principio ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata, che ha ritenuto la condotta dell’imputato idonea a determinare uno stato di soggezione nei confronti delle vittime dei due episodi contestati.

Sulla configurabilità dell’ipotesi della truffa ha già risposto il giudice del gravame, individuando, in linea con i principi più volte affermati da questa Corte in materia, il discrimine con la concussione nel fatto che nella truffa la vittima viene indotta in errore dal soggetto qualificato circa la doverosità oggettiva delle somme o delle utilità date o promesse, mentre nella concussione il privato mantiene la consapevolezza di dare o promettere qualcosa di non dovuto (Cass. Sez. 6^ 16/12/05 – 23/1/06 n. 2677 Rv. 233493).

Nei casi in cui il paziente o il suo familiare ha effettuato o promesso il pagamento, ciò ha fatto non allo scopo di trarre vantaggio dall’abuso del pubblico ufficiale, ma per effetto di quella situazione di timore provocato dallo stesso imputato. In entrambe le figure di reato l’induzione è lo strumento della condotta antigiuridica dell’agente, ma nella truffa essa avviene attraverso una serie di atti ingannatori, che portano all’errore del soggetto passivo; nella concussione la persuasione avviene per la pressione prevaricatrice del pubblico funzionario.

Allo stesso modo non sembra possibile allo stato ritenere configurabile il solo reato di truffa aggravata in danno dell’ente ospedaliere. Come ha già messo in risalto il Tribunale nella sentenza di primo grado, richiamata dalla corte di merito, i malati erano stati effettivamente operati in regime ospedaliero gratuito e quindi non al di fuori dell’orario di lavoro, come sostiene la difesa, per cui nessun danno patrimoniale poteva aver subito l’azienda ospedaliera, che non aveva "diritto in tali casi di ottenere il pagamento di somme di danaro per gli oneri aggiuntivi, semmai il reato di truffa potrebbe concorrere con quello della concussione, ma mai essere a questo alternativo.

Analogamente deve ritenersi corretta la qualificazione giuridica di istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p., comma 3, in relazione all’art. 318 c.p., degli episodi ai capi k) e l), in cui la richiesta di danaro, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, era avanzata dall’imputato dopo l’esecuzione dell’intervento chirurgico, quindi per un atto del suo ufficio già compiuto, e non preceduta né accompagnata da alcuna pressione psicologica da parte dello stesso, in linea anche qui con la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia (Cass. Sez. 6^ 21/1 – 11/3/03 n.11382; 13/1 – 24/2/00 n. 2265; 8/11/02 – 8/1/03 n. 52); a mente della quale la norma incriminatrice citata è un’ipotesi di reato residuale, introdotta per punire quelle condotte del pubblico ufficiale, che non integrano la concussione e si configurano quando difettano gli elementi della costrizione o della induzione nei confronti del privato.

Lo stesso vale anche per la qualificazione come corruzione impropria susseguente ex art. 318 c.p., comma 2, in relazione agli episodi ai capi m) ed e), nei quali per la sua prestazione professionale l’imputato riceveva dai pazienti una somma di danaro non dovuta in quanto l’intervento era stato eseguito in regime ospedaliero gratuito e in adempimento di un atto del proprio ufficio, per cui non è neppure a parlarsi di tentata truffa, come pure prospettato dalla difesa, non sussistendo alla stregua della ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, alcuna condotta ingannatrice dell’imputato e in mancanza della consapevolezza in capo ai soggetti passivi della doverosità della somma di danaro consegnata all’imputato.

Manifestamente infondata si rivela la censura di cui al secondo motivo di ricorso, in quanto a parte la mancanza di interesse ad essa sottostante in ordine al mancato riferimento nel dispositivo dell’avvenuta concessione del beneficio, il giudice del gravame ha comunque giustificato la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, richiamando da un lato lo stato di incensuratezza dell’imputato e la sua condotta processuale, in parte riparatrice dei danni cagionati ad alcune delle vittime del reato e dall’altro la strumentalizzazione del proprio ufficio da parte dell’imputato in danno di pazienti gravemente ammalati, e facendo corretta applicazione del potere discrezionale, conferitogli dalla legge, nel bilanciare tali opposte circostanze nella determinazione della pena base e della relativa riduzione ex art. 62 bis c.p..

Analogamente infondata è la censura di cui al quarto motivo, anch’essa priva di consistenza giuridica, avendo anche qui il giudice del gravame, nel rideterminare il risarcimento del danno in favore delle parti civili in termini peggiorativi, sufficientemente giustificato il maggior importo richiamando la gravità e l’entità delle sofferenze fisiche patite dalle parti offese, avuto riguardo alla natura della malattia, di cui ciascuna di esse era affetta, e tale motivazione non appare sindacabile in questa sede.

Fondato si ravvisa invece la censura di cui al terzo motivo. Sul punto non può che essere richiamato il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, e qui pienamente condiviso, a mente del quale in tema di unificazione con il vincolo della continuazione di vari reati, le circostanze attenuanti vanno valutate e applicate in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso, non essendo necessario che essa sia presente in ciascuno di essi, essendo invece sufficiente che ricorra in ordine al reato più grave (Cass. Sez. Un. 27/114/08 – 23/1/09 n. 3286 Rv. 241755; Sez. 2^ 14/5 – 26/5/04 n. 24115 Rv. 229719).

Nella fattispecie il giudice del gravame, pur avendo riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche, ha operato la riduzione solo in riferimento al reato ritenuto più grave e non pure ad ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso, in ordine al quale ha lasciato immutato l’aumento determinato in primo grado. Sotto questo profilo si impone l’annullamento sul punto della sentenza impugnata e il rinvio ad altra Sezione della medesima Corte di Appello di Catania, che nel demandato nuovo giudizio provveda ad eliminare la segnalata incongruenza, allineandosi al principio di diritto summenzionato.

Nel resto il ricorso va rigettato con la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile Azienda Ospedaliero – Universitaria Policlinico (OMISSIS), che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena inflitta per la continuazione e rinvia ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla parte civile Azienda Ospedaliero – Universitaria Policlinico (OMISSIS) le spese del grado, che liquida in complessive Euro 2.486,25 oltre IVA e CPA.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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